Luci dal Nord

Capitolo 5 – Una vita a tentoni

«Così sarebbe stato, lassù, scivolando verso le stelle, nella notte, nell’immenso ripostiglio tenebroso, urlando, ma senza che qualcuno sentisse. Precipitando infinitamente fra nuvole di meteore e comete. Giù per la tromba dell’ascensore. Giù per la botola del carbone nell’incubo del nulla».

(Ray Bradnury, Cronache Marziane)

Tromsø, 2 gennaio 2023

Hotel Radisson, qualche ora imprecisata del mattino

La notte nel lavvo trascorre insonne a causa della maledetta ricarica della stufa a legna. Ci tiriamo fuori dal letto controvoglia alle sette del mattino con i vetri ghiacciati, nel buio totale. Fra si alza prima di me per andare a fare il caffè nei thermos, che continua ad insaporirsi di tutto ciò che ci cuciniamo dentro. Fuori è in corso una specie di tormenta di neve. Il buon anno si vede dal mattino.

Non vediamo il sole da due giorni, il che comincia ad essere abbastanza straniante. Cominciamo a racimolare provviste e vestiti umidi in giro per il lavvo, sempre alla luce dell’unico cero che ha resistito miracolosamente alla notte. Contiamo due buste di immondizia e una di pannolini, un cimitero di bottiglie vuote e panni stesi ovunque. Abbiamo ridotto questo posto ad un sottoponte di Termini. Poggio l’unico paio di calzini termici, zuppi di umidità e con le estremità ghiacciate, sulla stufa. Ci provo anche con le scarpe e quasi le squaglio.

Convinte di aver scordato più di qualcosa nella capanna, ci facciamo coraggio e usciamo a prenderci fiocchi di neve in faccia di prima mattina. Alla tavolata del campo base ci attendono, oltre alle nostre guide in potente hangover, vassoi di uova, cetrioli e salmone. Io tento di fare l’italiana schizzinosa con un cappuccino e le solite fide girelle alla cannella ma poi cedo e mi riempio il piatto di tutto. “Ma non eri ancora sazia da ieri?”. “Io ti giuro non ce la faccio più a mangiare, vado avanti per inerzia, è diventata deformazione professionale”.

Sul tavolo spiccano cose come maionese e peperoni, alle otto del mattino.

Ripartiamo verso Tromsø in prima fila a fianco ad un Ivan ancora più gioviale e discorsivo. Mentre fa manovra sul vialetto che poche ore fa era stato la nostra pista di lancio, esclama con fare divertito: “Pensate se invece che con la slitta finiamo in acqua con la macchina!”. Io e fra ci guardiamo allarmate: “Noi non abbiamo mai smesso di mangiare ma questo non ha mai smesso di bere”.

Fra approfitta del tragitto fino al traghetto per portarsi avanti sul check-in dei voli di domani. È  così che cominciamo il 2023 con nuove tribolazioni. “Non mi fa completare il check-in perché richiede il test Covid-19”. “Non è possibile, è stato abolito da giugno e mai reintrodotto negli aeroporti europei”. Partono due ore di dibattiti telefonici con varie compagnie aeree e centralini, mentre io tento di tenere a bada Ivan che cerca soluzioni alternative senza né capo né coda, presissimo dalla nostra situazione. Alla fine ci rinunciamo e decidiamo di presentarci comunque in aeroporto domani a tentare la sorte. Siamo alle solite.

La sorpresa successiva è il traghetto annullato per via dell’ennesima tempesta perfetta, il che ci costa altre quattro ore di macchina per circumnavigare il fiordo invece di attraversarlo. Seguono ore di montagne rocciose incastonate di stalattiti di ghiaccio, strade a picco sull’acqua e i soliti baluardi di civiltà con roccaforti del lusso in assenza totale di servizi pubblici. Le case ci sembrano tutte uguali, non abbiamo ancora scorto una persona o un animale, solo ghiaccio. Un presepe fatto a nazione.“Guarda il cielo, è bianco di neve”. “Almeno non è nero”. “Vabè, c’è una tempesta”. “Per me qua la tempesta c’è sempre, pure quando secondo loro c’è bel tempo”.

Dopo due ore e mezza facciamo una sosta ad un autogrill che sorge poco fuori un villaggio composto da quattro villette e una chiesa luterana incorniciata da neon colorati. Rinunciamo agli hot dog (uno dei cibi di strada più comuni qui), alle ciambelle e ai dolci ripieni al cocco (come fa ad essere una specialità lappone?), ma ne usciamo comunque con altre stramberie: patatine gusto jalapeño, carne essiccata al lemongrass, barretta Fazer alla menta, caramelle Fisherman’s Friend ai gusti cioccolato e menta e caramello salato e Coca Cola al lime.

La Coca Cola ha un effetto soporifero. Mi risveglia bruscamente Ivan poco fuori Tromsø con un: “We are entering THE city!”, l’unica in quattro ore. Scarichiamo i bagagli e salutiamo i nostri compagni di sventure, indecise sul da farsi. In città continua ad imperversare la tormenta e noi abbiamo prenotato un’esosissima notte in un esosissimo hotel convinte di non fare il tour delle aurore di stasera che invece apparentemente si farà, con tutta la bufera. Quindi abbiamo pagato duecento euro di deposito bagagli. Andiamo subito ad usufruirne.

Molliamo gli zaini nella cloackroom, non senza prima esserci lanciate in una rassegna provviste e cambio outfit di repertorio (un’aria da baule) nella lussuosa sala d’attesa. Andiamo quindi raminghe per Tromsø in attesa di poter effettuare il check-in e rubare almeno due ore di sonno prima dell’ultima levataccia verso gli abissi di ghiaccio e desolazione. Qualche vasca lungo il corso principale ci regala solo negozi di paccottiglia costosissima e deludente, supermercati chiusi e ristoranti inavvicinabili.

Alle 14.55 siamo di fronte ad un comico concierge con baffi da cartone animato Pixar a reclamare la nostra camera. Vogliamo usarne ogni centesimo speso. Inutile dire che la prima preoccupazione è l’allestimento del banchetto del primo del primo dell’anno, stavolta a ragione, l’ultima cosa che ho mangiato sono dei cetrioli alle otto del mattino.

Apparecchiamo la scrivania con zuppa di funghi scaldata con il bollitore (rigorosamente non cotta di contro alle istruzioni e al buon senso), panini al cardamomo (uno degli ultimi acquisti, il diamante grezzo della dispensa ambulante), formaggio norvegese, salsicce, patatine all’jalapeño, chai tea appena trafugato dalla hall con latte in polvere del servizio in camera, e cioccolata al caramello.

Ci regaliamo la prima doccia in due giorni, solo per usufruire del getto d’acqua massaggiante, e ci cambiamo finalmente le tute termiche che sono state una seconda pelle. “Me sembro Yattaman quando se trasforma, che c’ha sempre la stessa tuta sotto”. Sbrigate tutte le faccende domestiche (incluso lavaggio thermos e portapranzi con shampoo dell’hotel) ci rendiamo conto che ci rimane solo un’ora per dormire. Quindi non dormiamo. Rimaniamo semplicemente un’ora nel letto a meditare sulle imprese passate e sulle nostre iniziative malsane.

Verso le 17.30 ci rimettiamo in moto. Mentre una prepara gli shake nei thermos, l’altra asciuga i calzini col phon. Un passo avanti rispetto alla stufa, se non altro. Siamo stanche morte, non ci va per niente di farci trascinare tra le selve artiche per la terza notte di fila, siamo sazie di aurore, di neve e di buio. Ci trasciniamo nostro malgrado davanti allo Scandic Hotel, che a quanto pare è il luogo di ritrovo di tutti i tour operator di Tromsø.

Stavolta è stracolmo di gente che attende le guide di compagnie più disparate, non ci si capisce nulla. Continuiamo a rimbalzare da un pullmino all’altro in cerca del nostro, finché non lo troviamo. Se pensavamo che Ivan e Andy della Green Gold of Norway fossero totalmente andati, Bart della Wandering Owl è decisamente un fuoriclasse. Noi ci posizioniamo sempre ai primi posti disponibili, stavolta in seconda fila, dietro Bart e il guidatore, un ragazzo cecoslovacco.

Bart viene dalla Polonia, è arrivato a Tromsø anni fa in autostop, ha vissuto da hippy suonando per strada e dormendo in tenda nel parco comunale finché non ha cominciato a lavorare come guida turistica. Ha un modo di parlare singolare, come se anticipasse il pensiero successivo mentre ancora sta articolando il precedente, in modo rallentato e con frequenti, ritmici, intercalari che rendono la sua voce quasi ipnotica. Non capisci davvero quello che vuole dire, ma ne cogli l’essenza. È  come se capissi dove vuole arrivare senza riuscire a decifrare da dove voglia iniziare il discorso.

Una volta posizionate le borse delle scorte sopra la testa e sotto ai sedili, con thermos alla mano, siamo pronte per l’ultima caccia di aurore. Bart ci informa che nonostante il cielo sia ancora nuvoloso ci sono diversi punti aperti in cui si può scorgere l’“oro verde”, ma dobbiamo fermarci molte volte ed essere rapidi e dinamici negli avvistamenti, per scendere prontamente dal pullmino con tutta l’attrezzatura. Non faremo un viaggio lungo fino in Finlandia ma brevi tratte nei dintorni. Proprio tutto quello che va contro ai nostri piani di russate soporifere al caldo del veicolo.

Facciamo subito amicizia con Bart. Ci rivela una serie di cose circa i suoi passatempi, tipo il mettere a loop un documentario sul Vietnam che ha visto circa sette volte, o studiare tomi di archeologia greco-romana in virtù del suo sogno di fare la guida turistica al Colosseo. “Certo che per fare la guida a Roma devi sapere un sacco di cose, qui basta studiarsi due cose sulle aurore”. Come dargli torto. Certo, a Roma non devi essere capace di guidare in una tempesta e accendere fuochi nella tundra, al buio, scarpinando con la neve che arriva alla vita sotto -20° C.

La selezione musicale indie-rock nordica dell’autista mi riscatta di tutte le playlist di Ivan che ho dovuto subire nelle scorse 24 ore. Quando odo che faremo una sosta preventiva ad un autogrill per “rifornimenti” mi lego al sedile con la cintura tipo camicia di forza impedendomi di scendere. I nostri compagni di viaggio stavolta sono una famiglia indiana, due solitari da chissà dove e due coppie di donne asiatiche. Tra i nomi spiccano una Lakshmi e un Odino. “Siamo in ottime mani”. Ovviamente nessuno si degna di accendere una misera luce nel pullmino, rendendo ogni operazione difficilissima. Non ce la facciamo più a non vedere quello che facciamo. “Ma come fanno questi? Una vita a tentoni”.

Le ore successive si susseguono in un turbinio di sali-scendi dal pullmino in punti strategici da qualche parte nei dintorni di Tromsø, tra monti e fiordi, con saltuari pit-stop, avvistamenti di aurore, alcune davvero notevoli, seppur circoscritte in squarci di cielo non offuscato da nuvoloni nevosi (“comunque mica scemo Bart”). La nostra guida continua frenetica a sporgersi dal finestrino con la sua reflex per scorgere principi di aurora che non sono visibili ad occhio nudo, per poi gridare “tutti fuori” all’occorrenza. Noi continuiamo a mangiare tutto il tempo, sotto gli occhi di Bart e dell’autista, neanche il buio e gli scatti da marines ci fermano.

Verso le 21.00 ci fermiamo per un pit-stop più lungo a fare delle foto con delle signore aurore in sottofondo. È  lì che Bart ci informa che dobbiamo indossare le tute termiche perché saliremo su una montagna dove le temperature sono molto più basse (anche se comunque non siamo mai scesi sotto i 2° C e continuiamo ad avere caldo). Nasce un panico senza precedenti. La tuta termica integrale, taglia M, va infilata sopra quattro strati di vestiti, il che mi rende una XL. Comincio a spogliarmi a bordo strada lanciando cose a Fra tentando di infagottarmi in indumenti incompatibili tra loro che non hanno misure graduali. Alla fine risolvo ficcando la tuta termica sotto al cappotto lungo e avvitato, guadagnandoci l’agilità di un automa. “Ecco, Io Robot”.

Ma il bello viene con le calzature. Il primo problema viene con le misure. Non esiste 40, solo 39 o 41. A fra vogliono rifilare un 43. Apparentemente non esistono numeri pari, vai a capire perché. Il secondo problema è come infilarle dato che non ho alcuna mobilità nel busto, nelle braccia e nelle articolazioni, ridotta ad un Omino Michelin color cobalto. Tentiamo di aiutarci a vicenda culminando in gag alla Stanlio e Ollio. Ad un certo punto mi ritrovo ad annaspare a pancia in su sopra un cumulo di neve come una tartaruga rigirata, mentre Fra fa di tutto per legarmi lo scarpone senza accasciarsi a sua volta.

Passiamo minuti da incubo. Finalmente possiamo risalire sul pullmino con ancora meno spazio a disposizione, incastonate tra i sedili come statue nella Valle dei Re. Se non altro le borse con le provviste si vanno assottigliando. La fatidica sosta in montagna è più estrema di quel che pensassimo. Smontiamo definitivamente dal pullmino e ci prepariamo per una bella nottata attorno al fuoco da veri boy scout. Il letto diviene un miraggio sempre più impalpabile.

Bart si carica due slitte piene di legna, seggiolini, zuppe e bevande calde e ci distribuisce delle torce da testa che ci prega di accendere solo per camminare e di spegnere una volta raggiunto l’accampamento. Quest’ultimo è nient’altro che il fuoco fatto da Bart in un enorme wok, con sedioline da campo attorno, in una infinita distesa di neve ghiacciata in cui siamo immersi fino al collo, contorniata da alte montagne e ettari di buio.

Mentre svolgiamo le operazioni di scarico e allestimento del campo intravediamo una serie di altre intense aurore che rendono il posto surreale. Cerchiamo di godercele nonostante le asiatiche creino una coreografia da disco anni ’80 con le torce e non ci sia modo di fargliele spegnere o puntare in basso. Una volta seduti attorno al fuoco consumiamo zuppe di lenticchie e ascoltiamo le storie di Bart sulle aurore, sulla sua vita e su un sacco di altre cose. Una seduta di psicanalisi nel bel mezzo dell’artico.

Finito il cerchio magico rimontiamo sul pullmino per l’ultimo tour di ricognizione e rientro in città. Verso le 23.30 finisco in un coma irreversibile e mi risveglio solo a mezzanotte passata con la voce di Bart che avvisa di levarsi le tute termiche. Getto un’occhiata fuori, siamo nell’ennesimo niente contorniato di nulla, fa molto più freddo e non ho intenzione di denudarmi di nuovo nell’artico a cielo aperto. Finisce che mi impicco per fare tutte le manovre nel pullmino e rimettermi a dormire con indumenti fuori posto e oggetti vari finiti in qualche meandro oscuro sotto i sedili.

All’una di notte siamo al Radisson. All’una e dieci Fra realizza di aver perso il telefono nel pullmino (il gran numero di chiusura c’è sempre). Alle una e un quarto Bart è nella hall con il telefono di Fra e all’una e mezza siamo in procinto di usufruire di due ore di sonno prima di dove andare all’aeroporto.

Qualche aereo di ritorno, qualche orario

Le quattro di mattina arrivano con una violenza inaudita. Io perderei dieci aerei pur di non alzarmi. Inutile dire che fuori c’è lo stesso identico buio che abbiamo visto per tre giorni. Abbiamo dormito con le tende aperte, tanto ormai non ci cambia più nulla. Ci infiliamo finalmente dei vestiti civili, riponendo per sempre le tute termiche e le varie impalcature. Dato che la prima corsa dell’autobus pubblico è alle cinque, siamo costrette a prendere quello privato. Alla fine i dodici euro ce li hanno comunque spillati.

All’aeroporto incontriamo la famiglia francese di Capodanno e lì realizziamo che siamo nella fila sbagliata, quella della Air France. Alla fine nessuno ci chiede il Covid-test, come volevasi dimostrare. Io non mi reggo letteralmente in piedi, non ricordo nulla del volo fino a Trondheim, che dal lunotto dell’aereo mi è parsa identica a Tromsø, ma con un briciolo in più di luce. Durante lo scalo a Trondheim acquisto cinque euro di caramel macchiato (cioè un cappuccino radioattivo pagato a peso d’oro) e utilizzo le ultime forze vitali per dar via all’ultimo sfoggio di ben di Dio in pubblico. I due distinti signori del tavolo a fianco ci osservano arrotolare piadine dall’alto dei loro tè.

Siamo due zombie. Ci attendono due ore di scalo, un’altra ora e mezza di volo fino a Copenaghen, un altro scalo e altre due ore e mezza di volo. Non capiamo se i tizi strambi che sfilano davanti a noi sono veri o siamo in preda alle allucinazioni: tizio con baffi troppo grandi, tizio con cappotto di alce che sembra un alce, tizio che trasporta cose di plastica enormi indefinibili… se Lynch fosse venuto con noi nei nostri viaggi avrebbe fatto altri sette film.

Quando finalmente è ora di avviarsi all’imbarco quasi strisciamo. Poi giriamo l’angolo e scattiamo sull’attenti: il Duty Free di prodotti nordici, uno serio, finalmente. Ne usciamo con due litri di liquore alle erbe in pesantissima bottiglia di vetro nero targato VALHALLA.

L’aereo per Copenaghen è un trabiccolo persino peggiore di quello per Trondheim. Due file di posti da due, soffitto bassissimo, scaletta che sembra riesumata da un bunker in tempo di guerra. Quando accende i motori ci ritroviamo in un aerosol. Forse lo hanno inventato così.

Ma il tocco di classe è il robot che spruzza l’antigelo sull’aereo. “Scusa, quando siamo finite nell’Area 51?”.

Scopriamo tè e caffè gratuiti e contro ogni logica ritiriamo fuori gli ultimi scampoli di scorte. Inizio con dei modesti anacardi da accompagnare al tè, ma poi per qualche motivo rispuntano piadine e salami dal cilindro. “Vabè, stamo a magna’”. In tre minuti riempiamo due sacchetti di rifiuti. Quando li molliamo allo steward quello si mette a ridere.

Da qualche parte tra Copenaghen e Roma rivediamo finalmente il sole in faccia dopo due giorni. “Quasi me da’ fastidio”. “Ormai mi ero abituata a non vedere mai un tubo”. “Una vita a tentoni…”.

Slutten
(“Fine”)