Remnants of the storm clouds created pale eerie shadows across the night sky. The earth was still wet from the rain, sparkling like the surface of a lake. A large screen loomed there, like the sail of some strange boat. It was a wayang shadow puppet screen, but there would be no leather puppets; human beings would be telling this story (Ayu Utami).
20 febbraio 2025
Palermo, Piazza Marina
Ore 9:00
Caffè Luca. Tavolo 1: ruotato da me medesima con forza bruta in perfetta angolazione luce-asfalto, su un binario morto inghiottito da lastroni sconnessi; in procinto di ordinare una iris fritta da una sediolina in ferro arroccata, vista piazza, mentre il sole ancora si assesta dietro gli alberi secolari del parco. Il cameriere mi impone l’iris al forno. Sono comunque le nove del mattino. È comunque molto più di quanto mi servirebbe per nutrirmi normalmente. Mi mangerei anche pane e panelle, a dirla tutta: questa città mi mette fame.
L’odore del fritto mi ha agguantata sin dalla Vucciria, il primo quartiere in cui ho messo piede appena scesa dal bus dell’aeroporto. Una Vucciria mattutina ancora intorpidita, con un vago sentore di pesce e frittura – un tester di un profumo costoso di cui non percepisci tutte le note e che evapora subito – nella lucidità appannata del mattino che ha appena finito, con comodo, di albeggiare. Nel bus c’era tutta la playlist di Sanremo – il cerchio della vita di ogni santo febbraio in Italia – e non ho potuto fare altro che ascoltarmela. Non sono riuscita a spiegarmi come mi sembrasse di conoscere a memoria tutte le canzoni che ho sentito mezza volta, e come avessi già a noia quelle due o tre che avevo sentito fino alla fine.
Dopo cieche svolte per vicoli sin troppo silenziosi, sbuco su Corso Vittorio, e mi torna l’orientamento. E qui, come a Firenze, ripercorro sugli stessi tacchi instabili (incredibile, l’ho rifatto) strade che ho solcato decine di volte e che, pure, non ho mai veduto; mai come questa volta, mai come l’ennesima e la prossima volta. La Marina non è la stessa di due anni fa, quando venimmo al Festival di Morgana con tutta la banda di gamelanisti romani e la troupe dei francesi. Giorni di delirio performativo affacciati alla balconata d’onore, in testa a Franco u’ Pastiddaro e letteralmente infilati nell’enorme ficus. Era come dormirci assieme. Dalla mia postazione in poltronissima – tavolo 1 – posso vedere chiaramente il balconcino sul quale mi affacciavo insieme a Sara, svegliate dal suono del flautino del maestro giavanese alle sei del mattino. Quante vite possono essere passate dal 2023?
La pace assoluta del limbo mattutino si sfalda man mano che viene presa d’assalto, sbrindellata da trolley, motori e altri suoni umani. Si rarefà e si riempie di ornamentazioni in eterofonia, come un brano per gamelan. In poco tempo la melodia fissa del tema, quiete, è solo un ricordo implicito sotto strati e strati di altri suoni. Il binario morto giace sepolto sotto ammassi di lamiera parcheggiata alla meno peggio, e gli uccelli – fino a poco fa note di abbellimento puntate in una melodia barocca – ora fanno muro sonoro come dei noiser berlinesi. Se c’è una cosa che ho capito dopo anni di viaggi, è che amo osservare i risvegli e che tutto è musica, se presti ascolto.
Panchina del parco
Poco dopo
Utilizzo l’ora rimanente prima dell’apertura del museo per andare a leggere al parco. Mentre cliccavo il dannato volo Ryanair delle cinque del mattino, mi ero già immaginata ad attendere al buio e al freddo su un piazzale deserto. Colpa di tutti i posti nordici in cui vado e che leggo, non senza una punta di ossessione maniacale. Qui non siamo a Göteborg, Oulu, o Tromsø. Siamo nelle latitudini di conforto – climaticamente, uno di quei recinti senza spigoli per neonati – dove il sole non ti abbandona quasi mai, almeno idealmente. Siamo dove le sette del mattino non sono il trailer della fine del mondo, ma sono una colazione colorita e una passeggiata al parco tra inevitabile storia e incontenibile natura, in pieno febbraio.
Il coro ultras di pennuti incalza e non cede la banda di frequenze premium neanche alla rumorosa scolaresca in gita. Sotto il ficus storico che ha visto l’unità d’Italia, il tempo si ferma un po’, e anche io. I colori sono vividi, il clima è regolato su una tacca così perfetta da non invidiare stagioni più avanzate sul calendario. Non so cosa temessi, sinceramente.
Ostello Bello
Ore 18:30
Sto a crogiolarmi sotto una palma “bella”, e un “bel” tempo. L’aggettivo “bello”, per quanto banale e riduttivo, non mi si leva dalla testa. Confermo che è pienamente attribuibile anche all’ostello, forse anche di più del suo omonimo a Firenze. È la mia seconda volta in ostello dopo anni di ruggine da imborghesimento, di ricerca di soluzioni di viaggio comode e mitizzazione del concetto di privacy. Perché mi sono persa tutto il resto? Eppure, ci venivo dal Sudest asiatico, dove la condivisione e la socialità sono pane quotidiano, e dove la scomodità fa folklore.
Ho comunque la solita “fortuna” di quando prenoto con la pancia e non con la testa, e penso di pentirmene, ma poi il karma mi premia: la mia camerata da cinque letti è deserta. Sono praticamente in una singola con bagno privato. L’intero ostello sembra poco frequentato, forse perché ha aperto da poco, forse per la bassa stagione. Fatto sta che, oltre alla suite royale, ho anche una mansarda deserta piena di libri in varie lingue e una terrazza panoramica che affaccia sul porto e su mezza Palermo, una sala chilling, una cucina con adiacente sala colazione piena di strumenti musicali, giochi e postazioni lavoro, e altre sale comuni per ogni necessità, di cui ho perso il conto. Non manca lo spazio, né i modi di riempirlo, così come il tempo. Il sogno del viaggiatore solitario. Girovagare in un ostello vuoto nella bassa stagione, in una località che urla “estate” e “festa”, ha ancora più fascino. Queste serate pungenti di un inverno mite – quasi cugine delle serate estive post-mare, un po’ salmastre – fanno star bene solo al pensiero dell’estate, che rimane lì come un’esperienza in 3D, senza le sensazioni di disagio fisico che di solito comporta. Un’estate pulita, educata, privata, senza sudore, folla, spintoni e violenza acustica. L’idea platonica di estate nell’Iperuranio.
Che non sia propriamente estate è chiaro anche dal mio scopo qui, che sarebbe uno scopo lavorativo, se solo non mi perdessi, come al solito, negli stimoli sensoriali della vita che mi gravita attorno. Se non altro, questo è un lavoro piacevole. Devo catalogare, fotografare e identificare cassetti pieni di marionette indonesiane vecchissime, in gran parte danneggiate e non tracciate, per il Museo Internazionale delle Marionette. E devo anche tentare di farne uscire un volume pubblicabile nella collana di cui sono co-curatrice. Una bella collana da due uscite annuali sulle musiche dei teatri di figura del Sudest asiatico. Una guida all’ascolto e alla fruizione per un pubblico italiano alle prime armi. Un altro tentativo di vivere l’Indonesia col peso del suo passato mitico e di rivivere il mio.
Sto maneggiando strati di polvere e storia, mentre a mia volta ripercorro storie – un po’ come una terapia narrativa – forse risvegliando qualche spirito antico da tempo assopito, con l’aiuto di giovani volenterose stagiste e un fotografo che sto mandando ai pazzi per improvvisare set fotografici, rappezzare pannelli, tendere teli, raddrizzare marionette sbilenche e trovare tesori perduti. Ogni tanto ci perdiamo nel tracciare piste di probabili provenienze geografiche (consapevoli delle scarse probabilità di riuscita), ipotizzare congetture su date, luoghi, protagonisti e percorsi di compravendita di un passato fumoso e già perso. Ogni tanto troviamo una scritta, o un dettaglio, che ci fa sperare e pensare, mentre ci riposiamo gli occhi dalla luce del set e dalla polvere, e poi via di nuovo un altro turno di scatti. Le marionette si animano momentaneamente, nel loro atto unico fuori dai cassetti, riprendono le pose che prenderebbero sugli schermi dei teatri di ombre giavanesi, il wayang kulit, e via di nuovo, sotto al mucchio, nel buio.
Il primo giorno riesco a fotografarne ed elencarne una cinquantina. Per pranzo mettiamo la spunta sull’inevitabile pane e panelle, tappa fissa, da Chiluzzo, consigliato come ogni volta dallo staff del Museo, come fosse la prima volta. Un uroboro culinario che si mangia il proprio fegato. Nel pomeriggio riporto in vita qualche altra figura mitologica giavanese, e poi mi presto ad assistere il mio collega alle prese con lo hsaing waing birmano: una colossale orchestra di gong e tamburi intonati, sovrastata dalla creatura mitologica più bella dell’Asia: il pinsarupa, cinque animali in uno, a vegliare sull’ensemble, sul museo, e sulle nostre anime antropologiche. E via, altri strati di polvere e storia, altri misteri. Un tamburo di troppo, un flauto cinese in incognito, una scatola di marionette ritrovate e ricongiunte alla comunità.
Lascio il museo alle cinque del pomeriggio su famiglie che attendono lo spettacolo dei pupi siciliani – per i miei amici indonesiani, a cui mando le foto, “wayang Renaissance!” – e il solito Nosferatu in cartapesta a grandezza umana che mi terrorizza dall’angolo. Sono dieci anni che vengo qui, ma ancora ci casco.
21 febbraio 2025
Ostello al risveglio
Mattina
La serata trascorre nei vicoli di una Vucciria spenta in cui l’unico ricordo dell’overtourism estivo è la solita via dei ristoranti “tipici”, in cui ti infili consapevole del torto che stai per autoinfliggerti. E ce lo autoinfliggiamo senz’altro. Accalappiati da un polipo a più teste, dove l’unica differenza la fa il nome del locale e la grafica del menù, ci districhiamo come in un campo di rugby nel tentativo di arrivare alla fine di quei temibili cento metri, riprendere fiato a fondo campo, e tornare indietro puntando a meta il ristorante deciso da noi, e non imposto dalla forza altrui. Non cambia niente, è solo una questione di autodeterminazione. Un’altra terapia sociale che sfrutta strumenti di vita quotidiana. Se prendessimo ogni giorno così la vita, non servirebbero più psicologi.
Ci sediamo da Dadalìa, sempre per risolcare vecchi sentieri di vecchie vite ed esperienze lavorative, con altre persone e altri noi stessi, ma sempre qui, pressati nelle vie di Palermo col sedere sulle stesse sedie di qualche mese o anno addietro. I motorini sfrecciano tra i tavoli mentre venditori e banditori con fischietti ci assordano per venderci l’invendibile. I banditori hanno il pos. È sempre una questione di innovazione e tradizione. Cantastorie e altoparlanti gracchianti. Espressioni dialettali e luci stroboscopiche. Capitalismo e santi patroni.
Mangiamo gli ennesimi carboidrati, da quasi ventiquattr’ore ore, farciti di latticini, zuccheri e altri carboidrati innestati in altri carboidrati, una gigantesca matrioska satura di colesterolo (e carboidrati) in cui ti tuffi, affogando le frustrazioni e i disagi. Libero di ingozzarti e di sporcarti, circondato dal delirio incalzante – avventori che ballano tra i tavoli su Bella ciao e stornelli de-regionalizzati in un unico grande medley pan-italiano – rilasci lo stress quotidiano in un bagno di umanità, sentendoti compreso e accolto nel disagio condiviso. È uno dei motivi per cui trovo irrinunciabili queste esperienze, con tutte le riserve del caso.
Pomeriggio
Stamattina mi sveglio in una camerata vuota. Esco su un piazzale di luglio, con sole accecante che filtra tra alte palme e musica reggaeton dagli altoparlanti dell’ostello. L’odore di pesce del porto confeziona il tutto. Rifletto di nuovo sull’estate e capisco che, in fondo, non la odio così tanto, odio solo l’uso che ne fa la società, così come quei posti l’estate se la portano sempre dentro.
Vado per la seconda colazione da Luca e ricasco sull’iris. Al forno, per carità. Stavolta consumo al bancone, perché è troppo tardi e la quiete mattutina esterna è già rovinata dall’ingranaggio della vita quotidiana che macina e stride sempre di più verso le ore centrali. Sono a quota quarantotto ore di soli carboidrati complessi. La cassiera mette subito in chiaro le cose: “Prima fai colazione, poi paghi”. La lascio a incartarsi in un inglese “esotico” con un turista americano che non ha ancora capito come funziona l’euro dal 1999. Entrano inevitabilmente in un loop micidiale di fraintendimenti linguistici su cui potresti comporre una traccia elettronica di successo.
Arrivo al museo alle undici con tutta calma, alla luce del mio appuntamento alle dieci e mezza. Ma nessuno sembra avere fretta. Un altro elemento chiave per cui ritrovo un po’ del mio caro Sudest asiatico in qualche Sudovest italiano. Se Napoli è Bangkok, Palermo è un po’ Surabaya. Riprendo le mie povere marionette sgangherate e polverose, scatto foto e scrivo numeri di inventario, me le giro e rigiro facendomi miliardi di domande sulle loro storie impossibili da ricostruire. Oggi tiriamo fuori anche quelle balinesi, su cui sorgono ancora più domande: un raksasa (demone) con una pergamena in mano scritta in alfabeto antico, due soldati che mutano forma se li giri fronte-retro, un’enorme magnifica marionetta di barong (lo spirito buono dalle sembianze di leone). Chiudiamo su armi e battaglie, come ogni buon wayang della tradizione. Prima della pausa pranzo, torno a dare un’occhiata al reparto Myanmar, dove nel frattempo è stato allestito un set di tutto rispetto. Lo hsaing waing è più paparazzato delle Kardashian. Poco più giù, nell’angolo dell’allestimento delle marionette sperimentali, la musica di sottofondo richiama palesemente Aku Rapopo di Julia Perez, una delle hit più trash che l’Indonesia abbia mai sfornato.
Da Chiluzzo segniamo un’altra tacca sul menu palermitano – e sulle cinture, trentasei ore di carboidrati – con arancine (femminile, per decreto-legge) e pane ca’ meuza. Il caffè ce lo prendiamo in una cioccolateria, tanto per tenere alta la soglia glicemica. Il pomeriggio è manovalanza pesante con lo hsaing waing di cui vanno fotografati i pezzi più ingombranti e irremovibili. Spostiamo tutto, suoniamo tutto: il cerchio di gong suona pélog giavanese, non dovrebbe (per qualche strano sortilegio, oggi suona tutto giavanese), qualcosa suona da sola. I rischi del maneggiare il Sudest asiatico.
Faccio una pausa autogestita alle cinque per vedermi lo spettacolo dei pupi nella sala grande. Orlando combatte contro i saraceni, Angelica è indiana, Rinaldo è geloso. L’organo meccanico suona melodie di altre epoche. I marionettisti sono un papà con due figli e un nipote a seguito. Angelica è rapita, Orlando combatte, Rinaldo si batte e i saraceni cadono ad uno ad uno, corpi ammucchiati sul boccascena, teste e corpi mozzati, effetti spettacolari per dei personaggi in legno e metallo, delle marionette che fanno gesti fin troppo umani. Nella mia testa: wayang Renaissance. Gli indonesiani colgono sempre nel segno.
Sera
L’aperitivo è offerto da Ostello Bello. Il welcome drink è sempre uno Spritz, che comunque per gli stranieri è una cosa un sacco “local”, indipendentemente che tu sia a Venezia o in Sicilia. L’aperitivo è planning editoriale per i libri del museo, ma in compagnia di discutibili brani musicali trap in sottofondo, e uno spritz gratuito. La cena è da Cicco passami l’olio per celebrare festosamente le quasi quarantotto ore non-stop di carboidrati. Finiamo con birra d’autore all’iconico Ballarak, su una piazza (estiva) piena di gente seduta un po’ ovunque, come ogni novembre, maggio, giugno e febbraio che veniamo qui a vidimare il ciclo del samsara.
Rincaso su un porto notturno traboccante di giovane movida, scavalcando corpi di monopattini inermi a terra, come i morti saraceni sul boccascena. Con mia grande sorpresa ho una coinquilina, che dorme. Faccio del bagno il mio studio per sbrigare le ultime chiamate e faccende al computer.
22 febbraio 2025
Aeroporto
Mi sveglio a suon di carretto ambulante rigonfio di verdure e aria nei polmoni. Prevedibile e forse, prima o poi, inevitabile, ma con il giusto entusiasmo nel vedere materializzarsi stereotipi viventi davanti agli occhi. La coinquilina dorme da quando sono entrata in camera e non accenna a svegliarsi, è quasi un oggetto di scena. Cerco di fare tutto senza rumore e vado in giro per l’ostello ad elemosinare prodotti per l’igiene personale su cui ho lesinato miserevolmente (Ryanair…). Mi perdo per l’ennesima volta nella sala colazione e ci guadagno un caffè a scrocco dalla macchinetta in funzione e un tizio più perso di me che mi invita ad un pub crawl. Sono le nove del mattino. Faccio il check-out con un dolore al petto e non mi trattengo dal comprarmi la maglietta che recita “Smiling outside, hangover inside”. Avrei voluto vivermi questo ostello più di quanto ho avuto modo di fare, con tutti i karaoke e le serate anni ’90, e tutta un’altra serie di cose che sei portato a fare quando il viaggiare da solo ti fa capire quanto non vuoi essere solo.
Mi incammino verso il museo con tutta la calma possibile e tutto il bagaglio a carico, con le snickers dentro lo zaino, e il tacco rotto degli stivaletti che mi guarda da sotto il mio tallone dandomi implicitamente della scema. Oggi per colazione chiedo una iris senza ripieno (“Che? Una brioche?”, “sì”). Siamo a cinquantasei ore di carboidrati, è quasi un film horror. Oggi diamo un ultimo sguardo alle marionette, qualche ultima foto, ultimi appunti sul bordo di un foglio pasticciato fino all’inverosimile, una visita alla biblioteca, scambio di contatti e si va a mangiare da Franco U Pastiddaru. La carbo-challenge arriva a un record di sessanta ore consecutive. Sessanta incredibili ore senza toccare qualcosa che non sia stato panato e fritto nell’olio.
Neanche facciamo in tempo a schiodarci dalle seggiole in plastica, che Ilaria, l’omonima collega di Palermo, ci porta a “fare merenda” dalle Angeliche, altro baluardo culinario palermitano. È praticamente un secondo tempo del pranzo con breve intervallo, una mangiata che va avanti dall’una e si protrae fino oltre le quattro del pomeriggio. Non so più cosa sia dolce e cosa sia salato, cosa sia più fritto. Mangio con religioso silenzio e tocco la bandiera del traguardo mentre l’ultima vena si ottura. Non voglio mangiare mai più.
Sulla via del ritorno, passiamo per il mercato del Capo, il terzo mercato storico di Palermo, ed entriamo a visitare una meravigliosa chiesetta dove è in corso una messa. Un signore sviene durante la funzione, ma per fortuna si riprende in breve tempo, con una folla preoccupata attorno e lo sbigottimento del prete ammutolito che rimbomba tra i riccioli barocchi dell’intonaco. La mia uscita trionfale da Palermo.
Sipario.