Luci dal Nord

Capitolo 4 – Capodanno in Tundra

«Il Tempo era come neve che cade senza rumore in una camera buia, o come un film muto in un’antica sala per spettacoli, cento miliardi di facce cadenti come quei palloncini di capodanno, giù, sempre più giù, nel nulla. Così il Tempo odorava, questo era il rumore che faceva, era così che appariva. E quella notte […] quella notte tu quasi lo potevi toccare, il Tempo».

(Ray Bradbury, Cronache Marziane)

Lyngen Alps, 31 dicembre 2022

Lavvo, ore 2.00 del mattino

Il lavvo è ancora gelido, con la condensa sui vetri e il pavimento in legno umido. Ci sediamo sui letti non sapendo che fare in preda a brividi di freddo e risate compulsive. “Sono solo le tre, e mo’ che famo fino a mezzanotte?”. Io ho subito un’idea: rassegna provviste. Svuotiamo tutte le borse, buste e zaini con ausilio di torce e cellulari e sistemiamo tutto alla bell’e meglio sui letti. Finito di annaspare come speleologhe con prosciutti alla mano e noodles che volano da un angolo all’altro del lavvo, ci sediamo a rimirare il bottino e ci prende un colpo: abbiamo cibo per sopravvivere una settimana nella tundra. “Non eravamo partite con tutta questa roba”.

All’attivo contiamo: due confezioni di prosciutto norvegese, una confezione di formaggio norvegese, un pacco di salsicce, un pacco di coppiette, rimasugli di mortadelle e caciotte nel portapranzo, quattro zuppe proteiche, una zuppa ai funghi, quattro shake proteici, pane in cassetta, pane scuro di segale, un pacco di piadine finlandesi insaporite a qualche spezia acida, un pacco di Wasa alla cannella, quattro confezioni piccole di Wasa al formaggio dolce, un pacco di sottilette, un pacco di gallette di riso ricoperte al cioccolato, una bustina di girelle alla cannella, biscotti dietetici (con che coraggio), un pacco di crostini da zuppa, un pacco di pistacchi, due sacchetti di mandorle, un sacchetto di arachidi, barrette sparse, un muffin, un buondì, cioccolatini sparsi, bustine di tè e caffè sparse, busta di caffè in polvere tipo droga, un pacco di noodles, un pacco di patatine, due barrette di cioccolato (menta e caramello), quattro birre, una bottiglietta d’acqua.

Apriamo birre e pistacchi e usciamo per una passeggiata nella tundra. Rinunciamo dopo pochi passi nella neve fino alle cosce, il buio pesto e il vento forte. Già non capiamo più qual è il nostro lavvo e abbiamo timore di aprire quello sbagliato. Ci salva una stalagmite posizionata sapientemente da Fra davanti l’entrata. Se non altro nel frattempo si è riscaldato, anche troppo. Ricominciamo con gli spogliarelli frenetici. Non se ne può più. Ci buttiamo sul letto stremate: “Sono solo le cinque”. Le travi in legno producono inquietanti scricchiolii sotto scrosci di vento gelido sempre più forti. Dai vetri del lavvo non si intravede altro che buio e spettrali rami di alberi neri.

Alle 17.30 scatta il panico della riaccensione del fuoco, che nel frattempo si è spento grazie alla nostra noncuranza. Proviamo a trafficare con lo sportello della stufa rovente, non ricordandoci come si apre. Non ci ricordiamo un tubo di quello che ci è stato spiegato. Tentiamo di ispezionare l’ordigno da cima a fondo assistite solo da una luce di una torcia sempre più fioca, il mio cellulare fuori uso, il freddo che incombe. È unanime: torniamo a chiedere aiuto al campo base. In tutto ciò siamo semi-svestite grazie all’ondata di fuoco eterno di poco fa, quindi immaginiamo già i commenti degli astanti.

Poco dopo la tipa fa di nuovo l’ingresso trionfale nella nostra dimora e, con il sorrisetto sotto i baffi, ci mostra di nuovo tutta la procedura. Per altre due ore dovremmo essere a posto. Due ore di ciù ciù ciù ciù”.

Alle 18.00 mi metto in testa di scrivere il diario ma l’assenza di luce mi induce una frenesia ossessiva per cui tento tutte le soluzioni possibili, compreso il cero e il rischio di morte alla Giovanna d’Arco sotto la stufa. Quindi rinuncio e spero di ricordarmi il più possibile di queste ore prendendo note sparse a caso.

Alle 18.15 rimaniamo letteralmente in mutande, vittime del caldo infernale. Non c’è via di mezzo, o il gelo glaciale o l’inferno. Come metti un ciocco di troppo finisci a tre latitudini più giù.. Alle 18.30 apriamo un pacco di patatine, ritiriamo fuori le coppiette e tentiamo di aprire altre birre senza successo. Dopo essermi quasi tagliata una falange per fare Rambo con l’accendino rinuncio ad improvvisarmi uomo della coppia e riesco nella tundra, questa volta con sola maglietta di cotone e spensieratezza, direzione campo base.

Ore 18.40, Andy mi apre la birra usando un coltello con una mano sola e continuando a bere con l’altra.

Ore 18.50 ci lanciamo in una partita a carte al buio contorniate di pacchi di cibo aperti, in una totale anarchia culinaria. Alle 19.20 siamo nel pieno di un torneo di Scala Quaranta alla cieca, satolle di cibo: “Io non ho mai smesso di mangiare”. Dopo circa un’ora di delirio più  totale ci rechiamo al campo base per l’ennesima volta, con l’ennesimo cambio di vestiti, per il cenone di Capodanno.

Entro le 20.30 siamo tutti a tavola ben vestiti, la casa illuminata a festa, le playlist trash di Ivan a tutto volume e un agnello sano in tavola. Fuori continua a gelare indisturbato in un buio che mi pare senza fine. Non vedo il sole da più di ventiquattr’ore e non ho ancora soggiornato in una dimora che abbia una luce a forma di luce. Consumiamo il cenone di famiglia a suon di agnello in casseruola, patate al dille, verdure al dille, altre innumerevoli cose al dille (levate i lettoni dalla cucina), curry di verdure con quintali di cumino e pesce fritto alla lettone (con dille).

La mia vicina australiana continua a fare apprezzamenti sul mio outfit che consiste semplicemente in pantaloni civili in tweed scuro e maglioncino giallo. Mi sento la zia napoletana della situazione. Ci sdrammatizzo su con un “Italian style” ed è il massimo di conversazione che riesco a portare avanti. La consorte incalza: “Che bell’outfit. Ti sei cambiata?”. Sì, circa sei volte nelle ultime tre ore, ho indossato tutto quello che avevo nello zaino in neanche mezza giornata. Ma questa è un’altra storia.

Io e Fra siamo sedute agli stessi posti di oggi, dallo stesso lato del tavolo della famiglia francese. Sull’altro lato ci sono le tre coppie. Colpita da una sorta di epifania joyciana faccio notare: “Guarda Fra, questo è il lato del tavolo di chi stasera non tr***a”.

Dopo un brindisi di fine cena, verso le 22.30, ci defiliamo momentaneamente per alimentare il fuoco e prenderci una pausa dalla socialità (per gli altri: fare ciù ciù ciù ciù”). “Pensa quante crisi di coppia provochiamo stanotte ‘guarda loro quanta intimità si prendono! Non ti piaccio più come una volta’”. “Eh, se sapessero che stiamo con carte, salsicce e pannolini…”.

Il nostro lavvo stavolta si distingue nettamente: le fiamme che avvampano si vedono riflesse fin sopra il tetto a vetri. Entro cantando “Di quella pira” con atteggiamento da prima alla Scala. Dentro è il tempio di Moloch, ma aggiungiamo comunque due ciocchi per stare tranquille qualche altra ora, dato che si passa da centrale siderurgica a ghiacciaia nell’arco di un nonnulla. Ne approfittiamo anche per aprire un’altra birra, scoprendo con malcelato disgusto che è all’aroma di frutti rossi.

Dato che non c’è molto da fare, torniamo presto al ritrovo comune, che si è spostato all’esterno. Il passatempo più quotato è diventato la discesa in slittino. In pratica, il vialetto d’entrata delle macchine è stato adibito a pista. La partenza è poco oltre il recinto della casa e l’arrivo è dritto nelle frasche in riva al fiordo, dopo un dosso di neve finale che cela l’approdo (che potrebbe quindi essere benissimo nell’acqua gelida). Lo slittino è niente più niente meno che un sacco di plastica da due posti con delle cinghie per il conducente.

Inizialmente lasciamo spazio ai bambini, anche se la voglia di provare è tanta. Fra mi ha già intesa: “Tanto lo so che ora ci giri intorno, poi ti avvicini, alla fine prendi coraggio e a mezzanotte finiamo nell’acqua”. Inizialmente dissimulo e propongo una passeggiata a caccia di aurore, visto che è l’orario buono, le nubi si sono dissipate in parte e si vede qualche stella. Ma più in generale, perché è quello per cui siamo venute.

Riusciamo ad intravedere qualche aurora sparsa, semi-coperta da nubi e più flebile di quelle di ieri sera. Per qualche istante una enorme e verdissima si estende sopra il nostro lavvo per poi scomparire tra le grinfie degli alberi. Brevi ma intense. Possiamo dire di aver visto l’aurora a Capodanno. Ora possiamo tornare alle occupazioni serie. Ci dirigiamo a grandi passi verso la pista di lancio. Nel frattempo la playlist è tornata sotto l’egida dell’ubriachezza di Ivan e la trash-dance risuona nel nulla di alpi e fiordi.

La nostra scout ci viene in soccorso e ci suggerisce un’idea così pessima che se non l’avessi sentita con le mie orecchie penserei fosse venuta da noi: passeggiata alla spiaggia, col buio pesto. E aggiunge: “But be careful, don’t sit on the big otras”. “Fra che cosa sono le otras?”. “Topi. Ci ha appena detto di non sederci sui dei topi giganti”.

Alla fine non c’è scampo, la soluzione più logica tra le meno logiche è lo slittino. Ci lanciamo in una discesa di coppia tra le urla eccitate delle australiane e la mamma francese che ci fa le foto… a noi e ai suoi bimbi. Finiamo dritte contro i tronchi oltre il dosso di neve in pizzo al mare. È una delle cose più divertenti mai fatte. Lo ripetiamo più volte con me alla guida finché non decido di provare a stare dietro e lascio le redini a Fra. “Tanto l’albero nella schiena lo prende sempre quello che sta dietro”. Vero, solo che stavolta non becco uno dei giovani arbusti ma l’albero della nonna di Poca Hontas. Smettiamo prima di trascorrere Capodanno al pronto soccorso, ammesso che ce ne sia uno nei dintorni.

A sei minuti a mezzanotte esatti siamo tutti in terrazza con bicchieri di spumante e stelle filanti in mano a fare il conto alla rovescia. “L’ennesimo Capodanno in mezzo al nulla”. “Almeno stavolta siamo coi piedi per terra e nessuno sta vomitando”.

Il 2023 si prende gli ultimi istanti di pazza euforia nella tundra, guidati senza dubbio da Ivan che prima tenta di lanciarsi con lo slittino dal recinto ghiacciato giù per la pista con un salto acrobatico, poi si lancia in una danza del tutto irrelata al ritmo delle canzoni che provengono dal suo telefono. “sembra come quelle signore alle sagre di paese che ballano l’hully gully su qualsiasi musica”.

Quando tenta di trascinarci in un gratest hits di Ramazzotti (“Sarà l’aurora”) capiamo che è ora di ritirarci nei nostri appartamenti reali, sempre che non abbiano preso fuoco. La prima cosa che facciamo è cercare una degna sostituzione a lenticchie e cotechino: la troviamo. Salsicce e Wasa alla cannella. “La cannella porta soldi, come le lenticchie”. “Io non smetto di mangiare dal 2022”.

Verso le due del mattino cerchiamo di capire cosa fare delle restanti cinque ore. Fra si sacrifica a vestale del fuoco concedendomi qualche ora di sonno. Ma prima di coricarmi nel letto colmo di briciole e resti di cibo dei fasti pomeridiani decido di chiudere l’anno in bellezza: faccio pipì nel pannolino. “Pensa quando mi chiederanno: qual è la prima cosa che hai fatto nel 2023?”.

Godt nytt år
(“Buon Anno”).