SANTI IRLANDESI #1: Pasque Pagane

«I will arise and go now, and go to Innisfree,

And a small cabin build there, of clay and wattles made;

Nine bean-rows will I have there, a hive for the honey-bee,

And live alone in the bee-loud glade […]»

(W.B. Yeats, The Like Isle of Innisfree)

(In flusso di coscienza joyciano, perché comunque siamo in tema, perché comunque vengo da Pigneto): I templi (pagani), i bar, il Temple Bar, il concerto medieval-folk-celtic-rock (aggiungi un genere/stile a piacere) allo scoccare della mezzanotte di sabato come degno sostituto del veglione di Pasqua, i Faun, la fauna (locale), qualsiasi cosa è in forma di birra, la birra in ogni forma, noi non siamo in forma, i ‘diner’ stile anni ‘60 un sacco americani perché comunque a Dublino trovi un po’di tutto (se cerchi bene anche l’Irlanda), il mondo in a ‘nutshell’, oltre ai negozi di souvenir fin troppo scontati se ci pensi, oltre al fatto che l’Irlanda la conosci già anche se non ci sei mai stato (e te ne rendi conto subito), oltre le croci di Brigid sui cruscotti dei bus (per nulla scontate), oltre le croci di Brigid anche nelle chiese protestanti in cui i cattolici recitano il rosario, oltre al fatto che “zí ma non ce n’è uno che cammina dritto dopo le 18.00?”, oltre il mare scuro e freddo che osserviamo dal faro di Howth seduti in pizzo all’ennesimo ‘nowhere più bello del mondo’ mentre beviamo birre dai loghi bellissimi (tu mettici uno sfondo verde e scritte in gaelico), un vecchino irlandese di una bancarella al mercato ,lì sul porto, mi regala un quarzo e mi abbraccia perché ‘ho una bella energia’, forse è ubriaco, forse lo sono anche io, forse non sono mai stata sobria da quando ho messo piede qui (chi lo è? Chi vuole esserlo?), forse ho perso già il filo perché non sono Joyce e i flussi di coscienza non mi vengono un granché ma, forse, stavolta ho fatto foto e video decenti e forse vorrei pubblicarne altre ma lo farò domani, da sobria, da sola, da Roma.

Buona Ostara (Dal mio Facebook).

Prologo: abbiamo deciso di festeggiare Ostara in una delle mete più ambite da noi neopagani nati a fine anni ‘80: l’Irlanda. Era partito tutto lo scorso giugno, mentre in un pomeriggio estivo davamo fondo alla quarta birra accompagnata da patatine al gusto calamaro grigliato in un’afosa Piazza Vittorio: “Zì, non t’aregge d’andà a Dublino”. Quell’anno “non c’ha retto”, quindi alla fine siamo andati a Matera (senza alcuna logica apparente) (vedi: Sassy but Classy).

Dublino, 8-9 aprile 2023

Siamo a Termini alle 8.02, in tempo per perdere il bus per Fiumicino delle 8.00, partito alle 8.01 mentre noi correvamo forsennatamente per gli ultimi cinquanta metri di marciapiede. Quindi decidiamo di comprare in fretta e furia un biglietto di un treno sbagliato. Lo perdiamo, ad ogni modo, dal lontano binario 28 (praticamente già fuori area Schengen) e saltiamo semi-abusivamente – già stremati – su un Leonardo, che arriva prima di tutti gli altri messi assieme.

È comunque tutto inutile perché l’aereo, sempre quello al Gate più lontano possibile, imbarca con 30 minuti di ritardo.

Ryanair, low fares made simple.

Inutile dire che capitiamo nell’unico buco dell’aeroporto in cui non c’è neanche un bar. Viene da sé che spendiamo tre euro in acqua alle macchinette e rimaniamo a stomaco vuoto. Montiamo sull’aereo alle undici passate dopo una mattinata di maratone. Un signore sbuccia uova sode sulle sedie del terminal riportandoci ai soliti scenari da film neo-espressionista, è il segnale dalla regia che stai lasciando la “comfort zone” per entrare nel pianeta mondo. Si parte.

Mati e Dani sono ai posti anteriori, io al 16 C, sempre fuori area Schengen. Una hostess insiste affinché mi levi ogni cosa che ho addosso, anche il marsupio, riponendo ogni cosa nelle cappelliere. Ma proprio tutto, anche libro, diario, acqua, cibo. Riesco a far passare cuffie e telefono lanciandomi in rivendicazioni alla William Wallace e ottengo la responsabilità di aprire il portellone per prima in caso di atterraggio d’emergenza. Sono seduta sull’uscita di sicurezza. Ryanair, low fares…

Finalmente un bambino si siede dietro Dani, a quattro latitudini più avanti, riequilibrando il karma. Mi tengo volentieri la Rottermeier in tailleur blu e la noia.

Aeroporto di Dublino. Sul cruscotto del Dublin Express il guidatore ha esposto una bella croce di Brigid e questo già basta a mandarci in visibilio. Siamo venuti a Dublino per due motivi: il Pagan Tour dei Faun e un nostro personalissimo “pagan tour”, alla volta di santuari celtici per festeggiare Ostara, che quest’anno è caduta poco prima della Pasqua cristiana, che è letteralmente domani.

Scendiamo al Temple Bar, il cuore di Dublino. Primo impatto: vengo colpita dai cartelli stradali in doppia lingua – inglese e gaelico – e da un mezzo deja-vù di quando vivevo a Londra e prendevo il bus a due piani a Victoria Station nei weekend per andare a trovare una mia cara amica a Bristol. Quindi non capisco se Dublino a prima vista mi ricorda Londra, Bristol o Victoria Station, ma poi mi dico che non ha senso stare ogni volta a fare similitudini con altre città visitate e mi metto l’anima in pace.

Una cosa che mi disturba un po’ è che Dublino mi appare molto più moderna di quanto me l’ero immaginata costruendomi false aspettative dalla mole di libri e film macinati sull’Irlanda sin da tenera età. Ci sono un sacco di ponti moderni – uno sembra il Ponte Marconi (ancora comparazioni) – e fin troppi ristoranti italiani. Noi ci buttiamo al primo “pub a forma di pub” che notiamo, il The Lotts, dove inauguriamo la Santa Pasqua con birra e fish&chips.

In una viuzza dietro al Temple Bar odo la prima (e ultima) cornamusa (e nella mia testa: “Scozia”). In realtà è poco più che un’eco lontana dell’immaginario comune, uno tra i tanti sporadici tentativi di folklore di una città che è tra le più transculturali mai viste. Il paradosso di Dublino è che più vogliono venderti l’“identità irlandese” e più capisci quanto essa sia stata costruita e quanto in realtà l’essere irlandese più “autentico” sia il non esserlo affatto. È una città che vive e si basa sul flusso costante di genti e di culture in modo così bene amalgamato che risulta proprio il tratto più “tipico”. Molto più dei trifogli, delle pinte di Guinness e del povero San Patrizio stampato su ogni dove.

Passiamo davanti a un chiosco di empanadas argentine. Mati sussulta (ogni tanto gli sale il patriottismo). In realtà non c’è n’è una come quelle che farebbero in Argentina. Sono una sorta di involucri latino-americani di cose dal mondo che piacciono ai dublinesi o ai turisti in visita a Dublino (vai a capire le statistiche). “Bignami” di empanadas a portar via. Un Daruma Sushi. Un tizio vestito da elfo irlandese davanti ad un pub. C’è un po’ di tutto quello che quasi ti aspetteresti e un po’ di quello che non vorresti mai.

Dublino è, tra tutti i grandi centri urbani le capitali europee, quella che più mi innesca il meccanismo regressivo ad esperienze in altre città. E per qualche altro meccanismo psicologico che non indago, è come se ci fossi sempre stata, è già casa. Mi fa lo stesso effetto che mi farebbe tornare in Abruzzo. Non provo quello stupore ingenuo e febbrile di quando varchi le soglie di una nuova frontiera. Sarà sempre per il fatto che in testa mia è un po’ Londra, un po’ Berlino, un po’ Bristol, un po’ Edimburgo, un po’ Amsterdam e Copenaghen, persino Roma. Sarà che con tutto quello che vedi, ascolti e leggi sull’Irlanda hai già assimilato gran parte dei dettagli indirettamente e quando li esperisci perdono di forza d’impatto.

Ti aspetti già di trovare quello che trovi nei negozi. Ti aspetti il sapore del cibo, l’odore dei pub e le persone che ne escono camminando già storte dalle 18.00. A Dublino, nessuno cammina dritto dopo una certa ora. Ti aspetti i Carroll’s pieni di gadget “irlandesi” e le colazioni pesanti. Quasi ti aspetti anche il bus giallo a forma di nave vichinga che scarrozza orde di turisti incoronati da elmetti con le corna su e giù per le vie del centro.

Quello che non ti aspetti sono le strisce pedonali arcobaleno, i gay-bar, l’impressionante quantità di taverne e fast-food di ogni provenienza, uno dietro l’altro, un piccolo parco a tema di cucine dal mondo, tutte in fila. Non ti immagini (non mi immagino) lo sposalizio apparentemente felice dell’industriale e del medioevale, del pagano e del cattolico, del locale e dell’internazionale.

Un altro negoziante sfoggia la croce di Brigid all’ingresso del suo negozio. Quando usciamo ci augura “Buona Pasqua”. Noi, in compenso, sostituiamo il veglione con un rave pagano folk-rock ad un posto chiamato Opium. È qui che abbiamo le nostre prime Guinness (sempre perché sei in Irlanda e poi “pare brutto”, come la storia del whiskey in Scozia). Le prime sbronze irlandesi. Ma non è tutta serata di prime volte: i Faun li avevamo già visti a Trezzo sull’Adda (vedi Cose sull’Adda), a Samhain (che puoi chiamare Halloween, in caso ti salga il capitalismo).

Alle 23.00 finiamo a mangiare un hamburger al bacon con patate all’aglio in una catena che si presenta come un diner americano anni ’60, con poltroncine rosa, juke box, specchi e cameriere in divise a quadri. Contrariamente alle previsioni, a Dublino è tutto aperto oltre l’ora di cena “inglese”. Contrariamente alle previsioni, fa quasi caldo. Contrariamente alle previsioni, troniamo a casa presto schivando la gente che cammina storta che, per una volta, non siamo noi.

Il giorno dopo ci mettiamo in testa di raggiungere una località chiamata Howth, ad un’oretta di treno da Dublino. Il treno è più che altro un trenino, quello di Casilina (sì, lo so). Tecnicamente è il nostro pic-nic di Pasquetta (la pioggia non ci manca). Howth è un altro posto che potrebbe essere un sacco di posti, con il suo molo e il suo faro, i promontori a picco sull’acqua metallica e dura, troppi volatili e i ristoranti dai classici nomi di ristoranti marittimi ma, chissà perché, qui rivisitati in chiave erotica (Octopussy). Passiamo un pomeriggio a morirci di freddo e pioggia con bellissime birre locali, musica dei Faun (non contenti) e capelli al vento (e alla pioggia, e alla grandine…) con la Scozia a poche centinaia di metri e famiglie irlandesi che si godono pic-nic di Pasqua come fosse maggio a Ostia.

Al ritorno ci fermiamo al mercatino locale, in chiusura. Il signore della bancarella dei cristalli decide che deve regalarmi assolutamente una pietra perché ho una bellissima energia ma me la mangio con l’ansia, quindi mi dà un quarzo citrino e un abbraccio. Io nel dubbio me lo metto in tasca, tra gli altri pezzi di Storia di Dublino (biglietti, scontrini, carte, pezzi di viaggio, tessere di vissuto altrove) e passo il viaggio di ritorno a rimuginare sugli incontri fortuiti, sui matti e sui saggi che ci hanno lasciato qualcosa, in qualche posto, in qualche modo.

Non abbiamo mai smesso di bere.

The Lott’s Pub
Le cose che ti aspetti
Dubliners (e non)
Ordinaria amministrazione
La fauna pagana
Pre-concerto pagano
Faun #1
Faun #2
Diner
Play the Juke Box Blues
Howth
Howth, e dintorni