«[…] eccolo il nostro Valhalla,
la nostra tenuta molto trascurata nei domìni
del tempo, con un pugno di anime censite,
con terreni dove forse non è dato
a una falce affilata imperversare troppo,
e dove i fiocchi di neve turbinano lenti, perfetto
esempio del contegno da tenere nel vuoto».
(Josif Brodskij, Postilla a previsioni metereologiche, 1986, in E così via)
Lyngen Alps, 31 dicembre 2022
Campo Base, ore 14.00
Come previsto, il quarto ospite della camerata entra solo per fare un casino immane e riandarsene alle quattro del mattino. A detta della nostra compagna di merende è riuscito persino a cucinarsi qualche cibo asiatico super speziato, tanto per aggiungere benzina sul fuoco del disagio.
Dal canto mio, passo la notte a tentare di levarmi ogni strato di coperte e vestiti che ho indosso in preda ai sudori da febbre tropicale. Il vero problema è la tuta termica utilizzata come pigiama, che ha creato un microclima sub-sahariano attorno alla mia epidermide.
Ci svegliamo alle sette con suonerie in sincrono dando un’altra mazzata alla poverina (che d’ora in poi credo andrà solo in hotel a cinque stelle) e ci facciamo un bel caffè nei thermos che sanno ancora di cioccolato sciapo. Fra passa davanti allo scaffale del cibo comune e vedendomi chinata in posa sospetta mi guarda accigliata: “Sto a fa’ la spesa. Ci servono le sardine?”. “Direi di no”.
Ci cambiamo nel salotto per evitare di mandare la tipa ai matti. Unico inconveniente la mania dei nordici per le case a vetri illuminate senza tende, che non ci lascia altra scelta che darci a un numero di strip tease davanti a mezza Tromsø. Ci accorgiamo presto di esserci comprate le stesse identiche cose da Decathlon, quindi faremo le cretine con i pile fucsia e i cappellini abbinati. “Sembriamo Terrie e Maggie”. “Se ci diamo la mano ci tele-trasportiamo ai tropici, pensaci”. “Vedi che serviva la crema solare?”.
Di nuovo con zaini in spalla e sporta delle provviste a fianco come un fedele segugio ci fiondiamo giù per il labirinto criptato tentando di uscire dall’ostello. “Guarda, ci sono le scarpe del matto dell’aereo”. “Corri, prima che si svegli”. Irrinunciabile un’altra sosta al supermercato (“un fiorino”) che inevitabilmente porta ad un altro carico di salumi e formaggi norvegesi, Wasa alla cannella e al formaggio dolce, birre con le etichette vichinghe di cui ignoriamo il gusto e di cui sicuramente ci pentiremo, e altre diavolerie.
Ne usciamo con un secondo bustone di cibo, che va a sommarsi onerosamente a quello che già avevamo e ai rimasugli sparsi negli zaini. Ci ricordiamo dei vecchi fasti sul pullman per la Russia dieci anni fa, quando cariche di cibo fin sopra la testa – tanto da ostruire il passaggio agli altri passeggeri – ci vedemmo arrivare un cestino con la merenda preparato per il viaggio dagli organizzatori. “Ormai è una divisa”. “Torneremo con più cibo di quando siamo partite”.
Ci rechiamo all’appuntamento davanti allo Scandic Hotel. Il porto è deserto, fermo con le sue luci, immutato da innumerevoli ore, come se il tempo non fosse mai passato, potrebbe essere ancora ieri o già domani. In lontananza si intravede la ruota panoramica ferma, la funivia che risale l’alta montagna sull’altro lato del lungo ponte sospeso, il museo del Troll, gli stessi pub e hotel e la nave-grattacielo irretita dalle lucine natalizie, in attesa di salpare per la fine del mondo. In attesa davanti all’hotel ci sono altre poche persone, probabilmente le stesse che passeranno Capodanno con noi nei lavvo. Le stesse che hanno dovuto rinunciare all’avvistamento balene nel fiordo per la ciaspolata.
L’autista del nostro pullmino arriva con qualche minuto di ritardo e si giustifica dicendo che a causa della tempesta le strade sono bloccate. L’altro autista, a quanto pare, ha passato mezz’ora a rimuovere neve e ghiaccio dalla carreggiata. Il cielo è pieno di nuvoloni, quindi le previsioni di avvistamento aurore sono pressoché pessime. Ricapitolando: il nostro tour di avvistamento balene nei fiordi e caccia alle aurore è diventato una ciaspolata in montagna con cielo uggioso. And a happy new year.
Mentre attendiamo comincio ad avere sbalzi termici dovuti alla discrepanza tra il corpo bollente e mani e piedi ghiacciati. “C’ho un’escursione termica addosso che manco il deserto del Gobi”. Ci accaparriamo i posti davanti nel pullmino e realizziamo subito che è una pessima idea. Non solo siamo risicate in un misero spazio vitale, con provviste a carico tipo neonati in fasce, ma l’autista vuole parlare. Di prima mattina e con solo un pessimo caffè all’attivo.
Ivan è un uomo bulgaro di bell’aspetto, trasferitosi in Norvegia come tanti per lavorare nel campo del turismo d’avventura. Non è l’unico, tutti i ragazzi che ci accompagnano in queste due giornate a spasso nella tundra sono lettoni, polacchi, in generale est-europei o dei paesi baltici. Non c’è un norvegese che faccia la guida in Norvegia. Questo probabilmente è dovuto a diversi fattori come la facilità di trovare lavoro ben pagato in un pese benestante in cui la lingua ed il clima non rappresentano una difficoltà per popoli affini. Dal canto loro, i norvegesi hanno lavori ben più prestigiosi da svolgere.
La prima ora di viaggio trascorre nel buio pesto a suon della playlist trash-pop di Ivan, tentativi di foto mal riusciti a paesaggi pressoché identici fatti solo di cose ghiacciate, sagome di alberi e ville sperdute illuminate a festa ogni 10Km, e qualche battuta sul clima (“due gradi, è primavera, che caldo apriamo i finestrini!”, e simili, per tutto il tragitto).
Continuo a rimanere interdetta del fatto che ci sia la stessa (non-)luce da quando siamo arrivate nel tardo pomeriggio di ieri. Non c’è alcuna differenza tra le otto di sera, mezzanotte e le nove del mattino. Le enormi ville illuminate, trincerate nel comfort come inespugnabili roccaforti di benessere nella totale staticità dei mesi freddi fanno pensare ad un lockdown perenne che però non sembra disturbarli più di tanto anzi, appare più che confortevole. È una costante ostentazione del comfort, è volere essere conviviali seppure dietro mura di vetro e cemento. È dire: “Facciamo qualcosa tutti assieme, ma ognuno a casa propria”, un po’ come il concetto dell’hygge danese. Sicuramente un altro modo di intendere la vita.
Ivan ci spiega che questa temperatura è decisamente anomala. Fino a due o tre anni fa, di questo periodo, i – 20° C erano una costante. Ora oscilliamo dagli uno i cinque gradi, il che provoca non solo scioglimento di neve e ghiaccio ma anche perturbazioni atmosferiche (la famosa tempesta che ci ha rovinato il Capodanno). La selezione di brani che oscilla tra Rihanna e raggaeton rende perfettamente il senso del cambiamento climatico.
Dopo circa un’oretta di tragitto tutto identico ci fermiamo ad un molo. Un traghetto in partenza si staglia su una baia buia circondata da monti bianchi a picco sull’acqua grigia, con due casupole sparse che hanno tutta l’aria di essere la capitaneria. Scarichiamo le borse e ci prepariamo alla traversata del fiordo. Dall’altra parte ci aspettano altre guide che ci porteranno al campo base dei lavvo. Mentre Fra si impelaga in un discorso sulle squadre calcistiche con Ivan, che include showreel di video allo stadio e traduzione di motti romanisti, io mi fiondo nelle scorte e pesco delle girelle alla cannella (le stesse che vendono all’IKEA): “Vabbè, io devo magnà”.
Portata a casa la lauta prima colazione vista fiordo, montiamo sul traghetto e ci prepariamo subito alla seconda. Non senza prima un dovuto travaso salumi da una borsa all’altra sotto gli occhi basiti dei nostri compagni di viaggio (è proprio il nostro numero di punta). Poi c’è un colpo di scena: Fra tira fuori le coppiette. È Far West. In due minuti ci improvvisiamo Bud Spencer e Terence Hill tra i fiordi e, coppiette alla mano, ci lanciamo in una breve ricognizione sul ponte dell’imbarcazione per ammirare il paesaggio. Le cime innevate che cadono nel mare apatico sono ora lievemente illuminate da una luce cupa. Il sole non è sorto, non è più buio, ma non è comunque giorno.
Tornate sottocoperta conosciamo Andy, un’altra delle nostre guide. Andy è lettone ed è vistosamente ubriaco, alle dieci del mattino. “Questo alle cinque ce lo siamo giocato”. Sarà lui il nostro autista fino al campo base. Commettiamo nuovamente l’errore di metterci ai posti davanti. Se non altro Andy condivide con me la passione per il metal e ci rende il soundscape un po’ più catartico.
Seguono altri innumerevoli chilometri di strade ghiacciate tra monti e mare con agglomerati sparsi. Le case mi sembrano sempre più grosse e sempre più illuminate. Non scorgo negozi, né scuole, né centri di ritrovo di sorta. Sorrido al pensiero che tutti abbiano ruspe e spalaneve di dimensioni ragguardevoli parcheggiati nei viali.
Appena approdiamo al campo base Andy si fionda fuori dalla macchina come in preda a qualche bisogno impellente, si leva il giaccone ed esclama a braccia aperte, petto al cielo: “Ahh, it’s so warm, five degrees! It’s summer, we can swim!”. Io e Fra ci guardiamo accigliate: “Mi sa che ce lo siamo già giocato dalle undici”. Un’altra ragazza lettone ci accoglie nella struttura principale del campo base, cercando di ripararsi dalla leggera brezza che investe la vallata: “It’s pretty windy!”. Altri sguardi d’intesa: “Questi a Ostia non ce so’ mai stati”.
Entriamo nella baita e ci leviamo due strati di roba, sottoponendoci all’inevitabile figuraccia dei pile uguali. L’ambiente è caldo e accogliente, un enorme salone con vetrate vista fiordo ci accoglie con una tavola imbandita, divani e un televisore formato parete su cui compaiono documentari naturalistici, monitoraggi di aurore e pagine web in russo. Ci fiondiamo subito in cucina. Io ne esco con un cappuccino, un chai tea latte e dei mirtilli freschi, mentre Fra si cimenta a scrostare i thermos dalle scelte sbagliate della scorsa notte.
Ci sediamo al tavolo a consumare le bevande calde e a conversare con gli altri partecipanti del tour, ovvero: famiglia francese cisgender con due figli a carico, coppia cisgender di italo-tedeschi svizzeri e due coppie lesbiche rispettivamente dall’Australia e dagli Stati Uniti. Ci uniamo al team arcobaleno destando curiosità sul nostro status. La faccenda dei pile destabilizza non poco. Per ora ci manteniamo neutrali per non sbilanciare il derby di orientamenti sessuali.
Rifocillati e riscaldati a dovere, ci prepariamo per la fatidica ciaspolata. Abbiamo provato ad opporci fino all’ultimo ma non sembra ci sia scampo. L’alternativa è rimanere al campo fino a stasera a morire di tedio. I lavvo non sono ancora accessibili perché andrebbero riscaldati con le stufe a legna che, una volta attivate, vanno continuamente ravvivate a cadenza oraria. Una condanna infernale. Già intuiamo che le prossime ventiquattr’ore saranno solo fatica.
Sono le undici del mattino e fuori sembrano le sei del pomeriggio. Contrariamente a quanto si possa immaginare, gli interni delle abitazioni non sono illuminati a giorno ma a luci gialle e calde, il che contribuisce ad un senso di miopia costante. Andy ci avvisa che tra due ore “farà buio” quindi dobbiamo sbrigarci se vogliamo arrivare in cima. Alla parola “cima” ci allarmiamo. L’innocua ciaspolata si prospetta una scarpinata immane tra le selve artiche, tutta in quota.
Ci infiliamo le scomodissime ciaspole che sono nient’altro che dei ciabattoni di plastica chiodati e fissati con cinghie cedevoli agli scarponi. Io mi ficco il thermos al polso provocando le risate di Fra: “Un San Bernardo”. Come volevasi dimostrare ci imbattiamo in due ore di scarpinata immane su per la montagna brulla e gelata, seguendo un sentiero ghiacciato striminzito che ad ogni passo sbagliato ti getta in un baratro di neve senza fine, sommersa fino alla cintola. Intorno a noi solo scheletri neri di alberi tutti uguali modello foresta stregata e davanti a noi solo vento e freddo. “Ho un tornado nell’orecchio destro, il timpano m’è uscito dall’altra parte”.
Persino quando l’accenno di nevicata di trasforma in una bufera siberiana Andy continua ad andare avanti ottimista: “Manca poco, è un’ottima giornata!”. Noi incespichiamo esauste fino alla cima, rimpiangendo il non essere rimaste al campo a crepare di inedia. La famiglia francese si è ridotta a trascinare i bambini tipo slittini e varie cadute tra le coppie femminili rischiano di generare vedove. Siamo stremati, esausti, con i corpi sudati e le estremità ghiacce e intirizzite. Non vediamo l’ora che quest’incubo finisca.
Raggiunto il plateau facciamo una breve sosta con tè e muffin offerti dalle guide comodamente poggiati su un masso. Il tè dell’una, che a me sembrano comunque le sei di sera, o le otto del mattino. Tempo di scattare qualche foto buia sulla vista del fiordo dall’alto e al bosco incantato in lontananza, e si riscende. Il sentiero in discesa è anche peggio che in salita, i bambini hanno definitivamente rinunciato all’uso delle gambe e se le fanno tutta a scivolo. Io e Fra contiamo le cadute in preda a scoppi di risa isteriche. Andy pensa bene di allungare il tragitto per concederci un altro po’ di veduta di boschi, boschi, boschi e boschi tra un salto e l’altro di fossi a tentoni.
Arriviamo al campo base in stato pietoso. Sembriamo scampate ad un’esercitazione militare. Spogliate delle ingombranti armature ci rifugiamo nel salone e ci ripromettiamo di non mettere più il naso fuori. A tavola ci attende un pranzo regale, con zuppa di pesce, verdure e riso, il tutto cotto con quantità industriali di latte, uova e burro. Non riusciamo a seguire granché le conversazioni a causa di discrepanze linguistiche. Le coppie australo-statunitensi parlano in uno slang velocissimo ed incomprensibile, affrontando temi di politica e differenze culturali (un classico da tavolate internazionali). I francesi capiscono solo il francese e gli italo-tedeschi svizzeri tentano di approcciarmi in un italiano che è meno comprensibile del tedesco.
Riusciamo a cogliere per un attimo l’attenzione delle coppie arcobaleno quando mi cimento senza considerare le conseguenze in un massaggio alla schiena a Fra, sderenata dalla ciaspolata infernale. Non riusciamo comunque a capire la battuta rivolta al nostro presunto stato coniugale in un australiano alticcio, ma ci limitiamo a sorridere e a smettere di fare quello che stavamo facendo.
Ci chiudiamo ben presto a farci i fatti nostri sul divano in compagnia di diario e cioccolatini, finché le guide non ritengono opportuno tentare di includerci in ogni modo nella socialità a cui tentiamo di sottrarci in tutti i modi. Il primo è Ivan che, dall’alto della sua ubriachezza (“Me sa che ce li siamo giocati tutti”), tenta di intrattenerci con giochi di prestigio mal riusciti a scapito dei poveri cioccolatini. Poi è il turno della donna che sfodera l’asso nella manica: ci porta al lavvo. Non possiamo rifiutarci.
Ci conduce ad uno di quelli più lontani, spiegando che i più vicini al campo base sono per anziani e famiglie. A noi non fa che piacere, tanto per il bagno siamo parate grazie ai pannolini. Il lavvo non è di quelli tradizionali sami ma una versione di lusso con struttura esagonale in legno e tetto a punta in vetro, con una stufa a legna al centro e due lettini ai lati. È piccola ed essenziale. Molto essenziale: non c’è luce elettrica, solo un cero che – ci rassicura la guida – dovrebbe rimanere acceso per tutta la notte. Non può non riaffiorare tra i ricordi la notte nella baracca di legno estone, fuori Viljandi. Ma qui ci siamo decisamente superate.
La nostra scout ci avverte: “Non mettete troppa legna o morirete di caldo”. E aggiunge: “Altrimenti sarete costrette ad aprire porta e finestrelle e potrebbero entrare i troll”. L’importante è che non sia un troll ubriaco e molesto. Quindi ci spiega come accendere la stufa, ci accende il cero e chi si è visto si è visto. Mentre richiude la porta si scusa se i letti sono separati e ci lascia sulle note di: “Potete tornare al campo base quando volete… o rimanere qui a fare ciù ciù ciù ciù”.
Decisamente, siamo entrate nel team arcobaleno.