Una finestra sullo Zijl

Capitolo 1 – Un’Indonesia a portata di viaggio

«Le gocce di pioggia picchiettavano ora distintamente sulle bottiglie vuote. Le bottiglie erano sull’erba ai miei piedi, ma io sentivo un ticchettio, un ticchettio di gocce alle mie spalle. Mi girai. Vidi un mucchio di bottiglie vuote, allineate una accanto all’altra nel buio. Sul punto di partire. Per cominciare il loro viaggio. Il viaggio delle bottiglie vuote».

 (Kader Abdolah, Il viaggio delle bottiglie vuote)

Settembre 6, 2021

Partenza, Roma-Amsterdam

Gli addii non sono mai semplici, anche se non sono mai veri addii. A volte sono “solo” arrivederci, sono “solo” un mese o due, sono “solo” due ore e mezza di aereo. Ho imparato a farmi scivolare addosso il tempo e le distanze anestetizzando ogni increspatura emotiva. Ho imparato che sotto i tre mesi è come dire “sono via per il weekend” e che finché rimani in Europa cambi solo quartiere. Dipende dalla misura con cui percepisci il mondo. Dipende da quanto riesci a relativizzare il tempo. Dipende da quanto mobile è il tuo concetto di casa. Dipende da un sacco di cose, ma ho imparato che si imparano tutte, basta solo provarci e riprovarci finché il tentativo diventa consuetudine. Ci sono distanze peggiori e “arrivederci” peggiori, come quelli che ti portano via per anni dall’altra parte del globo e non puoi neanche far finta che “dai vienimi a trovare” o “dai, ci vediamo presto”. Stavolta è uno degli “arrivederci” buoni in cui sì, puoi venirmi a trovare e sì, ci vediamo presto. Ma forse un anno continuativo in Italia mi ha indebolita perché le lacrime non le trattengo più bene come una volta. Non sono più abituata a prendere aerei come taxi e a saltare nazioni come fermate della metro. All’adrenalina del viaggio ora si aggiunge quel senso di perdita di una parte di sé, di sradicamento, che quasi mi trattiene. Ma poi, come al solito, bisogna andare, perché c’è troppo da fare là fuori per rimanere a crogiolarsi nella propria zona di comfort. Ad ognuno le sue scelte di vita, coi pro e i contro del mestiere, ad ognuno la sua filosofia. Tot we elkaar weer ontmoeten! Nederland, ik kom. Disclaimer: tra i souvenir NO, non vi porterò erba e mignotte.

Dank je wel

(da Facebook)

Non prendevo un aereo da quando ero tornata dall’Indonesia, il 1° agosto 2020, un anno, un mese e cinque giorni fa. Pensavo che sarebbe stata un’emozione indicibile il solo rimettere piede in aeroporto. Invece ho sbrigato tutte le faccende dell’imbarco e sono andata filata al gate con la stessa facilità con cui posi le borse in camera tua, vai al bagno, gridi qualcosa a tua madre e ti siedi in cucina a mangiare dopo un anno che non rivedi casa tua. È come se avessi un pilota automatico per i viaggi. Qualche saggio di quartiere direbbe “è come andare in bicicletta…”. Niente di più azzeccato data la destinazione.

La parte più dura è stata la sera prima della partenza. Ho dormito letteralmente tre ore in preda all’ansia. L’email ricevuta alle sei del mattino dalla compagnia aerea con la notifica del cambio di velivolo non ha migliorato la situazione. Ovviamente ho dovuto rifare il check-in dal cellulare sotto scarica adrenalinica con un occhio aperto e uno chiuso da sotto le coperte. Sono arrivata al gate A10 con un’ora di anticipo. Ed eccomi qua.

Poco dopo.

Dopo un’ora di attesa seduta a vegetare in hangover da sonno alzo gli occhi e noto che nel frattempo l’imbarco è diventato quello per Berlino. Mi prende un colpo. Per fortuna c’è una nota sullo schermo che precisa: il volo per Amsterdam è stato spostato al gate A6. Inutile dire che arrivo ad imbarco più che avviato. Mi metto in coda ad una fila che è peggio di quella davanti alla Apple il primo giorno del black Friday.

Mi siedo al posto finestrino (che NON è quello che avevo scelto ma quello che è stato cambiato all’ultimo) e lascio inaspettatamente scorrere lacrime che di solito riservo ad altri luoghi. Non ho mai pianto lasciando l’Italia in 32 anni di vita. Di solito piangevo quando ero in procinto di tornarci.

Arrivata a Schipol aspetto la valigia per una buona mezz’ora, ma per fortuna la mia amica Sietske, che sarebbe dovuta venire a prendermi, è ancora più in ritardo perché ha messo l’orologio indietro di un’ora. Mi consolo ad uno Starbucks col primo chai latte della mia nuova vita, che non è proprio partita al massimo, diciamo. Ovviamente fuori fanno 27° C e io sono vestita come andassi ad arrampicarmi sulle pareti ghiacciate in Groenlandia. Nessun errore che non abbia già fatto in passato, comunque (vedi Voci dal Nord).

Alle 13.45, dopo soli dieci minuti al tavolo con la mia bevanda, apprendo che lo Starbucks dell’aeroporto chiude alle 14.00. Non indago oltre sull’apparente insensatezza della cosa, recupero passaporto e mascherina FFP2 dal tavolino e comincio a giocare al gatto e al topo con Sietske con tutti i bagagli appresso. Il problema è che ci sono tre Starbucks, apparentemente, ed io non riesco a fargli capire qual è il mio. Quindi, contro ogni logica, invece di rimanere dove sono e aspettare che sia lei a trovarmi, comincio a girare qua e là senza meta. Alla fine riusciamo a trovarci a metà strada per miracolo e ci corriamo incontro come nelle migliori telenovelas. Non ci vediamo da un anno e mezzo, l’ultima volta ci eravamo salutate a Yogyakarta.

Rispolvero la mia chipkaart, la carta dei trasporti olandese, che non uso dal 2018, quando ero venuta per ben due volte qui, prima durante il mio interrail nordico (vedi Passeggera d’Inverno) e poi per fare ricerche sui manoscritti giavanesi all’università di Leiden. Con due fermate di treno e qualcuna di bus approdiamo a Landsmeer, una piccola municipalità nel nord dell’Olanda, poco fuori Amsterdam, che fa parte della regione di Waterland. Qui è dove trascorrerò i miei primi dieci giorni, a casa dei genitori di Sietske, che si trovano ora in vacanza sul Lago di Garda.

Due settantenni in viaggio per l’Europa in automobile con attrezzatura da campeggio. A me è parsa una cosa da Guinness World Record, ma pare che per molti olandesi sia normale fare questi viaggi ad ogni età ricercando posti naturali, soprattutto ambienti montani e lacustri. La cosa certa è che, a quanto ho capito, nessun olandese spenderebbe le proprie vacanze nel proprio paese. Il che è perfettamente comprensibile se calcoliamo che l’Olanda è uno stato la cui superficie copre a stento quella di due regioni italiane ed il cui paesaggio è totalmente piatto, privo di formazioni montuose e che fa letteralmente acqua da tutte le parti.

Percorrendo il paese in qualsiasi direzione, in massimo tre o quattro ore si piomba in qualche altra nazione confinante. A parte questo, l’Olanda il suo fascino ce l’ha eccome, e appena arrivate nella quieta Landsmeer ne subisco una buona dose. Landsmeer è l’Olanda a forma di Olanda, è proprio come te la immagini da libri e cartoline: piccoli agglomerati di casette che affacciano i loro giardini curati sui canali pieni di barchette ormeggiate, con ampia vegetazione e qualche ponticello qua e là che sembra quasi decorativo. Essendo ancora praticamente estate ho modo di vedere questi scorci con luci e colori vivaci, sembrano davvero dei dipinti usciti dal pennello di uno dei tanti pittori per cui questo paese è noto.

Tempo di sistemarmi nella camera di Kenji (il figlio della mia amica) al primo piano di questa tradizionale casa di campagna, mi metto ai fornelli. Vorrei deliziare la mia ospite con qualcosa che dovrebbe essere cibo italiano ma ho già capito che non potrà mai esserlo se gli ingredienti vengono dal nord Europa. Non importa quanto ti impegni chiamando a raccolta gli spiriti delle bisnonne passate, ci sarà sempre troppo “oregano” nel tuo sugo, troppo cheddar nel tuo formaggio (qualunque esso sia), e troppo aglio in qualsiasi altra cosa.

Il soundtrack della cena è offerto da Wieteke Van Dort, che si aggiudica il primo posto nella mia playlist olandese su Spotify. Il brano Geef mij maar nasi goreng (“dammi il nasi goreng”) è una simpatica parodia in stile musicale kroncong delle abitudini culinarie olandesi, in cui l’Indonesia gioca un ruolo fondamentale. Il nasi goreng, il famoso “riso fritto” indonesiano, è parte dei menu olandesi quanto i pannekoeken e lo stamppott, a fianco del sate e altri piatti indonesiani che ormai sono stati pienamente “olandesizzati”.

L’Indonesia non è solo nel cibo, ma è ovunque: è nel passato e nel presente olandese, sgorga sotto ogni superficie come l’acqua del mare. Forse – ne sono vagamente consapevole – è uno dei motivi principali per cui ho scelto l’Olanda: perché, in tempo di pandemia, mi serviva un’Indonesia più a portata di viaggio.