La mi porti…

Son figlia de migrante, per questo son distante
Lavoro perché un giorno a casa tornerò
La porti un bacione a Firenze
Se la rivedo e gliene renderò

(La porti un bacione a Firenze, Edoardo Spadaro)

30 febbraio 2025
Giardino di Boboli
Il giardino di Boboli è la pace in terra. Il giardino di Boboli a fine gennaio è una mattinata di pace semi-privata al modico costo di tredici euro. La pace si paga sempre cifre simboliche.

Mi basterebbe una nicchia personale, una panchina di pietra incastonata in una siepe con vista cupole quattrocentesche, per far finta che il mondo non stia scorrendo a questa velocità. Mi basterebbe un giardino di Boboli per almeno qualche ora al giorno, ogni giorno. Mi basterebbe aver un pretesto per rimanere soli per qualche ora e fingere che tutto il mondo ruoti attorno ad una panca di pietra sigillata in un giardino silenzioso dall’aria che sa d’inverno, come in una di quelle palle di vetro con la neve finta. Con pettirossi che ti osservano dalle loro alcove e fiori bianchi pre-primaverili che sbucano dai terrapieni ornamentali. La statua di Atena come guardia del corpo personale a vegliare sulla vallata e le scarpe di pelle inzaccherate di fango, come fossi un’annoiata nobildonna nella sua lunga, infinita mattina.

Mi basterebbe far finta che tra poco io non debba prendere un treno per tornare nella Roma dell’Anno del Signore 2025 in pieno tripudio giubilare.

Giardino di Boboli
Scimmie di Boboli
Fontana di Boboli

28 febbraio 2025
Ostello Bello
Arrivo a Firenze accolta da una bomba d’acqua che mi regala un’ora di tira e molla con me stessa nella Feltrinelli della stazione, nel tentativo di non caricarmi più libri di quelli che già stia portando in spalla. È incredibile come, ovunque io vada, trovi sempre il cataclisma nostrano ad accogliermi. Torno ora (letteralmente ieri notte) da un soggiorno in Irlanda battezzato dalla tempesta Eowyn. Vidimo anche questa.

L’Ostello Bello è davvero “bello”, e offre un sacco di attività sociali che non dovrei neanche guardare perché sono qui per un seminario. Le farò tutte. Lascio in custodia lo zaino e utilizzo le ore ben inserite tra cataclisma e check-in nel mio calendario giornaliero per gironzolare liberamente. Non vengo a Firenze da anni, e ci sono venuta tante di quelle volte che ormai ho perso il conto. Mi giro quasi tutta la città su dei tacchi sbilenchi che provocheranno, tra poche ore, delle fitte lancinanti ad ogni muscolo delle gambe. È un residuo bellico della mentalità Ryanair: non portare scarpe di ricambio per portare un bagaglio piccolo. Potevo portarmi letteralmente mezzo armadio. Forse è meglio così, a viaggiare leggeri rimane più spazio per il bagaglio esperienziale, pare.

Faccio avanti e indietro più volte su Ponte Vecchio e i suoi storici, esosi gioiellieri. I suoi incredibili gioiellieri. Compro un paio di orecchini a misura delle mie tasche e delle mie orecchie. Primo ricordo di Firenze, ore trascorse qui: circa due. Passo più volte davanti a Palazzo Vecchio e alla Basilica di Santa Maria del Fiore con la sua imponente precisione architettonica e i suoi negozi di profumi ed essenze rinascimentali. Le essenze rinascimentali. Compro un profumo all’ambra, spezie e una rosa inventata da Da Vinci in persona, tratto da studi filologici su una sua ricetta originale. Il mio secondo ricordo di Firenze, ore trascorse qui: due e mezza. Mi riprometto che non comprerò più nulla. Comprerò anche dei sottobicchieri in legno decorati a mano con tecniche trecentesche. Mi fregano sempre sulle stesse cose: artigianato e alchimia. Entrambe cose su cui ti fregano per forza, a Firenze. Percorro talmente tante volte le stesse strade che ad un certo punto smetto di consultare le mappe e vado sciolta, con gli acquisti a carico e le caviglie pulsanti, un tacco mezzo scollato e il cuore rigonfio di gioia. La gioia che dà il girare senza meta in una soleggiata giornata d’inverno in una città d’arte dall’animo esoterico e il soprabito elegante.

Sono stata tante volte a Firenze. Tante volte ad età diverse. Tante volte e mai abbastanza, tante volte in città diverse. È stupefacente come un luogo non sia mai davvero lo stesso. Sono stata in una Firenze in cui portavo una pelliccetta buffa mano nella mano con i miei genitori, una Firenze in cui il piazzale davanti agli Uffizi era troppo vasto, immenso, la superficie di un pianeta alieno. In quella Firenze c’era troppa arte per poterla capire e i dolcetti di marzapane erano squisiti. Il mio posto preferito era il parco di Collodi, finché non sono caduta in una fontana gelata per tentare di salire su una barca (il leitmotiv della barca continua a tornare anche nei miei viaggi da adulta, forse in una vita passata sono morta in barca perché continuo a volermici fare fuori).

Sono stata in una Firenze in cui portavo dei jeans di marca e delle Converse nere comprate a Londra, mano nella mano con il mio ragazzo del liceo. Quella Firenze era familiare e romantica, offriva ottima birra e taverne medievali, e le vetrine davano alla testa. Il giardino di Boboli era come entrare in uno dei romanzi Harmony di mia madre. Sono anche stata in una Firenze goliardica con gli amici dei primi tempi universitari, una Firenze di sbronze su un Ponte Vecchio sfocato di cui ricordo molto poco. E ora eccomi qui, nella Firenze della me ricercatrice universitaria, a presentare il mio libro con dei tacchi scomodissimi e una cravatta, la Firenze dei diari di viaggio scritti al giardino di Boboli che ora è più un classico di Burnett. Chissà quale sarà la prossima Firenze che visiterò.

Ostello Bello
Attività da non fare in viaggio di lavoro
La perfezione 1
La perfezione 2
Una lunga serie di perfezioni

La camerata femminile da quattro posti è esageratamente grande, con soli due letti a castello lontani l’un l’altro anni luce e, inspiegabilmente, ben due bagni. Per ora ci siamo io e la silenziosissima coreana del letto di sopra, che è la realizzazione vivente dei miei reel di Instagram con le sue cosine tecnologiche e la sua maniacale skincare. Un’indiana oberata da una massiccia mole di bagagli – una valigia in cui potresti occultare un cadavere – ci raggiunge poco dopo, sorridendo educatamente per poi farsi i fatti suoi. Della quarta coinquilina per ora si intravede solo un letto disfatto e una mela verde poggiata sulla mensola della cuccetta, un po’ quadro surrealista, un po’ roulette russa, un po’ cena con delitto. Potrebbe andare benissimo o malissimo.

Svolgo la mia routine – disfacimento bagagli, rifacimento letto, disfacimento tenuta da viaggio, rifacimento trucco – come fossi in una singola deluxe, e mi metto a preparare la presentazione per il convegno che, ricordo, è quello che sono venuta a fare. Nel primo pomeriggio esco a procacciarmi il pranzo dal re della schiacciata fiorentina, il Girone de’ Ghiotti. Immolata su uno scomodo sgabello da banco discendo nel mio personale girone di prosciutto di cinghiale, crema al pecorino e salsa di pomodoro piccante, navigando in uno Stige di birra artigianale che mi dà abbastanza alla testa e per qualche oretta mi fa dimenticare i crampi alle gambe. Il tour del dopo-pranzo è decisamente claudicante.

Mi avventuro verso un museo della massoneria che mi sembra un’ottima idea per impiegare il tempo. Non lo è. È chiuso, ed è lontanissimo, come tutta una serie di altre cose sulla mia lista “Firenze esoterica”. Continuando ad ignorare le fitte muscolari che partono dal tallone, anch’esse abbastanza esoteriche, mi rifaccio una vasca di Ponte Vecchio-Palazzo Vecchio-Santa Maria del Fiore, coi loro gioiellieri, profumieri e artigiani. Rincaso al mio quarto ricordo di Firenze, ore trascorse qui: sei. Un costosissimo pout pourrì dalla ricetta tramandata da secoli nella farmacia più antica di Firenze, aperta ben dal 1221.

La cena è tendenzialmente la scena di un telefilm sperimentale in cui si parla poco e succede ancor meno, che inquadra me in una tavola calda asiatica a consumare del Pho bollente tra famiglie cinesi. Al tavolo a fianco identifico chiaramente una parlata che mi scalda il cuore: due distinti signori indonesiani mi tengono compagnia, inconsapevolmente. Non origlio le loro conversazioni, mi limito a cullarmi nel suono familiare nella lingua che percepisco come natìa anche se propriamente non lo è.            

La quarta coinquilina rientra alle tre del mattino creando un putiferio. Lo sapevo.

L’irruenza dell’Arno
L’immensità di Palazzo Pitti
Il girone dei ghiotti
…e quello dei dotti

29 febbraio 2024
Università di Firenze

Alle sette del mattino sono in assetto conferenza con kebaya giavanese a fiori e due occhiaie invidiabili. Alle nove e mezza sono in via G. ad elemosinare un caffè e una torta di carote vegana alla collega vittima del mio senso di anticipo cronico. Alle dieci e mezza sono in un’aula universitaria a parlare dei miei sette anni di ricerca e vita parallela a persone che non sanno dove stia di casa. Il pranzo è trippa alla fiorentina accreditabile in rimborso spese ed il post-pranzo è la presentazione di un libro interessantissimo vessata dall’inevitabile combo di calo adrenalinico più abbiocco digestivo, con aggravante: difficilissima digestione della trippa.

Alle cinque e mezza sono davanti al primo Spritz – il tipico “Spritz con Select fiorentino” (riesco comunque a trascinarmi tutti dietro senza logica) – e agli strascichi di socialità collegale. Alle sette e mezzo do inizio alle danze con lo Spritz di benvenuto dell’ostello – il secondo – un buon libro sui processi di stregoneria e la free pasta night nella sala comune. Alle dieci sono al terzo o quarto Spritz – ma ormai non conta più – seduta ad un tavolo pieno di nuovi amici. Alla mia destra siede un ragazzo cinese che studia matematica e rimane zitto tutto il tempo, come nei migliori stereotipi. Alla mia sinistra un diciottenne tedesco in Gran Tour, partito da Berlino zaino in spalla a scoprire la vita.

A fianco al cinese un ragazzo irlandese, volontario dell’ostello, che mi fa i complimenti per la mia versione disperata di Hollywood dei Cranberries al karaoke. Per un fortuito glitch probabilistico, viene da Cork, da dove sono appena tornata. L’ospite d’onore al tavolo degli sfollati della vita è nientepopodimeno che la mia coinquilina, una canadese, l’artefice della mia nottata insonne. Diventiamo migliori amiche, gli dedico anche una canzone di Avril Lavigne, il nostro idolo comune. Un altro canadese che riconosce la mia amica solo dalla parlata (mi chiedo come) decide di regalarci una costosissima bottiglia di vino bianco prima di ritirarsi nelle sue stanze. Rimaniamo fino alle due del mattino a parlare di massimi sistemi. Stasera sono io la coinquilina che non si meritano.

Per un’altra fortuita coincidenza, scopriamo che se ne sono andate tutte, quindi la nottata in camerata ora è un pigiama party in doppia con la mia amica del cuore. Nessuna da disturbare, nessuna ha un convegno domani. Lei ha un aereo per Atlanta alle sei del mattino. Se ne va silenziosa senza rumori molesti, e senza lasciare contatti. Una potenziale nuova compagna di vita e avventure a cui sono già affezionata sparita nel nulla sulla scia di un “goodnight” in una camera troppo grande e troppo vuota.

30 febbraio 2025
Giardino di Boboli

Sto qui seduta su una panchina di Boboli con una cravatta al collo, un tacco rotto e un taccuino in mano, a riflettere sul fatto che non c’è niente di male ad essere quelli strani.

Boboli