Palme su strapiombi di cemento
Altari sospesi
Tra un grattacielo
E un tentativo di truffa
Ben speso
(Note di campo-lungo)
Bangkok, 18 luglio 2019
Ultimo pasto al ristorante birmano di Pratunam. Saluto amici e colleghi davanti all’ATM del mercato notturno – quasi un rito simbolico – che tace mesto sotto il sole cocente, come un Buddha sdraiato.
È ufficialmente tutto finito: il convegno, i convenevoli, le cene, i pranzi sociali, i coupon, le scorribande notturne e le selve accademiche diurne. Le Singha, i mor lam, i taxi, i Grab collettivi, gli “you pay money” e i “that’s so interesting”. Rimarrò per altri due giorni qui a Bangkok in solitaria e poi partirò per la Cambogia. Fino ad ora non ho avuto un’ora per stare sola, neanche di notte (anche perché obiettivamente non ho mai avuto una vera porta).
In questo momento, affacciata al ponte del battello di Pratunam con gli “arrivederci a Roma, a Bali, o chissà” alle spalle, comincia ad avvampare tutto il peso della solitudine. È un peso confortante, adrenalinico, un portello rotante di quelli degli hotel (quelli veri, non il Metro Boutique), che si chiude pesantemente su un’uscita e si riapre subito trasformandola in un ingresso.
In uno di quegli impulsi istintivi di cui non sempre capisco bene la sorgente, mi dirigo alla fermata del battello. Mi capita sempre, quando sono sopraffatta da emozioni forti e contrastanti che mi spingono sull’orlo di un limine: devo valicarlo, e l’unico modo per farlo è andare. Non importa dove, basta il movimento.
La corsa fino al Phanfa Bridge (cioè il capolinea, in prossimità della Giant Swing) mi costa 11 baht. Finalmente qualche prezzo onesto, quasi gliene darei di più. Attraverso un sottoponte in lamiere, cipolle, panni stesi, reti metalliche, baracche e alberi sacri avvolti in drappi colorati. Uno di quegli scenari in cui all’inizio tenti di concentrarti sui vari particolari stranianti ma poi ti dici “vabè, fate un po’ voi” e tiri dritto accettando che tutto sia parte del quadro nella stessa misura.
Dai rami spuntano statuine votive e bottigliette aperte di soda colorata. Un naga fa capolino da una radice.
Dopo un altro sottoponte, altre lamiere, corrimano spaiati, piattaforme instabili e cavi precari (un videogioco, in pratica) riesco a trovare qualcuno per chiedere informazioni. Appena mi fermo mi rendo conto di essere completamente fradicia, inzuppata del mio sudore dalla testa ai piedi. Indosso un sarung nero leggero con elefanti dorati (uniforme canonica del turista farang, a scanso di equivoci, oggi sono in vacanza) e una camicetta bianca di cotone (che nella versione occidentale del mio guardaroba è un pigiama). La cosa bella di questo clima è che dopo un po’ smetti di pensare al vestiario, al trucco, ai capelli e metti solo la cosa più comoda e fresca che trovi.
Il battello è semivuoto. Attraversiamo la città lungo le sue arterie rugginose, sporche e affollate, umide cataste di umanità, che sono senz’altro più interessanti se osservate dalla giusta distanza, con il giusto spazio per respirare, e per pensare. Quando arrivo al capolinea, neanche a farlo apposta, mi contatta Henry, un collega conosciuto alla conferenza, e mi dice di raggiungerlo al palazzo reale. Nonostante sia poco distante decido di prendere un moto-taxi per evitare di liquefarmi ulteriormente. Ogni passo è un’ora di sauna.
Bangkok è una di quelle città che, quando sei solo, ti fa sentire ancora più solo, anche se, paradossalmente, solo non riesci mai davvero ad esserlo. Mi godo gli ultimi strascichi del convegno, lo spin off. Abbiamo acquistato i biglietti per il khon, il “tradizionale” teatro danzato. Mezz’ora di miscuglio revivalistico di quelli che piacciono tanto ai sudest asiatici, ai turisti e agli studiosi che presentano paper all’ICTM. Un patchwork di arti thailandesi a tema Ramayana, che comunque fa sempre contenti tutti perché ha una vicenda lineare, dura poco e c’è una storia d’amore di mezzo con bei costumi.
Comunque andava visto, per farsi un’idea, e perché non avevamo molte altre idee. Ci fermiamo a bere qualcosa e ci congediamo, stavolta davvero. Non avverto più nostalgia, senso di qualcosa che finisce, ma solo il bisogno di stare davvero da sola. Sola a Bangkok.
Il battello fa solo Pratunam – Phanfa e ritorno con qualche fermata intermedia, quindi non ci si può sbagliare (cose da fare soli a Bangkok, prendere nota). Faccio conoscenza con un altro viaggiatore solitario sulla banchina, un inglese (sempre per la storia dello stare soli). Mi stufo presto e cambio posto congedandomi con sorrisi falsi e scuse cortesi in pieno stile anglosassone. Mi affaccio dal parapetto per osservare meglio il tragitto. Il battello oscilla pericolosamente crogiolandosi nella melma radioattiva. Ho il terrore di ogni schizzo che mi arriva.
Una vecchina thailandese con una blusa verde si affaccia al balcone della sua palafitta a mollo nella melma karmica. Ha in mano un vassoio di metallo, forse sta cucinando. Il battello rumoreggia, ondeggia, barcolla. I giubbotti di salvataggio inzeppati tra i tubi della cappotta non infondono sicurezza.
Altri ponti, ponticelli, rive e barche dopo siamo tornati alla base. Mi fermo sul ponte di Pratunam ad osservare il tramonto. Devo elaborare il lutto del tempo trascorso. Sono in Thailandia da quasi venti giorni e non ho avuto ancora il tempo di rifletterci su. Probabilmente lo farò rileggendo e trascrivendo questo diario, una volta tornata, chissà dove, tra quanti mesi, tra quanti anni.
Tutti i luoghi, le persone, le occasioni appena trascorse mi sfilano davanti come diapositive. La prima parte del viaggio è stata introduttiva ed istruttiva, guidata da Eva e Iuri in una edulcorata Chiang Mai. La seconda parte è stata decisamente più frenetica, nel vivo del mostro-Bangkok e nei gironi infernali di conferenze e notti brave. Ora inizia la terza fase, non so ancora all’insegna di cosa, non lo so mai, finché non accade. A volte è difficile gestire la tanto agognata libertà, quando ti ci trovi faccia a faccia.
La receptionist mi chiede dei miei amici. “They’re gone” (elaborare il lutto). Vado al night market a mangiarmi uno spiedino di calamaro, ce l’ho in mente dal pomeriggio a China Town. Il banco del chiosco prescelto è gestito da una trans che detiene l’egemonia sonora su buona parte del mercato: mor lam, techno giapponese, pop coreano e nostalgiche hit di un passato non loro. Ordino un succo di pomodoro e bevo un succo d’anguria con disappunto mal celato su “Ring my bell”. Non so da quale cappello l’abbiano tirata fuori. Forse da qualche magica vagina di Pat Pong.
Mentre quasi soffoco per via di una salsa piccante che supera ogni livello umano, un superman thailandese scimmiotta un Gangnam Style ammirato dai turisti. Le meraviglie del mercato notturno. Quanto mi mancherà questo posto (elaborare…).
Torno in albergo a tentare travasi impossibili per mollare la valigia formato armadio al deposito dell’aeroporto e portarmi in Cambogia solo uno zaino, e già pregusto i guai dei giorni a venire non senza un briciolo di ironico autolesionismo.