«Se una città si divide tra giorno e notte – come Bangkok – è la notte che bisogna scegliere».
(Lawrence Osborne, Bangkok)
Bangkok, 16 luglio 2019
L’uomo di guardia dell’hotel. Adagiato su una sedia colorata e precaria, con indosso mascherina anti-smog integrale, cellulare settato su una playlist di musica che sembra uno sbiadito revival del concerto al Rainforrest Club (quella che avremmo voluto sentire sin da subito). Sotto un ombrello ancor più colorato sfodera uno sguardo arcigno, ma non puoi dire se lo sia davvero perché il resto del volto è coperto da un dispositivo sanitario pressoché inutile in una strada secondaria in cui gli unici veicoli che passano sono quelli diretti all’hotel, quindi pochissimi.
Dorme. O per lo meno ci prova, coperto dalla mascherina e dalla sua musica, cullato dall’afa. Non ci riesce davvero, disturbato dalle nostre risate ubriache che coprono ogni mor lam, ogni luk thung, ogni Bob Dylan. Il suono delle birre stappate, vetro su metallo, vetro su vetro, un’auto parcheggia, un tuk tuk che sterza selvaggiamente, un turista che grida qualcosa all’autista. Tutto questo per lui non è altro che un sottofondo del tutto trascurabile.
È poco più che un vicolo (oddio, l’ennesimo) nascosto dalla frenesia totale a qualche metro più in là, un interruttore spento ad una girata d’angolo. Un ritaglio di mondo colpito solo di striscio da echi di frastuono e dal rifrangersi dei neon rosa, verdi, blu, rossi, gialli, viola, tanto per rendere ancor più palese il suo stato di vuoto.
Sediamo ad un lungo tavolone in legno corredato da file di sedie gialle in metallo. Vuoto. Attorno a noi fluttuano altri pochi freddi tavolini con sedie rosse, poltroncine in vimini, vuote. Siamo sopraffatti dalla materializzazione del concetto di ‘troppo’ in tutte le sue forme: troppo caldo, troppo alcol, troppe zanzare, troppo degrado, troppo spazio (in un paese in cui ogni centimetro non tarda ad essere occupato da qualcosa o qualcuno).
L’afa diventa sempre più soffocante, le zanzare sempre più accanite. Ad ogni sorso di birra ci pentiamo della nostra scelta ma continuiamo comunque a bere, non avendo alternativa. Le flebili pale del ventilatore a soffitto combattono contro una mostruosa densità atmosferica, avverto la fatica del trabiccolo come fosse la mia. Un mostruoso Don Chisciotte tossico che finalmente si fa beffe delle pale a vento, una storia ribaltata.
Il guardiano sonnecchia a tratti, intervallati da occhiatacce rivolte a noi, che siamo gli unici innocui avventori di questo atollo di desolazione. Lo fa più per sé stesso, forse, per riacquisire fiducia nel suo ruolo nel mondo, per darsi un po’ di lustro. A noi non dà fastidio, non più delle zanzare, ad ogni modo. La musica mor lam si insinua nella nostra notte intima e privata, come volesse anch’essa tenerci sotto il suo occhio. Leviamo il disturbo lasciando un vuoto gravitazionale in quella frazione immonda di spazio-tempo.
Altre strade, altri vicoli, altri neon. Altri pubblici segreti di Bangkok. Templi diurni e idoli notturni, è sempre la stessa storia. Le Sodoma, le Gomorra, i locali a luci rosse. Stavolta ci rechiamo al Soy Cowboy ad un’ora abbastanza decente per trovare un briciolo di indecenza. Consumiamo la solita birra al 7Eleven e ci facciamo una scomoda passeggiata tra blatte e tombini aperti attendendo gli altri. Quando abbiamo visto abbastanza rifiuti, topi, altarini sacri e secolari, entriamo nel tempio di Moloch: il Soy Cowboy, in tutto il suo splendore. Siamo cinque italiani, quattro uomini, e me.
La via è stretta e densa, si estende tutta in altezza e in profondità, un posticcio riallestimento della foresta pluviale. Cumuli di cartelli luminosi e colorati dai nomi allusivi sono affastellati gli uni sugli altri in una grande scalata verso l’estasi.
Midnight Bar. Cowboy 2. Sahara. Rawhide. Toy. Dejavu.
Gruppi di ragazzine in costumi a tema sono pronte ad accalappiare turisti sessuali ad ogni angolo, indipendentemente da genere, età e provenienza geografica. Il parametro che conta è solo uno: il portafogli. Ci sono cheerleaders, marinarette, dominatrici, tigri, e via dicendo. Il meglio degli stereotipi sul mercato. Molte arrivano con una lista di opzioni mandate a memoria. Ce ne sono molteplici, alcune molto fantasiose, tutte implicano “money”.
Entriamo in uno dei locali a pagare un prezzo vergognosamente alto per qualcosa che il 7Eleven ci avrebbe tirato appresso a due baht. Il prezzo dell’esperienza, della curiosità antropologica, mettiamola così. Non siamo qui per consumare servizi, solo alcolici scadenti e ore del nostro tempo, per avere qualcosa di cui scrivere, di cui raccontare. Due signore ci fanno accomodare in prima fila. Non so perché siamo sempre quelli che finiscono a fare gli onori di casa in questi posti, sarà che siamo italiani, basta questo.
Delle cameriere spavalde e molto poco attraenti ci servono in modo abbastanza rude. Al centro del locale si estende un lungo bancone sul quale si alternano file di ragazzine con succinti costumini bianchi. Ballano sui pali e ammiccano ai clienti (me compresa) con la speranza che qualcuno molli del “money”. Puoi pagare un drink alle ragazze e ottenere riconoscenza in forma di moine e illusione di contatti fisici. Con un po’ più di “money” puoi far sedere le ragazze accanto a te. Se vuoi qualcosa di più non hai che da chiedere, e sborsare ancora più “money”.
Le ragazze continuano a salire e scendere a gruppi dal bancone, a strusciarsi sui pali, a strusciarsi tra loro, ad ammiccare, a catturare attenzioni, a catturare “money”. Alcune sono più adulte di altre, ma tutte danno l’impressione di essere appena uscite dal doposcuola. Avvertiamo una certa pressione, stiamo terminando i drink e non siamo gli unici ad essersene accorti. Le ragazze fanno di tutto per tirarci in mezzo, ma noi non ci scomponiamo di un centimetro. Resistiamo finché il liquido nei nostri vetri opachi non tocca definitivamente il fondo.
Dopo un po’ capiamo che è il caso di andare, non inganniamo più nessuno, siamo i classici clienti che ti fanno perdere tempo e denaro, è chiaro. Dicono che in alcuni locali facciano entrare solo uomini giapponesi di mezza età, per andare a colpo sicuro. Forse sono solo dicerie, comunque non siamo noi i giapponesi di turno.
Dopo l’ennesima vasca tra cheerleader e mistress decidiamo di cambiare aria, e area. Altro giro di corsa: Pat Pong, la versione hard core del Soy Cowboy, il red light district per adulti, fino ad ora avevamo solo scherzato. Appena scesi dal taxi ci facciamo deliberatamente accalappiare da un accalappiatore professionista. “Ping pong show and beer 100 baht”. Come no, forse se lo spettacolo lo faccio io. Ci prepariamo a spenderne almeno 300.
Sfiliamo tra i lugubri banchi in chiusura di un altro bel mercato del falso. Templi di montagna, templi di città, templi di perdizione, templi del riciclaggio. Un culto come un altro. In ogni caso devi fare la tua offerta (loto, medita, monaco…), in ogni caso c’è una transizione, una compravendita, volta al tuo tornaconto personale, fisico o spirituale. In ogni caso c’è il “money”.
Il tipo ci molla in uno dei tuguri che si piazza dritto in cima alla mia personale classifica di tuguri mondiali stilata finora.
Un locale in stato di abbandono e semi-vuoto in cui ragazze di aspetto ancora più trasandato, rude e sgradevole delle cameriere del precedente sfoggiano espressioni stanche frustrate tra i pochi indumenti. In realtà sono quasi completamente nude eccetto inutili e posticci orpelli. Le loro vagine, ben visibili, sono capaci di prodigi. Ordiniamo le nostre costose birre e ci prepariamo ad assistere allo show. Una delle ragazze spara palline da ping pong dal suo organo genitale (il numero di punta). Ci distribuiscono delle racchette per rispondere ai colpi.
Il ping pong a Pat pong. Farebbe quasi ridere se non fosse raccapricciante.
Un’altra ragazza spegne le candeline di una torta, con lo stesso metodo anatomico. Altre stappano bottiglie di birra, riavvolgono nastri e via dicendo. Potrebbero mettere su una ditta di riparazioni domestiche. Proprio mentre siamo nel vivo della discussione circa le potenziali forze idrauliche implicate nell’atto di espulsione della pallina, due donne nerborute ci si piazzano davanti a brutto muso: “You pay”. Ecco la parte clue della serata, il conto.
Ancor prima di riuscire a mettere mano al portafogli ci rifilano, quasi sbattendocelo in faccia, un cartellino plastificato con dei prezzi: drink 300, show 1000. Alla faccia dei 100 millantati dal ruffiano. Totale 1300 baht, che cominciano ad essere una cifra consistente per cinque minuti di degrado sociale e una becera birra da discount.
Facciamo quello che di più sbagliato si può fare in questi contesti: protestare. È tutto inutile, l’accalappiatore si è dileguato per tempo e ovviamente tutti fanno finta di non sapere di cosa stiamo parlando. Siamo finiti in una truffa in piena regola e quasi deliberatamente. Non puoi dire di essere stato davvero in Thailandia se non sei caduto in una truffa, se non ci hai rimesso del “money”.
Più protestiamo più aumentano gli energumeni imbronciati attorno a noi e la durezza dei toni. Capiamo che ci siamo cacciati davvero in un guaio quando cominciano a puntarci torce in faccia e ad urlarci senza troppi complimenti: “YU’. PHE’. MONI”. You pay money.
Noto che hanno bloccato le uscite, non abbiamo scampo. Poi si fanno davvero aggressivi, vogliono aprirci le borse e vedere quanti soldi abbiamo nel portafogli. Non smettono di ripetere ossessivamente “money, you pay money” senza darci il tempo di riflettere e trovare un’alternativa.
Non sanno altro in inglese, ogni forma di comunicazione è fallita in partenza. Dobbiamo solo pagare money. Tento di raccogliere il più possibile le idee tra torce in faccia, brutti musi e minacce e convengo che non possiamo aprire le borse o rischiamo che ci rubino tutti i baht in contanti prelevati per questi giorni (più gli euro, qualche dollaro, soldi indonesiani che porto di scorta) e le carte di credito. Quindi ficco una mano nello zainetto alla ceca e mi improvviso filatelista: tasto tutte le banconote finché non ne sento una che mi pare un giusto taglio per metterli a tacere, quindi la sbatto in faccia alla tizia con espressione decisa, illuminata dalla torcia.
Non batto ciglio. Lei si gira verso un suo compare come a cercare man forte ma stavolta la anticipo io sul tempo, usando il loro stesso metodo. Mi metto ad urlare in un inglese brutto e ben scandito che non le farò mettere le mani nella mia borsa, a costo di chiamare la polizia, e che questo è tutto quello che ho, che se lo faccia andar bene. Mentre faccio il mio numero da eroina tragica tremo dentro, ma non mi smuovo. La mia faccia rimane impassibile sotto la luce della torcia. Funziona. Si piglia i soldi e mi lascia in pace. È circa la metà di quel che mi ha chiesto, anche se mi sembra comunque troppo.
Ora passa ai miei compagni di “money”: “You pay”. Ci risiamo. Torce, musi, minacce. Gli altri seguono a ruota quello che ho fatto io e siamo quasi fuori, quando uno di noi ci confessa di non avere davvero abbastanza soldi. Altre urla, altri troll a sbarrare le entrate.
Faccio il secondo numero alla Houdini (altro che palline da ping pong, dovrei farlo io lo show) e riesco a ripescare una banconota dello stesso taglio, passandola sottobanco al mio compagno approfittando del fatto che tutte le torce sono puntate in alto quindi le nostre mani sono libere di agire nel buio. Finito il “paga tu” (“you money”), si rilascia la tensione. Tutti i gorilla e le carceriere tornano ai loro posti e otteniamo il via libera.
Fuori il mercato tace. L’aria pregna di resti delle trattative diurne e i sentori di marcio veicolati dal caldo ci sembrano aria pura di montagna. Non c’è più traccia alcuna di accalappiatori e millantatori di sorta. Ci allontaniamo da quel posto alla svelta.
La mattina dopo siamo immersi nell’oro e nell’ostentazione più sfrenata dello sfarzo del palazzo reale, tra affreschi che narrano storie del Ramayana, gusci di pagode dorate che brillano al sole, e Buddha sdraiati, in piedi, seduti, sul loto, avanti, giravolta e via. Le tempie provate dai bagordi della sera precedente pulsano sotto il sole cocente e la vista è accecata dai bagliori violenti di ogni cosa su cui si poggiano i raggi del sole. C’è aggressività in ogni cosa, persino in quelle più raffinate. È uno schiaffo continuo, ti senti sballottato da un estremo all’altro senza un attimo per riprender fiato.
Cerco di posare lo sguardo su qualcosa di neutrale ma la mia vista viene continuamente rimbalzata da qualcos’altro che cattura la mia attenzione. Ed ecco qualcos’altro di ancor più brillante, ancor più dorato, che me la fa spostare ancora, e ancora. Statue di polli antropomorfi e creature marine. Anoman (la scimmia mitologica) e raksasa (demoni) in tutte le salse (qui forse persino più dei Buddha). Monaci che fanno selfie. Monaci che non toccano donne, ma toccano la propria vanità. I monaci sono i supereroi thailandesi, vengono trattati estremo rispetto e ammirazione. Eppure, chiunque può diventare monaco, anche solo per una settimana, e po’ uscirne quando vuole. A meno che, certo, tu non sia donna. Sarebbe difficile non poter toccare te stessa.
Pagoda d’oro, palazzo d’oro, palazzo verde, pagoda blu, Buddha di giada. E via un altro giro di giostra, un altro giro di testa, un altro giro di Oki. Al Buddha cambiano i vestiti in base alle stagioni. È tutto troppo pieno, di tutto. È l’esatto contrappasso di ciò che avviene dall’altra parte della medaglia, dall’altra parte della rete del tavolo da ping pong. I Pat Pong, i Soy Cowboy, i musi duri, le torce. Solo il “money” è il filo comune, che lega tutto. Quello lo paghi ovunque, in cima alla pagoda o in fondo all’ultima bettola.
Nei dintorni del palazzo reale ci sono un paio di posti interessanti. Per lo più negozi di dischi usati (impolverati, accumulati, accatastati, dimenticati) e strumenti musicali. Ne esco con un vinile di isaan e mor lam e due piccoli gong shan, acquistati prima di avere il tempo di realizzare che dovrò girarmi mezzo sudest asiatico con dei gong appresso. Ti fregano sempre sul tempo.
Alcuni dei miei colleghi ne escono con della popolarità mediatica in più. Mai mettersi a suonare strumenti musicali davanti a dei locali. Banali errori da etnomusicologi zelanti. C’è gente che fa il video di quello che fa il video. Per qualche momento siamo tutti una grande famiglia (noi, i negozianti, qualche avventore, quelli che fanno i video dei video, dei video…). È commovente. È la prova più schiacciante del potere unificatore della musica. La musica unisce, il “money” divide. Meglio continuare a fare l’etnomusicologo che fare il “money” (perché si è capito che le due cose sono inversamente proporzionali).
China Town è la stessa in ogni “town”. Ci passiamo dentro senza scomporci troppo, come fossimo in qualsiasi altra latitudine. Ripassiamo anche davanti alla Giant Swing (la “grande altalena” rossa al centro di una grande piazza di cui non ricordo il nome) e a qualche tempio hindo-buddhista, hindo-cinese, sino-buddhista, comunque sempre due o tre culti mescolati tra loro che non fa mai male, nel vecchio caro Sud Est.
China Town è un casino per tutti, ma qui – nel regno supremo del caos – lo è ancora di più. Vediamo tutto filtrato attraverso i fumi dei carretti ambulanti: barbecue di maiale, zuppe mefitiche, cumuli di durian, gamberi in ogni salsa, lotterie, fuochi d’artificio (chissà perché ci sono sempre), gatti meccanici che salutano in modo seriale, lanterne rosse, scritte cinesi con traduzione thailandese (che per noi è come dire ti traduco il codice binario in alfabeto morse).
Luci, odori, suoni, calca. Un altro girone infernale che non sfigura rispetto ai precedenti. Siamo costretti a rimanere in fila indiana come un enorme bruco umano che striscia tra caldo, fumi e fogne, residui di marciapiede, tuk tuk sfrenati, carretti arroccati gomito a gomito, scritte accecanti e incomprensibili che si accavallano come pop-up su uno schermo impazzito di un PC in tilt, è crash totale.
Il banchetto degli spiedini di calamaro gigante è decisamente il re della festa. La maggior parte degli altri banchi vende prodotti culinari con delle facce. Perché agli asiatici piace mangiare cose con le facce? I tranci di maiale crudo sventolano in bella mostra come pezzi d’antichità all’asta. Catene di salsicce finiscono dirette dall’espositore alla brace rivelando un innaturale color fucsia shocking (l’alternativa alle facce). Dopo un po’si ripetono gli stessi prodotti, si ricomincia, da capo: durian, maiale, calamaro, facce inquietanti, lotterie (seduti, in piedi, loto, monaco…). Tutto sta nel tener duro al caldo e alla calca… e ai fumi di maiale, all’odore penetrante di durian moltiplicato in bastimenti da decine e decine, alle fogne, al pesce, al sudore.
Il tutto sta nel farti bastare uno spazio vitale che per quanto minimo e inesistente è comunque da condividere, non è mai tuo, mai delimitato, privato. Basta saper rinunciare al concetto di definizione della propria identità e farla massa. È qualcosa a cui noi europei non ci abitueremo mai.
Infatti ci siamo già premuniti, abbiamo già mangiato sulla strada dei negozi musicali, in un warung di quelli a buffet dove prendi ciò che vuoi in quantità industriali e poi paghi a fiducia indicando blandamente i vassoi (metodo a cui invece ci siamo abituati subito). Abbiamo fatto una scorpacciata di macinato al basilico, uovo salato e spinaci d’acqua (alcuni dei pezzi forti thailandesi) e poi ci siamo buttati nella mischia, “per digerire”.
Qua a China Town ci siamo venuti in visita, come sempre, in sopralluogo, per il solito fieldwork di piacere. Come nei quartieri a luci rosse. Il mestiere ci è diventato stile di vita. Però non avevamo calcolato che ci sarebbe rivenuta fame, perché il cibo asiatico ti conferisce quella momentanea illusione di sazietà che svanisce in capo a due ore. Ci infiliamo in un pretenzioso ristorante fusion sino-thailandese e ci rimaniamo fino oltre l’orario di chiusura. Ci sono cose come involtini di tofu e granchio e dei noodles con un indefinito “prosciutto cinese”.
Il ristorante più buono di tutta Bangkok è quello birmano, a poche centinaia di metri dal nostro albergo, vicino alla fermata del battello di Pratunam. Il menu prevede zuppa mohinga, insalata di foglie di tè, riso briyani, ceci e tè lapheye. La cucina birmana rimane una delle migliori nel sudest asiatico. Alle pareti sono esposti arazzi in stile birmano. Su uno svetta coloratissima l’intera orchestra hsaing weing (i dettagli che nota l’etnomusicologo). Dall’altro lato della sala aperta si vede una bella vista di Pratunam, con il suo lurido canale e i battelli che passano di tanto in tanto, i ponticelli, i grattacieli, le barchette e i colossi commerciali. È praticamente un abstract di Bangkok, uno di quelli completi ma concisi che passano subito la peer review.
Pratunam è, tutto sommato, un’area piacevole, se la consideri nel contesto delirante in cui è inserita. È un’area di collegamento, di passaggio, di limine. E forse è proprio questo che la rende interessante. C’è un fantastico night market che ci ha salvato tutte le cene della settimana, un 7Eleven fornitissimo, i ristoranti indiani, il sovrappasso che rende gli attraversamenti facili e l’accesso rapido all’area commerciale, il fiume con il servizio traghetti, uno stuolo di bancarelle di paccottiglia che imbottisce i marciapiedi ad ogni ora sopperendo ad ogni necessità e i centri massaggi loschi a buon mercato.
E poi c’è il Pratunam Metro Boutique Hotel, che se lo avessero chiamato Un Qualunque Ostello, non avrebbero fatto un soldo di danno. Il Metro Boutique (molto “metro” e poco “boutique”) con il suo guardiano e le sue poltroncine di vimini in un posto in cui si ammuffirebbe anche il titanio. L’hotel con le sue sommesse scorribande notturne, il vetro sul metallo, le risate straniere, i neon e il mor lam. Un microcosmo angusto e dimenticato, lasciato lì ad ansimare tentando di riprendere fiato per ributtarsi a capofitto nell’abbrutimento del mostro-Bangkok, dalle mille teste e i mille occhi che per ora hanno tralasciato questo angolino in santa pace, per quel che dura, per quel che vale.