This is a song after heavy rains.
In my honour red ribbons stream
From the oaks, a child’s cloth
Smooth as a scar, the well awaits
What runs unseen must emerge
They have carved my image into stone
Torn up my skull between ruins
But still I am known
By the river’s route underground
By the river’s sound as it calls.
(Lúireach Brigid, Annemarie Ní Churreáin)
24 gennaio 2025
Aeroporto di Ciampino
Ore 9:30
Siamo seduti su sterili sedie metalliche, angolo distributore automatico, ad autocommiserarci osservando un tornello degli imbarchi dove non possiamo entrare fino alle 11:30. Dovevamo essere già dentro, per partire alle 10:55, ma non partiremo fino alle 15:30 grazie ad Eowyn, la più grande tempesta che l’Irlanda abbia mai visto. In questo momento l’Irlanda è un vibrante punto violaceo su un mappamondo dai noiosi colori pastello, mentre il web pullula di allerte e messaggi apocalittici in cui risuonano le parole: “bomb”, “disaster”, “life risk”. Avevamo solo deciso di andare a Cork. Avevamo solo deciso di andare in un punto a caso del globo dove proprio in queste ore si sta consumando uno dei più grandi disastri climatici mai visti. Tutto è precipitato nelle ultime diciassette ore, poco dopo aver prenotato il nostro alloggio last second. Non credo di avere altro da aggiungere.
Una ragazza seduta accanto a noi, in preda allo stesso destino – parcheggiata nel reparto eterni disperati dei voli ritardati – ci tiene compagnia nella speranza di guadagnare qualche minuto sulle estenuanti sette ore di attesa. È una neocatecumenale che sta andando a fare quattro mesi di missione in Irlanda, partita dalla sua casa nelle Marche alle due del mattino. È partita alle due del mattino per essere qui ad attendere fino alle 15:30 parlando di missioni religiose, hobby e considerazioni randomiche sulla tempesta più grande nella storia d’Irlanda con due sconosciuti. È partita dall’altra parte d’Italia in piena notte col suo fuoco sacro della fede in Cristo per ritrovarsi di fronte due tizi pieni di gingilli pagani, in procinto di andare a festeggiare Imbolc ad un luogo di culto di una divinità druidica. Lei, un’enorme croce dorata che le pende dal collo; noi, croci di Brigid argentate intrecciate al noce di Benevento. Qualche secolo fa saremmo stati dalle parti opposte di un’enorme pira in una piazza pubblica.
Stiamo andando tutti in Irlanda per fini spirituali, in fin dei conti, fedi diverse, sorte comune. Tutti vanno in Irlanda per qualche santo irlandese, che sia Cristo, una dea pagana, una band musicale o il culto dell’alcol. Se la forza distruttrice di Eowyn ce lo permette, domani, lei sarà sana e salva alla sua parrocchia e noi a quattro zampe in qualche pozzo pagano. Sempre che tutto non venga spazzato via dai venti atlantici con le chiese, i pozzi, i pub, i santi irlandesi e gli idoli pagani, il nostro volo, le nostre speranze.
Ore 9:57
Dani, accasciato sulla panchina del piazzale dell’aeroporto, consulta l’orologio nella speranza che il tempo sia meno relativo di quanto sostengano gli studi di quantistica: “Cioè è passata solo un’ora, voglio morì ”. È relativissimo, e straziante. Su Instagram, nel frattempo, impazzano reel di irlandesi che prendono in giro le eccessive allerte meteo gettandosi acqua addosso per simulare un uragano immaginario.
Ore 12: 52
Alle 11: 25 svolgiamo le regolari procedure d’imbarco. Alle 11: 50 compriamo una bottiglia di spumante al Duty Free ed elemosiniamo due bicchieri di plastica al bar, ci sediamo in un gate ancora deserto e cerchiamo di capire come stappare una bottiglia senza far partire l’allarme bomba. Poi ci sovviene l’informazione dataci dalla cassiera tra un: “Oh, so’ quelli de’Cork” e un: “Eh… ma pure mi’ nipote…”. Pare che la Ryanair offra il pranzo ai passeggeri di voli in ritardo. Ci tocca tornare sui nostri passi, uscire fuori dai gate. Non battiamo ciglio, bottiglia sotto al braccio, superiamo i controlli di uscita raccomandandoci alla polizia aeroportuale in persona e ci fiondiamo al bar. Siamo al punto di partenza, quattro ore più tardi.
La Ryanair ci offre quattro euro a testa di consumazione in un posto dove un’insalata costa nove euro e un panino costa quanto il nostro volo. La cameriera: “Ah, siete quelli di Cork… OH, SO QUELLI DE CORK!”. Prendiamo due pizzette striminzite aggiungendo 1,80 euro di vergogna e usciamo nel piazzale. È picnic. Armati di spumante e companatico ci buttiamo sulle familiari, impietose, sedie metalliche in una Ciampino che sembra Haiti. Faranno venti gradi. In una Roma di gennaio che sa di aprile, nel tepore mattutino e sotto un affettuoso cielo azzurro, ci ricordiamo che stiamo per imbarcarci per il posto che al momento vanta il primato del clima più ostile al mondo.
Facciamo presente ai due militari di servizio che stiamo per stappare una bottiglia, pertanto, di non arrestarci. Oggi è una di quelle giornate in cui è meglio prevenire tutto. Alla luce di mezzo litro a testa di spumante, ci rendiamo conto che mancano ancora tre ore alla partenza e ci pentiamo di non aver preso una seconda bottiglia. “Me sa’ che tra un po’ avvisiamo pure i militari all’interno”.
Ore 13:00
La carta d’imbarco non permette due ingressi, bisogna rivolgersi alla sicurezza. La sicurezza: “Oh, quelli de’ Cork!”. Il potere della miseria ci apre ogni porta.
Aereo
Ore 15:21
Dopo una interminabile attesa, oberati di cappotti termici e sciarpe di lana non inseribili in nessun modo nei costrittivi bagagli a mano, si parte. Credo di avere perso tre chili.
L’80% dell’aereo è composto da italiani che scoprono di avere conoscenti in comune parlando da un sedile all’altro. Ma soprattutto, il 60% sono italiani che volevano andare a Dublino (da Fiumicino) e sono stati dirottati a Cork (da Ciampino). Il 20% di quelli che volevano andare davvero a Cork, inclusi noi, non avrebbe riempito mezzo aereo. Abbiamo sacrificato sei ore del nostro viaggio per salvare il viaggio di qualcun altro, e la baracca alla compagnia aerea. Il pranzo dovevano offrircelo al Gambero Rosso.
Ryanair ha avuto anche la faccia di assegnarci i posti in file diverse, nonostante avessimo un’unica prenotazione e tutti quelli attorno a noi fossero vuoti. Così, tanto per farci pesare di non aver pagato la priority.
Ore 15:55
Siamo ancora fermi con l’aereo a porte aperte perché un cretino ha pensato di premere il pulsante di emergenza per controllare che ci fosse davvero il giubbetto di salvataggio, innescando una mostruosità di procedure aeronautiche che ci costano altri quaranta minuti.
Sin é
Ore 20:30
Siamo nel più bel pub di Cork. Il Sin é è un piccolo posto felice tappezzato di horror vacui e che sa di Irlanda, di birra stout affumicata, di banjo e violini calanti, di informalità.
Abbiamo toccato terra alle 19:30, orario originario: 13:30. Abbiamo vissuto un cinepanettone e un film apocalittico in un solo giorno, The day after tomorrow girato dai Vanzina (che poi è un regolare volo Ryanair). Ma ce l’abbiamo fatta, contro ogni pronostico, siamo qui e siamo felici. Soprattutto, siamo alla seconda birra locale, allietati dal suono dei musicisti riuniti attorno al tavolo a lume di candele con cerchio sacro di birre – una seduta spiritica folklorica – armati di banjo, violini, cornamusa, chitarre, harmonium e percussioni. Tutto ciò che serve, tutto ciò che basta.
L’autobus dall’aeroporto al centro cittadino – il mitologico 226 che ti porta ovunque a Cork, persino fuori Cork – si pagava solo cash. Abbiamo anche pensato di installare un’applicazione che non funzionava. Ma non importa più. Non importa più nulla, è tutto qui e ora.
25 gennaio 2025
Stazione di Cork-Kent
Ore 7: 00
Siamo in un treno che non è il nostro, ma è in ritardo. Gli addetti delle ferrovie irlandesi ci dicono che va bene lo stesso. Tutto ciò che tocchiamo si guasta, siamo i Re Mida del disguido. È solo il primo di tre regionali con coincidenze serrate, per arrivare a Kildare, per fare il nostro pellegrinaggio. Nove pagine di biglietto formato pdf per regionali che forse non saranno proprio i nostri, ma vanno bene lo stesso, perché ci porteranno da Brigid. L’ennesima tribolazione per un fine più alto. Il capotreno viene a scusarsi di persona più volte, con noi e tutti gli altri passeggeri, un ad uno, è un sacco di tempo, per un treno in ritardo. Sono scuse sincere, prive dell’ansia sociale paranoide inglese e della beata ignoranza menefreghista italiana. È una rilassatezza schietta tutta irlandese, dritto per dritto; non possiamo farci nulla, ma ci dispiace davvero. Non ti lasciamo nei casini, ma non finiamo in psichiatria se la tua giornata va male.
Siamo entrati in stazione dal retroscena, percorrendo un vicolo buio a gomito foderato di mattoni rossi e fantasmi di antichi tagliagole. Un bel revival di un romanzo ottocentesco, per fortuna, senza assassini. Non abbiamo ancora visto Cork con la luce del giorno da quando siamo arrivati. Abbiamo visto stradine lastricate di pioggia vaporizzata e insegne spente, luci in lontananza, una croce rossa al neon sulla collina, una fontana color sangue elettrico – il rosso fa pendant con la pietra antica, sembra – stormi planare sul fiume oscuro, ponti e bus assopiti negli stalli della stazione centrale. Abbiamo udito tanto vento e live music. I venerdì sera irlandesi suonano folk, suonano ballads e cover punk-rock, suonano The Corrs e The Cranberries (i santi locali). Suonano jam session di strumenti a corda e ad arco che ti facciano capire dove sei (basta una cornamusa a fare da primadonna). Suonano percussionisti di strada lungo le vie della movida, aria frizzante profumata di fish&chips e malto d’orzo. L’odore del fieno delle fattorie si sente sin dall’aeroporto e pervade il mondo.
Il nostro treno salpa per Turles e nel cielo scuro un grande e nitido primo quarto di luna ci fa presente che nemmeno oggi riusciremo a “riveder le stelle”. Non a Cork.
Treno
Ore 7: 30
I primi raggi incredibilmente aranciati del sole nascente esplodono da dietro colline scure. La prima alba in Irlanda.
Ore 8: 30
Il buio lascia gradualmente spazio alla luce, non troppo contento di farlo, e scopre campi gelati ricoperti di una lanuggine bianca. Grasse mucche pascolano beate nel paradiso del pascolo, l’Irlanda a febbraio. Imbolc. Nel frattempo, ci rendiamo conto che non arriveremo mai in tempo per la coincidenza. Siamo ancora nel primo treno e nella prima luce del giorno, ma i pellegrinaggi si sa, richiedono una certa dose di pazienza e di lentezza.
Dopo attimi di smarrimento accalappiamo il capotreno e gli facciamo tutto il punto della situazione con pdf di nove pagine alla mano. Ce la risolve in un batter d’occhio: chiama l’altro treno. A quanto pare viaggia in ritardo anche quello, ed è dietro di noi, stesso binario, non dobbiamo fare altro che fiondarci dentro come un travaso di accendini da una tasca all’altra.
Treno per qualcosa
Quasi le nove
Il capotreno ci rassicura che non perderemo il nostro treno per un margine di ben tre minuti. Vorrei fargli presente che siamo italiani, pertanto non siamo abituati a considerare le unità di misura inferiori ai venti minuti nei trasporti, non riusciamo proprio a visualizzarli, sono come le monete di rame per i finlandesi. Aggiunge che se lo avessimo perso ci avrebbe portato di persona a Portlaoise, facendo una fermata in più. Vorrei tanti capotreni così nella mia vita, in ogni ambito della vita.
Si raccomanda di chiedere informazioni all’omino in gilet catarifrangente una volta scesi al binario. Ci fiondiamo all’uscita del treno sulla desolata banchina di Turles, come dei pazzi. Dani si mette ad urlare per attirare l’attenzione di un corpulento uomo in gilet arancione. Questo, in tutta calma, ci rassicura che il treno non passerà prima di dieci minuti. Attendiamo sulla banchina di pietra ghiacciata e silenziosa il secondo treno in ritardo della giornata. Quando finalmente partiamo – non sapendo più su che treno siamo e quando arriveremo – l’uomo del gilet ci guarda dal finestrino rassicurandoci con bonaria occhiata di compatimento, mentre una signora poco più in là ci sorride. Siamo lo zimbello delle ferrovie irlandesi.
I campi sfrecciano mentre la lanuggine di ghiaccio mattutino si rimpolpa sempre più fino a diventare una folta e soffice pelliccia nevosa, della consistenza dello zucchero filato e liscia come seta, illuminata da un sole ormai alto e deciso. Mentre osservo sequenze tutte uguali di rami caduchi, pozze gelate, greggi e vecchi scheletri di cimiteri, penso che vorrei essere una di quelle persone delle case che vedo sperdute nel nulla a distanza di ettari di pace l’una dall’altra. E penso che, adesso, è decisamente Imbolc.
Treno di ritorno per Cork
Ore 14:50
Ci eravamo quasi illusi di essere arrivati a Cill Dara, ed in effetti lo eravamo. Ma poi il nostro tocco ci ha regalato il colpo di scena finale. Eravamo in piedi davanti alle porte automatiche, il treno fermo alla stazione di Kildare, nonostante i trenta minuti di ritardo e le coincidenze perse, nonostante tutto. Dani cerca di aprire ma il pulsante si illumina improvvisamente di rosso: la porta è fuori servizio. Incastrati con noi nella stessa incredibile impasse narrativa due ragazzi giovanissimi, un italiano e un irlandese. Ci dirigiamo verso l’altra porta attraversando il vagone, non alla velocità alla quale avremmo dovuto. E poi succede. La porta ci si richiude letteralmente in faccia e a nulla vale mettersi a forzarla e a premere i pulsanti compulsivamente. La fermata è persa. Vediamo Kildare sfilarci davanti rimanendo letteralmente a bocca aperta.
Scendiamo alla stazione successiva, Newbridge, un posto stellato tra le roccaforti della desolazione, dove non c’è letteralmente nulla, non un bar, non una biglietteria, non una persona. Due binari, murature in pietra, un parcheggio. È tutto quel che gli serve. Il prossimo treno per Kildare è tra un’ora. Dani parte spedito in preda a un’idea geniale quanto disperata: trovare un taxi nel reame del nulla. I due fanciulli rimangono attaccati a noi come fossimo due genitori affidabili, come se non fossimo due incoscienti persi in un turbinio di disguidi da ventiquattr’ore a questa parte. Dani vaga come un satellite nello spazio-tempo di un parcheggio desolato. Io lascio la prole sul limitare della stazione, al sicuro nel recinto fortificato, come mamma chioccia, e mi fiondo a tentare di riacchiappare il mio amico. Quando sono ad un centimetro dall’afferrarlo per la manica, un taxi ci sfreccia davanti come un miraggio nel deserto. Ci piazziamo dentro ad una velocità tale da sfiorare il sequestro di persona, tutti e quattro. Con cinque euro a testa siamo a Kildare, finalmente, davvero, con un totale di quarantacinque minuti di ritardo sul programma originario, ma molte vite in più in mezzo. La nostra tabella di marcia è ormai disintegrata come carta straccia quindi ci infiliamo nell’Heritage Center senza pensarci su più di tanto.
Questo posto è sempre casa. Lo avevamo lasciato due anni fa con un’elfa cattolica in pausa pranzo di Pasquetta, e lo ritroviamo ora, alla vigilia di Imbolc, con un’italiana compagna di paganesimo e un signore, forse il direttore del centro, che per noi è mastro stregone in persona, reverendo ed eccelso, pieno di croci di Brigid appuntate al colletto. Sono tutti in fermento per il festival in corso, che avrà il culmine il primo febbraio. Tutti intenti ad intrecciare croci di giunco e ad intonare canti e preghiere per la figura più resistente e trasformativa nella storia d’Irlanda, druida, dea pagana e santa cristiana. Noi è inutile dire per quale manifestazione propendiamo.
Dopo esserci riempiti di una serie di altre croci e aver fatto più di quattro chiacchiere con mastro stregone e apprendista streghetta, ci fiondiamo giù per il Brigid’s trail, verso il Brigid’s well, la meta finale del nostro tormentato pellegrinaggio. L’ultima volta che lo abbiamo percorso eravamo in preda ad una tormenta, ora il sole ci bagna di vitalità alla faccia di Eowyn e dei meteorologi. Sulla strada, ci intrufoliamo nel Centro Spirituale, chiuso lo scorso anno. È abbastanza deserto e silenzioso, pare ci sia un convegno in corso. Brigid e le sue croci sono ovunque, in ogni formato, colore e dimensione. Il cortile è pieno di bucaneve. Quando ci affacciamo sul sentiero costellato di querce maestose che porta al pozzo ci sentiamo come se stessimo tornando alla casa di campagna dei nonni a riabbracciare un parente lontano. È il nostro posto più bello del mondo. L’entrata con l’arco di giunchi intrecciati e i nastri colorati appesi è la porta della stanza in cui entrare e sentirti al sicuro. In cui poter fermare il tempo, fermarti un attimo, prendere un respiro profondo e guardarti qualche istante dall’esterno, senza il peso del tuo corpo e della tua coscienza a gravarti addosso impedendoti di librarti in aria. È il momento in cui puoi meditare, pregare e anche piangere, se necessario. Puoi piangere abbracciando la statua di una dea pagana come fosse una sorella maggiore che ti accoglie tra le braccia e ti affranca per qualche istante dal dolore che ti porti a spasso tra una dogana e l’altra. Un abbraccio consolatorio e delle speranze per il futuro annodate a dei rami di alberi che hanno visto altra gente come te solcare quel terreno, giorno dopo giorno, anno dopo anno, da secoli a questa parte.
Ci diamo da fare con nastri, offerte e boccette. Compiamo tutti i rituali con il nostro tempo, pregando e piangendo, immergendo le mani dell’acqua gelida del pozzo e prendendoci ogni momento. Stavolta, rispetto a due anni fa, siamo più preparati, motivati, e ispirati. Sentiamo il contrasto tra il fuoco interiore che ci guida e il ghiaccio dell’inverno placido che ci accoglie. Un croco giallo spunta da un’aiuola. Nastri colorati e croci intrecciate si distendono nel vento protraendosi come arti ausiliari dalle piante dedite ai voti, dedite a Brigid. L’acqua del ruscello è limpida e fresca e l’aria è nitida e nuova. Resteremmo qua per ore, ma dobbiamo andare a non rischiare di perdere l’ennesimo treno.
Inutile dire che ci scapicolliamo inutilmente, il treno è in ritardo di dieci minuti. Facciamo in tempo a scolarci due birre sulla banchina e a comprare un’indispensabile candela all’aroma di fieno e trifoglio, all’aroma di Kildare, di Imbolc, di Brigid, forse dell’intera Irlanda. un treno super-rapido sfreccia catapultandoci addosso un muro d’aria che ci taglia la faccia e quasi ci fa volare via le preziosissime buste piene di croci. Alla fine, arriva anche il nostro, arriva lento, col suo tempo, e nonostante tutto. La neve ed il ghiaccio mattutini sono definitivamente dissolti in un verde manto, come quello della dea druida. Ora speriamo di arrivare a Cork in tempo per vedere che faccia ha con i suoi veri colori, se riusciamo a strappare l’ultimo rantolo di luce dal serrato ciclo di albe e tramonti di questa parte di mondo.