TREMITI E LEGGENDE

«Troppo mare, troppo cielo, per un’isola tanto piccola e uno spirito tanto irrequieto»

(Bruce Chatwin, Anatomia dell’Irrequietezza)

Termoli

Ruggine su vecchi condizionatori. Il bar a pochi passi dalla stazione ferroviaria è pieno di bevande al bergamotto, soda al caffè e gigantesche brioche da gelato. Un po’Sicilia, un po’ Calabria, un po’ Sorrento. Già capisci che i tuoi confini territoriali – ben chiari in testa, tirati a lucido sulla carta copiativa del quaderno di Geografia delle elementari – sono andati a farsi friggere. Il bar a pochi passi dalla stazione è pieno di cronache locali e notizie fresche di giornata portate dal menestrello di turno, dal prossimo attore che entra in scena con un sonoro “buongiorno” (qualsiasi sia il dialetto in cui l’ha pronunciato). È comunque un valido stereotipo da Sud Italia, da Sud del mondo. Quale Sud sia non è dato saperlo, non è quello che importa.

Apprendiamo che un signore si sposerà dopo dodici anni di convivenza. Seguono detti popolari locali (“di quale luogo?”) sulla tragedia – ironicamente – che questo rappresenta per il malcapitato. E altre battute di spirito. Fino ad ora è tutto in linea, regge tutto, la cartolina dal Sud è pronta per essere affrancata e spedita al lettore a conferma di ogni buon stereotipo. Usciamo sbracciandoci in auguri e felicitazioni, “e grazie alle signore!”. Un’altra mezz’ora là dentro e rischiavamo di finire nella lista degli invitati. Il mio grosso grasso matrimonio molisano. Perché in tutto ciò siamo in Molise, siamo venute qui per raggiungere delle isole pugliesi, che io erroneamente ho sempre creduto essere abruzzesi. Ma da Pescara in giù le dogane non ti fanno più così effetto.

Dogane

Usciamo fuori in un’aria calda, una brezza antica. Sembra di essere negli anni ’50. Sembra di essere negli anni ’20. Non che io ci sia veramente stata (e se è successo in qualche vita passata non posso dire di ricordarlo davvero). Sembra di essere in tutt’altra epoca e in tutt’altro posto, in tutta un’altra serie di posti (Abruzzo, Calabria, Basilicata…). “Sembra” che siamo in Molise, ma non ci siamo davvero. La verità è che siamo in transito, e come ogni terra di transito che si rispetti essa costituisce sempre un “non-luogo”, in un modo o nell’altro.

Termoli è silenziosa e odora di brezza marina, e questi sono i primi due dati oggettivi che affiorano nella mia coscienza. Termoli si snoda tutta attorno al suo porto, dal piazzale deserto, assolato e desolato. Cantieri navali e residui di folklore. “Mercato ittico”, “dogana”, “castello Svevo”. Tutto è deserto e sopito nell’abbrutimento delle ore centrali di una giornata di luglio.

Troviamo rifugio sotto a un pilone in ruggine portante e “fregi” in cemento armato. Rimaniamo per un po’ a guardarci e a guardare l’asfalto fumante, le macchine parcheggiate sotto 98 gradi Fahrenheit e le barche immobili con scritte colorate (“Luigi padre”).

Dopo un po’ mi stufo e vado in esplorazione. È proprio la mia caratteristica genetica, il cistron buono che ha resistito a generazioni di crossing-over. Termoli è piccola e silenziosa, per dirla come uno scrittore che inizia il suo romanzo di formazione. Il borgo storico è un po’ Ortona un po’ altre cittadine sulla stessa costa. Ma Termoli è in Molise, e per questo mi appare più bella, perché non ci sono mai stata, e per tutto quello che si dice sul Molise, per il fascino del marginale, dell’escluso e del liminale, del Cristo si è fermato a… Termoli.

La cattedrale, il castello, il lungo trabocco che si scorge dalle mura di cinta e ricama una parte di mare come un orlo fatto a macchina, e via, un altro giro sull’assolata perimetrale lungo la cinta muraria e dentro i contenuti vicoletti da borgo marittimo con le solite cose “tipiche” come le casette colorate (e Procida, Nihavn, Murano, Balat…).

Vicoli “locali”
Mura di cinta
Come la metti la metti, folklore
Il trabocco
“Luigi padre”

Tavolini vuoti a stingere sotto il sole, pavimento rovente e aria salmastra. Le Tremiti, in lontananza. Dopo ore di attesa in un piazzale rovente e decrepito scopriamo che bastava girare l’angolo per trovare dei bar sul molo. Un po’ ci prenderemmo a sberle, un po’, in fondo, quasi ci sentiamo di averla scampata, guardando i vacanzieri buttati sotto gli ombrelloni con bibite e valigie.

La fortuna del viaggiatore sconclusionato. Riesci sempre a prenderti il meglio dei posti perché non hai la pazienza di andarti a cercare il peggio.

Arrivo a San Domino

Macchie mediterranee a macchia d’olio, a macchia d’occhio, macchie mediterranee a macchia d’uomo. Macchie sul mare, macchie di terra e mare.

Fiori di cappero a picco (sul mare), geranio selvatico quasi infestante, e pinete. Pinete a perdita d’occhio (e d’uomo). Pinete sul mare, macchie di pinete, macchie di pinete a picco sul mare.

Il mare è la prima cosa che ti balza all’occhio. Il mare e i gerani selvatici. Il mare è ovunque, circonda le isole come ci si aspetta da ogni buon arcipelago, ma qui lui non si limita a circoscriverle, le completa e le dipinge, gli conferisce un valore aggiunto, il tocco dell’artista su un capolavoro eterno.

Mentre San Domino, florida di macchie, pinete, capperi, gerani, gabbiani, fiorisce e germoglia, inverdisce e sboccia, San Nicola incastonata come un cammeo in madreperla resta immota. Essa si scorge da ogni anfratto, da ogni antro, da ogni altura e da ogni scoglio sul mare, e nel mare resta, salda, ferma e spoglia. Le mura dell’abbazia la proteggono dallo scorrere del mondo, il mare la preserva come una porcellana fragile, San Domino le fa ombra, Capraia la veglia, Cretaccio le fa scudo da ogni onda. Un tesoro dimenticato da tempo, lasciato da qualche pirata distratto, a specchiarsi nel mare color smeraldo e godersi il sacrosanto oblio, nel suo tempo antico intatto.

Su alla Cappella della Resurrezione si “domina” tutta San Domino. Una serie di steppe e brulli declivi ammacchiati – le pinete non ce l’hanno fatta ad arrampicarsi fin quassù sfidando gli agenti climatici – fanno da cornice al piccolo santuario. Una madonna in una teca di vetro costruita con legni chiari e selvatici viene omaggiata di fiori ed erbe del luogo, e con rudimentali croci fatte di arbusti e rametti intrecciati, echi di rituali pagani più o meno noti (penso alle croci di Brigid al santuario di Kildare). Su un altare in legno (lo stesso della teca) spicca il simbolo di un calice intagliato.

Un sole crepuscolare tenta di illuminarne la superficie lottando con nuvole gravide degli ultimi temporali di giugno. La costa adriatica ritratta per intero in un angolo remoto sull’orlo dell’ennesimo nowhere più bello del mondo. Italia a sud-est, Europa a sud-est, chi può dirlo, che cambia? Qualche toponomastica e il nome di un santo locale. Come le chiami le chiami, le credenze umane, non rispettano mai i confini temporali e territoriali di sorta. La Marsica sul Mare, le Marche in Molise, la Croazia in provincia di Foggia, un varco spazio-temporale in quella che solo su carta è definita come una partizione microscopica della Puglia.

Colle dell’Eremita
Cappella della Resurrezione
Altari filo-pagani
La Madonna del Mare

La realtà è che questo luogo, come tanti altri luoghi isolati, isolani, è tutti i luoghi e nessuno e una serie di accumuli temporali stratificati nei modi più bizzarri. Se chiudessi gli occhi e mi risvegliassi qui senza sapere dove sono penserei immediatamente alle isole dei Principi che ho visitato a bordo di una ridicola bici rosa Paris Hilton a noleggio, quando ero ad Istanbul. Se non fosse per la mancanza di spettrali ville nobiliari abbandonate in semi-macerie sarebbe un perfetto deja-vù. Persino i gatti sembrano gli stessi.

Mare color smeraldo, pinete e dirupi costellati di erbe aromatiche e cespugli ruvidi e nodosi, mentre le diomedee si disperano e i gabbiani si sbellicano dal ridere per tutta risposta. La macchia mediterranea, in Puglia. La macchia mediterranea, ovunque. La macchia mediterranea, su un fazzoletto di scoglio scomposto da qualche terremoto lontano che – forse, si dice –  dà il nome a questo arcipelago sperduto. Tremiti.

Ma qui le architetture sono più conformi al paesaggio. La quasi totale assenza di abusi edilizi – oltre che di macchine, motori, file, urla, panico, ansia, risse, e bancomat – contribuisce a rendere questo posto ancora più distopico, se non, a tratti, utopico. L’umanità è riuscita a levare pochissimo spazio alla macchia, si è limitata e autocensurata con leggi che ne vietano la depauperazione. La razza umana si è fregata con le proprie mani ed il risultato è un posto meraviglioso dove una sorta di selezione (in)naturale fa sì che non si raggiunga mai la linea di saturazione massima, il punto di non ritorno, l’aggregazione suprema di tutti gli orrori di cui la nostra razza ha dato prova di essere portatrice persino nei posti più inarrivabili.

Qui non c’è posto per McDonald, per piani e piani di parcheggi in cemento armato, per gli ecomostri in rovina e l’ecopelle in vetrina. Qui c’è solo un porto, un eliporto, qualche bar, pochi ristorantini, un minimarket, una farmacia e una boutique, qualche pensioncina, un centro diving, un campeggio attrezzato, e stop. Il tutto concentrato su una piazzetta al centro dell’isola, nella parte più piatta, quasi nascosta agli occhi del visitatore via mare, sormontato da metri e metri di ramificazioni di pinete che ne celano ogni bruttura. Le tracce umane occultate come le briciole sotto il tappeto. E poi via, giù, metri e metri, e chilometri, di natura arruffata e accapigliata su sé stessa in caduta libera, finché la roccia argillosa non gli pone un freno e la accompagna scivolando nel blu turchese.

Pochi minuti di cemento, una serie di puntini sparsi e deboli, instabili, alla mercé della natura selvaggia.

Come su altre isole, qui non c’è davvero un tempo o uno spazio. Qui non ci sono vere regole, se non quelle della pacifica convivenza dei pochi che hanno la fortuna di trovarsi a risiedervi e del galateo da osservare in presenza del governo della macchia suprema. È una sorta di non-luogo di tipo organico, naturalistico, quasi “rustico”, diresti, a primo acchito. E invece di rustico non ha nulla, è estremamente sofisticato e logico, quasi regale, se ci pensi. Un affresco su una panchina recita: “Se il rumore del mare sovrasta quello dei pensieri sei nel posto giusto”.

Residenti

Francesco, il nostro ospite, si affaccia dal terrazzo del primo piano della villetta bifamiliare in intonaco bianco di cui noi occupiamo il pianterreno: “Volete che accenda la luce in giardino?”. Noi stiamo cenando sotto i pini al lume di candela. “No grazie, ci piace così”. Ci piace il buio della pineta da cui si intravede la luna piena, le luci del porto e San Nicola illuminata come una reliquia in una teca. In silenzio, la quiete fresca e statica ci raffredda i motori ancora caldi di trambusto cittadino (siamo in viaggio da questa mattina alle 8.00, da Tiburtina, che ormai è come dire Marte). Gli unici “motori” sono quelli del nostro cervello stanco e annientato da mesi di routine nel mondo reale, che ormai è da qualche parte là fuori sepolto sotto strati di polifonie di cicale.

Sull’isola è vietato portare veicoli a motore a meno che non si dimostri di essere residenti, e anche in quel caso ci sono dei limiti. Amo questo posto già solo per la mole di limiti che impone all’inquinamento umano e al delirio capitalistico. Qui c’è poca possibilità per i business, e neanche sembra che ai locali gliene freghi più di tanto. Non c’è una calamita “bella” o un prodotto “tipico”, un qualche “tour” dell’orrore o pacchianata folkloristica di sorta. Non senti il peso della “tradizione locale”. Al massimo puoi farti una cena fuori ad uno dei pochi ristorantini in piazza che fanno gli stessi identici piatti (ambarabà, ciccì, coccò) o un giro con qualche barcaiolo “locale” (romani, napoletani, pugliesi, molisani, calabresi), facendo il bagno nelle stesse calette in cui potresti arrivare a piedi tra scogli e pinete.

Dirupi
Erbe
Capperi

Francesco è un ex assicuratore di Foggia e ha una delle poche case disponibili sull’isola. È stata la casa paterna sin dagli anni ’70. Ci veniva a fare le vacanze da piccolo e poi da grande per due settimane l’anno, prima del Covid. Poi ha deciso di lasciare tutto e trasferirsi qui, a marzo, a godersi quello che la vita gli ha regalato. Ora affitta casa ai vacanzieri e vive in pace. Ogni tanto va a fare rifornimenti a Foggia utilizzando l’elicottero, che impiega soli quindici minuti. Questo inverno affitterà la casa ad un gruppo di sub e poi ad un pescatore di Sorrento.

Se fossi uno scrittore, un pensionato, un artista, un libero professionista o un libero pensatore – o se solo avessi il coraggio di fare un atto alla San Francesco d’Assisi e mollare tutto – verrei volentieri a vivere qui anche io. E questo credo sia il pensiero medio che attraversa chiunque abbia uno spirito solitario, filo-eremitico, e cada rapito da questo posto, colmato da un amore incontenibile e da una gratitudine sincera per aver permesso che esistano ancora simili paradisi su questo pianeta-discarica.

Suoni di un luogo ameno già riempiono ogni nostra cavità cerebrale dissolvendo gli ultimi echi di “civiltà”. Fragore di onde, muri canori di cicale, versi di gabbiani e diomedee. E basta. Tutte le ore, tutto il giorno, tutti i giorni.

Il bar di Cala Spido è sempre chiuso. La cala è uno dei posti più incantevoli sulla faccia della terra. A due minuti da casa. A due minuti dalla sveglia mattiniera nell’aria frizzante e dal caffè caldo in cucina tra il bagno sonoro di cicale. A due minuti da “perché ci siamo portate tutta questa roba? Non serve”. Non serve nulla, solo predisposizione alla quiete e resistenza ai terreni impervi, e comunione con la natura. Tolleranza ai ragni giganti che tessono ragnatele lunghe metri, ai coleotteri che svolazzano tra i tronchi appiccicosi di resina (e, occasionalmente, sulla tua faccia), alle rocce appuntite e agli aghi di pino, ai ricci di mare e al sole cocente. Tutte cose che diventano persino piacevoli dopo qualche giorno di (ri)adattamento e di disintossicazione dalla veste urbana.

Solo dopo qualche giorno di scogli, aghi, ragni, sole e bagni tra i ricci ti rendi conto che questo è come vorresti vivere, chi vorresti essere. Le Tremiti piacciono a chi si sente a disagio nel proprio millennio perché sono come la terra dovrebbe essere, come dovrebbe ancora essere.

Cala del Sale, Grotta delle Viole

San Domino è pettinata dal vento di Tramontana che soffia dal nord. Te ne accorgi dalle chiome dei pini orientate verso l’altra costa, i fusti piegati, come se volessero fuggire da questo versante aspro e selvaggio e raggiungere i dolci declivi delle calette a sud-est.

Da Cala Spido a Grotta delle Viole il mare è una sorta di piscina riversata nel Mediterraneo dopo l’apertura di una grande diga. Un manto acqueo leggero e vivace che ha ricoperto come un lenzuolo di seta trasparente tutto ciò che ha trovato sul fondo e ne ha lasciato fuori solo le tracce in forma di grottini, scogliere e pinete rupestri che si tuffano a capofitto come scorgono un po’ di blu.

La tonica del paesaggio sonoro di queste cale è il rumore onnipresente del mare, sovrastato da un soundmark di cicale in eterofonia ostinata. Solo occasionalmente questa colonna satura di rumore interarmonico è puntellata da vaghi segnali come sporadiche grida di bagnanti e motori di barche. Nei casi peggiori qualche “estraneo” in yacht riesce a superare la “barriera” e penetrare nel regno naturale lacerando l’ecosistema sonoro con i bassi a tutta potenza per ricordarci cosa c’è là fuori a suon della ultima identica hit dell’estate. Ma dura poco. Questa bolla di pace resiste egregiamente alle invasioni di campo e gli squarci vengono rattoppati in un baleno dalla ripresa musicale dell’orchestra per soli aerofoni, idrofoni e rincoti. Un attimo di destabilizzazione ed è subito di nuovo sciabordio di onde, quiete e cicale.

Tremiti
Cala del Sale
Cala delle Roselle
Vista loggia

Accroccate su uno scoglio, tra un albero sospeso nel vuoto, qualche ramo spezzato, su tappetini pieni di resina e i teli inzaccherati di terriccio, guardiamo il mare cristallino qualche metro più sotto e contiamo i ricci a vista d’occhio. L’odore di pino e rosmarino è penetrante più di qualsiasi deodorante sintetico. Ci sono piante che ormai riconosco ma che non saprei nominare, aggrovigliate e ripetitive ad accaparrarsi sempre più spazio in questa piccola porzione di mondo. Sembrano noi umani nelle grandi città, ma con decisamente più vantaggi.

Partiamo a nuoto dalla Grotta del Sale – ennesima caletta nascosta sotto un dirupo sospeso sul mare contorniato da pinete – e arriviamo ad un’altra grotta credendo che sia quella delle Viole, ma non lo è. Ci siamo attraversate una bella porzione di costa a nuoto nel mare aperto, seguendo la scogliera. Facciamo conoscenza con una signora che si sta cimentando nella nostra stessa impresa, ma ha la somma dei nostri anni. Mentre dentro di me penso a come vorrei invecchiare così (il trucco, apparentemente, è venire qui in vacanza ogni anno) siamo automaticamente diventate un trio, in rotta verso la famigerata grotta.

Funzioniamo bene: una è in avanscoperta, l’altra si premura che qualche deficiente in barca non ci mozzi la testa, io scruto i fondali per sincerarmi che non ci siano specie pericolose. A parte una piccola medusa solitaria in tutto questo grande mare e qualche innocuo riccio attaccato a metri e metri di scogli in profondità, potresti nuotare ad occhi chiusi fino al Gargano.

Nella Grotta delle Viole non ci sono più le violette selvatiche che le danno il nome ma ci sono alghe violacee e pomodori di mare rossi che le conferiscono comunque una nuance da quadro espressionista. Ci sono anche banchi di pesci azzurri che nuotano nel punto più profondo, di un blu intenso e spesso, e spugne marine di un vivido arancione attaccate alle pareti rocciose del fondale. Nella Grotta delle Viole c’è la pace. Nonostante le sporadiche barche turistiche nell’ora di punta (tra le 11.00 e mezzogiorno) e i gommoni di marinai amatoriali che si incagliano sugli scogli (passerei le giornate a guardarli disincagliare imprecando mentre rido coi gabbiani) questo è decisamente un luogo in cui regna la pace.

Ci congediamo con la signora nella Cala delle Roselle e ci imbarchiamo nella traversata del ritorno, quattro o cinque cale, qualche grottino e un tratto di mare aperto più in là. Non ci siamo neanche scambiate i nomi. Ma abbiamo unito le forze per trovare quello che volevamo, e volevamo tutte la stessa cosa, come tutti quelli che vengono qui: la pace.

San Nicola (riflessioni da Cala Matano)

Questi sassi, questi anfratti, queste gole silenziose sono rifugio di erbe vigorose e di gabbiani irrequieti le cui grida struggenti rompono il muro polifonico delle cicale e il rigurgito dei fondali alla sera. La luce opaca non impedisce all’occhio nudo di scrutare ogni dettaglio dell’abisso, sempre limpido ad ogni ora del giorno. Non conta la profondità, o l’altezza, è tutto sempre a portata di sguardo. Tutto ti concede respiro.

Le vedi, quelle mura spesse, di un carcere, di un’abbazia, delle mura che racchiudono altri silenzi tra i sassi dismessi, oltre il tempo, assenti.

Una piazza vuota, – la chiesa crolla – qualche casa vuota, – la fede crolla – un cane attende al molo un padrone che non tornerà più. È lì ogni sera a setacciare ogni barca, a scrutare ogni passeggero, nella speranza che l’ennesimo sia quello buono. Ma non trova mai riscontro, perché il suo padrone è un altro fuggiasco, un altro fantasma che aleggia in questo posto, un altro che ha abbandonato la pace e l’ha barattata con l’idea di benessere che hanno quelli che vivono là fuori. E il cane torna, torna ogni sera e ogni sera china il capo e uggiola ma non rinuncia, e la storia si ripete e ricomincia ogni giorno alla stessa ora finché a qualche punto diverrà leggenda. La leggenda del cane che attendeva il suo padrone al molo di San Nicola.

La vedi, San Nicola, fiera e raccolta, assopita, assorta. Una leggenda nascosta dietro ogni chiave di volta. Il set di un film di esodo, una comunità in diaspora verso qualche grande centro industriale della costa adriatica, i volti di quelli che c’erano, prossimi all’oblio.

Di leggende ce ne sarebbero tante a San Nicola – frati trucidati, invasioni corsare, colonie penali – ma nessuno ha avuto la solita acuta genialità di speculare sulle tragedie che si assapora nei luoghi turistici d’eccellenza. Niente tour dell’orrore, “gattabuia experience”, niente “trucida il tuo monaco”, compra la moneta personalizzata, vestiti da temibile pirata, noleggia un’audioguida, scegli il tuo criminale preferito e portatelo a casa in formato cartolina, niente liquori fatti in casa e pochette a forma di diomedea, essenza di pino e “veri sassi di Tremiti”. Niente di niente, solo cantieri edili deserti, qualche calcinaccio, un cane abbandonato e tanta fervida immaginazione.

Le statue dei santi della chiesa di Santa Maria a Mare sono ricoperte di offerte (bracciali, rosari, elastici, mascherine, oggetti personali, caramelle) come divinità di una qualche pagoda asiatica (e come Brigid, a Kildare e le edicole di Santiago sul Cammino Portoghese, e i Buddha e i Ganesha indonesiani e le Turatadì birmane…). Qualcuno ha donato un Gaviscon a Santa Rita, mens sana in corpore sano. In questa chiesa non si tiene più la messa, il prete – di origini siriane – è fuggito a San Domino, dove si è fatto costruire una piccola cappella succursale sulla piazza principale. Persino negli uomini di fede la fede vacilla, a San Nicola.

Un battello parte ad ogni ora, da sponda a sponda, un Caronte dell’Adriatico che trasporta nel girone dei dimenticati, dove campi sportivi dall’erba alta sono incorniciati da ruggine e ferri vecchi, dove i fantasmi si rintanano dietro transenne di cantieri e i gabbiani non hanno più niente da dirsi, non c’è più nulla da ridere. Un salto nel vuoto da un muraglione e sei a capofitto nel blu verso qualche altro altrove.

Confinata a San Nicola
Santa Maria a Mare
Offerte a Santa Rita

Cosa nascondono questi anfratti, questi sassi, queste caverne e queste gole, questi vani, questi nidi, questi lidi, queste alcove?

In bilico sull’ennesima punta del mondo osservo l’imbrunire su Cala Matano. La villa di Lucio Dalla è un’altra occasione persa per qualche splendida speculazione. Alzo lo sguardo e passo in rassegna tutte le cale dallo scoglio dell’elefante, al sale, alle rose e alle viole. Non si vedono tutte ma si intuiscono dalla forma che assumono gli scogli illuminati dagli ultimi raggi del sole. Penso a come sia diverso qui lo scorrere delle ore. Bastano pochi passi e sei indietro nel tempo, ancora non è il tramonto, è solo un sole un po’ più spento.

Su Cala Tramontana la palla di luce è infuocata, e viene inghiottita dal mare nel giro di qualche “ohh e ahh”, ad una velocità sorprendente, in flashforward. Non sono i tramonti del Tirreno, ma non per questo sono di serie B. Sono più aspri e disomogenei, meno sincronici, più disorganici, fanno come vogliono e lo fanno in fretta, lo fanno con colori che non ti aspetti. Sono più onesti. La notte non segue subitanea la scomparsa del disco di luce, passano altri minuti di spaesamento senza alcun astro in cielo in una luce grigio-rosata di limine e stasi. Qui non c’è fretta, non c’è spettacolo, non c’è premeditazione. Ognuno il suo tempo, i suoi spazi, i suoi colori.

L’acqua si increspa dietro a ciuffi di erbe grasse e capperaie fiorite. San Nicola è una primadonna al tramonto, dalla parte sbagliata del mare, in una bella porzione di mondo. I motori delle barche sono già spenti, questo piccolo angolo si appresta ad un altro turno di tenebre. Un gabbiano si sbellica dalle risate, una diomedea si dispera. Un meraviglioso momento in un meraviglioso stare.

Bisogna andare.

Tremiti
Starring: gabbiano