Altro Giro, Altra Corsa

Capitolo 16 – Lotterie notturne, selve diurne

«Sotto casa una banda di musicisti wikipo suonava i fiati locali, mentre una vecchia si torceva le budella nel microfono. Il repertorio era limitato a qualche canzone luuk thung, che è il country thai, fatto di arie agrodolci con un tema ricorrente, la miseria rurale».

(Lawrence Osborne, Bangkok)

Bangkok, 14 luglio 2019

Giorni di conferenza, di vita notturna e morte diurna. Giorni di taxi, Grab e tuk tuk fino a perderne il conto (da presentare alla tua università sotto forma di calcolo spese, in thailandese, il rimborso sulla buona fiducia). Giorni di: thank you – sorry – that’s so interesting – I read your paper – that’s a tough question – let’s keep in touch – (non è vero nulla) – bedge – codice – coupon – bollino – caffè biglietto da visita (come i Buddha in piedi, sdraiati, loto, monaco e via).

Altro giro, altra cosa.

Un concerto di mor lam in apertura, abbuffate di delizie thailandesi: pad thai, tom yum, mango & sticky rice, papaya salad, spiedini di maiale, zuppe di pesce, noodles piccanti, dolcetti al cocco, frutta tropicale a volontà. Dopo aver dato inizio alle danze devi continuare a danzare fino all’ultima slide, fino all’ultimo applauso, l’ultimo caffè con concerto all’aperto (perché se fai un convegno ai tropici puoi permettertelo).

Dal mor lam dei contesti ufficiali passiamo al mor lam dei contesti urbani, con quello del Rainforrest Club. Una stradina, più che altro l’ennesimo vicolo angusto, nascosto negli umidi meandri aggrovigliati dell’ennesimo ammasso di quartiere della città. Un vicolo che sa di birra e mango, appannato dai neon decadenti e battezzato dai gocciolii irregolari (in eterofonia) di grondaie e cornicioni.

È tutto uno sgocciolio, cola tutto a picco. È un grande colabrodo incorniciato da un fregio dorato retroilluminato, un’opera di un artista squattrinato sbattuta in un angolo di un museo contemporaneo, di quelle che scambi per parte dell’arredo, e forse (chi può darti torto?) lo è.

L’immagine del Re svetta sulla facciata di un ponte. Un altro Re, un altro ponte. E via altri sgocciolii, pozzanghere, topi, blatte, neon, manghi, luppoli e durian. Continueresti a camminare per sempre guidato dalla voglia di fuggire dall’olezzo e dal disgusto, finché non ci prendi il via e la fuga diventa quasi una ricerca, assuefatto dall’oblio.

I 7Eleven sono diventati i nostri pub preferiti, colmi di birre locali a buon prezzo. Sempre che non capiti nell’orario sbagliato, ma questa è storia vecchia, ormai, Chiang Mai.

Il Rainforrest Club. Nella stessa stradina umida che sa di mango, dopo aver mangiato l’ennesima zuppa di pesce piccante. Entriamo nel locale, abbastanza vuoto, abbastanza vintage, abbastanza locale.

Un palchetto promette musica folk-pop, a giudicare dall’organico parcheggiato tra cimeli appesi e corna bovine. Isaan, mor lam, luk thung, a noi vanno bene tutti i generi, purché siano “locali”, purché non siano “autenticamente accademici”.

I musicisti non deludono le nostre aspettative. È un folk-pop transculturale, quindi più “locale” che mai. Tra brani luk thung e isaan spuntano Bob Dylan, i The Animals, e altre cose così familiari che cominciamo a volergli bene per questo loro fregarsene a tal punto delle aspettative degli stranieri da non pensarci nemmeno a menzionare la “tradizione”, né a parole né in note musicali.

Dopo la prima ondata di brani di riscaldamento il posto comincia a riempirsi e i ritmi si fanno più concitati e ballabili. Improvvisamente realizziamo di essere nel mezzo di una festa di compleanno. Ci ritroviamo tra ventenni thailandesi a scatenarci al suono della loro musica preferita (non quella che i colleghi vorrebbero che loro ascoltassero).

Dopo la quinta o sesta Singha mi sento in diritto di gettarmi nelle presentazioni. Una ragazza prende coraggio e mi invita a ballare. Altre ragazze ci circondano e si buttano in movenze che non rientrano nel mio background culturale. Dopo attimi di tilt, i miei stimoli motori mi suggeriscono rudimenti di danza giavanese mista ad anni di training giovanile nelle migliori discoteche romane LGBTQ+.

Funziona. Funziona sempre.

Mi sento felice. Finalmente persone socievoli e dinamiche, aperte ed intraprendenti con voglia di condividere qualcosa che non sia sesso o denaro. La Thailandia che vorrei.

Usciamo verso le due ubriachi di tutto, ma soprattutto di musica e di umanità. Ci sentiamo ancora in vena di fare festa, ancora in ballo, ancora in gioco. Ci dirigiamo al Soy Cowboy, nel quartiere a luci rosse (uno dei più famosi, uno dei tanti). Lo facciamo per quello che si può definire ‘turismo dell’antropologo’. La regola è non toccare, non acquistare, ma dedicarsi solo all’osservazione (non-partecipante).

Con nostro grande rammarico è già tutto chiuso, tutto finito. Sarà per il prossimo giro, per la prossima corsa. Ci facciamo i chilometri per trovare un taxi. A qualche isolato dal quartiere a luci rosse incappiamo in un imponente tempio cinese illuminato a festa. Una folla di persone si reca ad accendere incensi a mani giunte. Saranno le tre del mattino.

Davanti al tempio spuntano chioschetti che vendono schedine della lotteria. Un uomo predice le carte. Alle tre di notte. Mentre noi rimbalziamo da una perdizione all’altra, la gente prega e interroga il futuro, alle tre di notte.

Bangkok non dorme mai.

Al nostro ritorno a Pratunam ci sono ancora attività aperte, per lo più loschi centri massaggi e ristoranti indiani. Mangiamo, inevitabilmente, indiano. Siamo solo noi (due italiani) e un gruppo di uomini indiani che ci guardano con sospetto. Alle tre di notte.

Poche ore dopo, con qualche anno di sonno arretrato e di esperienza in più sulle spalle, mi metto di nuovo il bedge al collo, pronta per altri coupon, altri caffè, un altro panel o due, qualche stanco cenno di interesse per il lavoro altrui (it’s so interesting – I’ve read your paper). Saluti, pranzi sociali, concerti, strette di mano, freddo artico delle aule, caldo delirante dei cortili, camice, longi, pa’sin, sarong, batik (e altri tocchi di appropriazione culturali in cui ogni studioso oltre-oceanico si autorappresenta, io in primis).

Il workshop di canto di gola (overtone singing) con il leggendario Tran Quang Hai vale tutto il convegno. Anche perché non capita tutti i giorni di osservare file di meritevoli studiosi eseguire vocalizzi storti e versi nasali (“i-e-a-o”, “i-e-a-o”). File di gatti con un pedigree notevole, fior, fior di miagolii in double blind peer review. Tran Quang Hai è il primo a spassarsela, ride, scherza, prende tutti in giro, soprattutto i pezzi grossi. È un gran bel momento.

Overtone Singing
Foto ricordo

Anche il workshop di khen (organo a bocca) ha il suo perché. E via, file di emeriti colleghi a soffiare in canne di bambù. Poi c’è l’attesissimo concerto di “tradizionale” phi phat thailandese, un po’ come la prima alla Scala. L’auditorio è pieno di personalità accademiche da ogni parte del globo. Il giardino è degno di un ricevimento principesco, con stand e tavoli sempre riforniti delle solite prelibatezze (anche se, dopo l’ennesima zuppa piccante quasi ti getteresti in un Burger King senza troppi complimenti).

Nei momenti di pausa sembra di essere catapultati in un film di liceali americani, ogni tavolo ha la sua cricca: gli italiani troppo eleganti che parlano solo italiano; gli indonesiani in batik che parlano solo indonesiano; gli americani in batik che parlano solo indonesiano; i malesi che parlano solo inglese; i mostri sacri dell’accademia riuniti (quasi gli faresti un ritratto ad olio); quelli del panel sul Myanmar (che sono tipo i Mathleti della situazione); i musicisti ghanesi che ovunque vadano si vestono inequivocabilmente da musicisti ghanesi fregandosene di giacche, cravatte e folklorismi d’adozione; gli studenti thailandesi il 90% dei quali sono parte dello staff ICTM e il 90% dei quali non ha idea di cosa sia un ICTM; e via dicendo, potresti starci ore.

Pochi altri panel, applausi, biglietti da visita e caffè dopo siamo di nuovo fuori, alla mercè della città e della sua aggressiva esuberanza. In balìa dell’incompetenza dei taxi e dell’occhio per gli affari dei tuk tuk. Un tassista ci butta letteralmente fuori perché pretendiamo che faccia la strada più corta e che accenda il contachilometri. Il nostro bisogno di trasparenza lo offende e lo ripugna. Il secondo tassista chiama il proprietario del locale verso cui siamo diretti per farsi dire la strada, ma non ne ricava nulla. Quindi ci liquida anche lui senza troppi complimenti. In pratica funziona così: loro decidono dove vai, quanti ci impieghi e quanto paghi, altrimenti non se ne fa nulla.

I tuk tuk invece vanno dove vuoi e come vuoi per un prezzo contrattato fino all’ultimo centesimo. Sono perfetti, se togli il fatto che i conducenti non sanno guidare, o sanno farlo troppo bene quindi si tolgono lo sfizio di infrazioni mortali di tanto in tanto. Ma tanto. Forse, in fondo, lo prendi anche per quello. Fa anche questo parte del pacchetto, del loro business, i tuk tuk sono invischiati fino al collo nel business. Ne trovi alcuni con la scritta VIP sui sedili in pelle dai colori tremendi e dei ragni finti appesi alla cappotta. Il kitsch e l’accumulo, di nuovo, sono l’elemento portante e ti fanno felice.

I centri commerciali, come intuibile, sono i regni del falso. Altri orologi, altre contrattazioni. Otto piani di falsi e contrattazioni con cartelli luminosi grandi quanto un intero villaggio. Giovani thailandesi sorridono in overdose di forme e colori. I gelati all’uovo salato non sono la cosa più abominevole che trovi, seppur stenti a crederci.

La cosa bella dei thailandesi (e dei sudest-asiatici in generale) è che provano tutte le combinazioni, finché non trovano quella vincente, e comunque continuano a proporti tutte le altre. Tu ci caschi proprio perché ne vedi talmente tante che ne sei irrimediabilmente attratto, anche se alla fine sai che prenderai la stessa cosa che in quel momento magari neanche ti va. Il mercato pullula di cavallette, grilli, larve e bruchi fritti. Ho provato quasi tutto, anche qui, persino il coccodrillo, che sa di pollo ma è tenero come il pesce. Non è letteralmente né carne né pesce.

L’albergo non ha la lavanderia. L’albergo è già tanto che abbia l’albergo. Vado ad una lavanderia nascosta in una delle stradine sul retro. Si paga a capo. La cosa non mi entusiasma ma non è che abbia altra scelta, a meno che non voglia stendere la mia biancheria in faccia a quello della stanza di fronte. Alla fine spendo un prezzo ragionevole e me la mandano persino in albergo. Sono più professionali dell’albergo.