SANTI IRLANDESI #4: Il sacro folk

I have learnt that there is no need to be alone in the middle of a crowd; I’ve learnt how to scale a fortress on a cliff during a storm, how one never truly abandons their pagan gods even when they take the form of local saints; that all couples should be like rain and wind together – unstoppable – and that it doesn’t matter how grey your daily sky may be if you use every shade of color available to make your life better (Dal mio Instagram).

26 gennaio 2025
Autobus per Kinsale
Ore 10:30
Trascorriamo il pomeriggio del 25 gennaio a rincorrere posti cittadini che vorremmo visitare prima che ci chiudano in faccia e che il buio si rimangi tutto di nuovo. La sera, il sabato sera, diamo una seconda perlustrazione ai pub che offrono live music e birre che sanno di grigliata mista. Al The Corner House ricerchiamo le vibes del Sin é, che è letteralmente la porta accanto, non trovandole. Gli interni sfoggiano lo stesso horror vacui, bici appese ai soffitti, riproduzioni di quadri espressionisti costellati di istantanee di sconosciuti ubriachi, strumenti musicali che nessuno sa più suonare, loghi, marchi, storie altrui. La differenza è che è molto più grande, pieno di tavoli rimediati da qualsiasi legno dalle forme bizzarre, addossati qua e là, ad uso di tutti quelli che vogliano sedersi indipendentemente dalla compagnia con cui sono venuti. Non importa con chi ti siedi, ai pub irlandesi non sei mai solo. L’altra differenza è che non c’è la musica, non questa sera, diversamente a quanto lascia ad intendere il magnifico mosaico sulla facciata esterna che ritrae musicisti armati di flauti, mantici e banjo.

Rimaniamo il tempo di due birre dall’apporto calorico di un cotechino e un mio fugace tete-a-tete con un matto locale al bancone del pub, che continuava a dedicarmi canzoni e a ridere come se fosse l’ultima risata che potesse farsi sulla terra. Io non ho contribuito molto – non che ce ne fosse bisogno, era perfettamente autoattivante e autosostenibile – eccetto i miei tentativi di pagare un barista che se ne fregava altamente dei miei soldi, il che lo mandava, letteralmente, ai pazzi. E via di canzoni e risate: “You could just runaway, you know, it’s freeeeeee beeeeeer”. Risata celestiale. Il barista ne è pieno come una botte di malto d’orzo, ma non lo caccia, lo sopporta. Alla fine pago, e lo deludo.

The Corner House
Mus-aici

Ce ne andiamo prima di venire fagocitati da quelli dei tavoli a fianco. È difficilissimo non socializzare nei pub irlandesi perché tutti ci vengono con l’idea che siamo un’unica comunità, non esistono coppie, amici, colleghi. Non esistono gruppi, l’unico gruppo è il pub. Ai pub irlandesi non ci vai per stare solo tra la folla, non sei un’unità nel tutto, sei il tuo tutto in un’unità, un microcosmo di boccali come piccoli grattacieli che uniscono gli isolati-tavoli in una grande festa di quartiere. Per pochi minuti, o poche ore, gli sconosciuti sono i tuoi migliori amici e il mondo è un posto accogliente e sicuro. Almeno finché qualcuno non alza troppo il gomito e scatti una rissa.

Il secondo pub non è intenzionale, ci capitiamo quasi per caso attirati dalla musica folk che sentiamo dall’esterno a tutto volume, che in realtà, scopriamo a malincuore, è quella di una festa privata al piano di sopra. E via ancora di violini, harmonium, chitarre e cornamuse. Entriamo comunque per non morire di freddo. Qui tento di ordinare del sidro Orchard Thieves, che probabilmente pronuncio malissimo perché ricevo in cambio due birre Coors, pure lager americane fatte con acqua di sorgente degli Appalachi. America e birre chiare, due delle cose che odio di più. Ce le facciamo andare giù senza troppi complimenti. Non sono neanche così male da poter indignarsi più di tanto, anzi, contribuiscono a ricacciare in fondo allo stomaco il bastimento di fish&chips frittissimo della cena.

La terza tappa è il The Oliver Plunkett, uno dei pub più famosi, a pochi passi dal nostro alloggio. Per arrivarci passiamo attraverso un serraglio di ventenni seminude in fila per un ingresso in discoteca che costerà più di qualche broncopolmonite. Alcune sono letteralmente in ciabatte. È una cosa tutta anglosassone quella di uniformare l’outfit delle serate in discoteca del weekend sullo stesso raggio della ruota dell’anno, che cade più o meno tra luglio e agosto, sempre, anche a gennaio. Al Plunkett stasera suonano i The Alley Cats, una band punk-rock americana (l’America comunque non ti molla, in Irlanda) che mi trascina dentro letteralmente per i capelli a suon di Avril Lavigne e una serie di altri gruppi che ricordano la mia adolescenza. Non serve consumare, serve solo entrare e ballare musiche imballabili con i cappotti addosso, assieme agli ennesimi sconosciuti del cuore, che sono già parte del tuo team prima ancora che tu te ne renda conto. Quelli più socievoli sono i signori e le signore di mezza età che sembrano divertirsi come pazzi, più dei giovani là fuori ridotti a statue di ghiaccio da matrimonio di gala nelle loro pantofole pelose sotto le minigonne senza calze. È un divertimento comodo, familiare, un po’ nostalgico, a misura di essere umano.

The Alley Cats all’Oliver Plunkett

Quando rincasiamo ritroviamo gli stessi energumeni piantati al pub del piano di sotto, ancora in piedi nelle stesse postazioni da questo pomeriggio, ma con qualche birra in più a carico e decisamente più alticci e rumorosi. Ci infiliamo nel portone prima che oltrepassino un limite a cui sono pericolosamente vicini. Tentiamo di addormentarci sulle note del chitarrista sotto casa che strimpella “Rocket Man”, consapevoli che qua fuori stanotte sarà Sodoma e Gomorra, e noi abbiamo un autobus per Kinsale all’alba. I vantaggi del B&B in centro.

Autobus per Kinsale
10: 30
Sono le sette del mattino e quello che ci separa dalla stazione di Cork è segnato in rosso sui grafici metereologici. Un’invidiabile domenica di tempesta per andare in cima a una scogliera. Ci siamo svegliati a suon di raffiche ventose contro il vetro antico di vetusti infissi non isolanti, in fading su echi di folk irlandese dal baretto al piano di sotto. Gli echi di un sabato sera tipicamente irlandese mixati a un soundscape climatico tipicamente irlandese. Sono le sette del mattino e siamo già intrisi di hangover e tradizione. Tutto è tradizionale, come le nostre imprese del ca***.

Stiamo andando a Kinsale, cittadina costiera ad una cinquantina di minuti da Cork, a visitare un castello in cima a una scogliera. Il nostro autista guida come un pazzo sballottandoci da una parte all’altra mentre le raffiche di pioggia violentano la maxi-vetrata dei nostri posti in prima fila al piano superiore. Sempre in poltronissima per i cataclismi.

Una corsa sofferta su un 226 preso a suon di guerre di ombrelli schiantati in faccia e secchiate d’acqua nebulizzate. Mi chiedevo perché gli irlandesi non utilizzassero gli ombrelli. Ora mi sembra più che chiaro. Gli irlandesi non usano ingombranti k-way di plastica, come i sottoscritti. Gli irlandesi escono in pigiama e ciabatte scamosciate sotto la tormenta in una tranquilla domenica di bufera dopo un sabato sera di bagordi a suon di cover punk-rock e folkettari da osteria. Un “latte” aromatizzato a qualche diavoleria da asporto ad assorbire l’alcol residuo e via a passeggio. Obiettivamente, non è che ci sia un altro modo di prenderla.

Scendiamo al capolinea dell’autobus su un porto semi-deserto e abbastanza uggioso. Il cuore pulsante di Kinsale. Ogni attività commerciale sembra chiusa a doppia mandata, tranne dei pub che non vendono birra prima delle 12:30 (la domenica, e non prima delle 10: 30 i giorni lavorativi), e un supermercato dal reparto alcolici sbarrato ma che ci regala degli scoones spugnosi e delle ottime patatine al tacchino ripieno. Penso sempre che se hanno messo delle regole è perché quello che hanno vietato succedeva davvero, e quello che succedeva prima delle dieci e mezzo del mattino fa un po’ riflettere.

Baia di Kinsale
Degli ottimi acquisti

Dato che ogni nostro piano di una calda colazione con birra sembra irrealizzabile, guadagniamo tempo e ci incamminiamo subito su per la scarpinata al Fort Charles, lasciandoci alle spalle le pittoresche casette colorate e le barche dei pescatori ormeggiate nella baia. Fort Charles è un castello a forma di stella in cima ad una scogliera ventosa. Un ex forte militare ben conservato, non troppo antico (diciassettesimo secolo ca.), che si affaccia sulla baia come fosse un gigante in ozio a godersi il panorama in pizzo sull’ennesimo nowhere del mondo.

La strada in salita è ancora quasi fattibile, e anche pittoresca, tra le stradine tortuose e i villini assiepati su un dirupo acquitrinoso dai muretti in pietra limacciosa. Un villaggio elfico contemporaneo, sfocato da pioggerella nebbiosa in cui ogni colore acceso degli intonaci risalta in modo ancora più vistoso. Man mano che saliamo verso il forte la situazione climatica precipita. Entriamo consapevoli di essere soli in un forte deserto in cui sta imperversando un disastro climatico da non poco. Armati di inutili plastiche anti-pioggia, cappotti, guanti e sciarpe cominciamo a gironzolare tra i vecchi bastioni e i locali in pietra deserti. Dopo pochi minuti, ci rendiamo conto che ogni tentativo di non bagnarci è vano, quindi ce ne freghiamo e ci diamo alla pazza gioia spostati dal vento e zuppi da cima a fondo. Passiamo le ore più belle da quando siamo qui.

Fort Charles
Rovine
Una soleggiata domenica di villeggiatura

Ridotti come due naufraghi ci andiamo a rifugiare ad un pub poco sotto al castello (l’unico), guidati dalle onde mostruose che si scagliano sul parcheggio di fronte minacciando di ingurgitare le auto parcheggiate. Cinque birre scure e dense più tardi usciamo ancora umidicci e provati tra il tripudio di famiglie schiamazzanti. È il bar del family day della domenica, un festoso brunch nei quartieri residenziali del sud Irlanda marittimo. Usciamo sulla vista del signore appena entrato con racchetta da tennis in tasca accompagnato da due enormi levrieri con cappottini impermeabili sicuramente più resistenti dei nostri.

Bulman
Bifamiliari elfiche a schiera

Paradossalmente, l’unico posto che troviamo aperto al nostro rientro in città è un emporio di alcolici. Facciamo il pieno di sidro (che mi fa ancora gola da ieri sera) e ci rimettiamo in corsa sul fast and furious delle cinque del pomeriggio sgranocchiando patatine al tacchino ripieno, che non sanno poi di molto se non di rosmarino condito con un ideale culinario di folklore. Entriamo trionfalmente a Cork tagliando un semaforo rosso e urtando un marciapiede.

Stasera torniamo al Sin é perché obiettivamente è il posto che convince di più umanamente e musicalmente tra tutti quelli visitati. I musicisti sono diversi, ma l’energia è la stessa. Sa di Irlanda, di casa, di casa in Irlanda, di un caldo abbraccio nel malto e nei semitoni calanti potenzialmente infinito e senza tempo. Stasera ci sono più violini e chitarre, manca la cornamusa, e c’ un signore che intona canti a cappella tra un tripudio di apprezzamenti di folla. Ci sono anche due turisti inglesi, una coppia di mezza età, che intrattengono una conversazione smorzata e incerta, un po’ brilloccia e di circostanza, all’inglese. Finalmente provo il sidro Orchard Thieves e ne vale decisamente la pena. Concludiamo in bellezza: cacciati dalla security per aver sforato l’orario di chiusura, involontariamente e beatamente. E via di nuovo sguinzagliati per le strade deserte e piovigginose di una Cork caliginosa di pieno inverno.

The Orchard Thieves
Casa

25 gennaio 2025
Cobh
Ore 13: 00
Qui sferzati dall’ennesima tormenta a cui non abbiamo creduto. Oggi non è ai livelli di Kinsale e Fort Charles ma comunque si difende a raffiche di vento a 40 Km/h e battesimi di pioggia sottile ed infida come il male. Uno stillicidio costante e capillare che ti si infiltra nell’anima, oltre che in ogni fibra di tessuto che tu possa stiparti addosso. Prendiamo un autobus diverso ad un posto diverso ma che ormai ci sembra di conoscere come fossimo cittadini pendolari. Cobh è facile da raggiungere e quasi indolore, a una quarantina di minuti da Cork, sulla costa. Praticamente come andare a Fregene.

Le attrazioni principali sono la schiera di case colorate che scendono al centro cittadino, sormontate dall’imponente quanto cupa cattedrale gotica che sembra un essere leggendario pronto ad abbattersi su quei poveri quattro mortali. Una lunga fila di casette dai colori pastello appiccicate su un cielo di una palette che non gli appartiene, un ordinario grigio cataclisma nordico, affastellate su un’erta che scivola dritta al porto e alla piazza principale. Un posto che se lo immagini col sole potrebbe essere una qualsiasi Procida, Burano, Nihavn, Balat… e invece è un paesino piovoso sull’Atlantico pieno di storia, e di storie, che vanta comunque qualche motivo per venirlo a visitare.

Cobh per Instagram
Cobh per Facebook
Cobh per noi
Cobh

Una delle faccende più note è forse proprio quella del Titanic, per il quale c’è un museo dedicato e ben fatto. Museo che ovviamente non riusciamo a visitare perché c’è un’intera scolaresca che ci ha pensato prima di noi. Il transatlantico reso noto dalla tragedia del 1912, rivisitata in ogni salsa da scrittori e cineasti, è stato costruito a Belfast e ha fatto il suo ultimo scalo a Cobh, prima di salpare per sempre.

Titanic

Disastri memorabili a parte, Cobh è piena di storie di migrazioni, colonizzazioni e spopolamenti, come ci testimonia il signore autoctono che decide di intrattenersi con noi nei lunghi minuti di attesa del bus di ritorno. Un uomo di mezza età bardato di tuta impermeabile integrale di ritorno da qualche commissione che esordisce con: “Terrible weather, uh?”. Non riesco a dargli torto. Basta questo ad innescare un lungo monologo sulla sua vita, dal parto in casa alla svendita di immobili ai tempi di un qualche suo avo, medico discendente di una famiglia di medici che hanno fondato l’odierno ospedale quando ancora Cobh era poco più che un insediamento di pescatori. Ci parla della lenta costruzione dell’agglomerato urbano grazie a giovani talentuosi dai mestieri utili che hanno deciso di insediarsi qui, tra una migrazione e l’altra. Penso che io, in quanto etnomusicologia, a Cobh avrei avuto poco da offrire. Ci parla dei risvolti positivi di avere la pioggia battente duecento giorni all’anno, come il verde rigoglioso dei prati e l’aria fresca e pulita. Si vede che ama la sua cittadina e non baratterebbe un soffio di bufera per nessun vantaggio climatico di qualsiasi altro posto nel mondo. È fiero della sua discendenza e del suo stile di vita in questo piccolo angolo di costa occidentale.

Tempo di finire di infradiciarci – proprio per non lasciare margine alla prevenzione di una broncopolmonite cronica – sulla spiaggetta sotto al faro pregna di acqua scura che si scarica su di noi dal cielo e dal mare, privi di ogni sorta di ombrello e riparo, e facciamo ritorno alla base, e a casa. Nelle prime ore del pomeriggio siamo all’aeroporto a berci l’ultimo sidro e a far asciugare gli ultimi indumenti appiccicati addosso dalla mattinata turbolenta, i bagagli carichi di parafrenalia celtici. Dani vive dei momenti imbarazzanti al metal detector, perché una delle croci di Brigid, quella in ottone, fa pensare obiettivamente a uno shuriken se vista da uno scanner. Appurato che non siamo spie giapponesi ma solo due invasati neopagani, passiamo oltre, verso i nostri posti divisi ma vuoti, nel nostro volo in ritardo, come previsto dalle buone pratiche Ryanair.

Biglietto in prima classe per la broncopolmonite
Ultimo sidro
Credits