Luci dal Nord

Capitolo 2 – Luci sul Prestvannet

«Come se quella luce (non era luce però, era solo un colore) fosse gravida di qualcosa che non sapevo cos’era ma che avrebbe potuto benissimo essere l’eternità».

(Roberto Bolaño, Puttane Assassine)

Tromsø, 29 dicembre 2022
Ostello, ore 1.11 del mattino

Atterriamo da Copenaghen dopo due ore e mezza che sono diventate tre e mezza grazie agli olandesi (gli stereotipi sulla precisione dei nordici decadono sempre quando farebbero comodo a noi). Siamo stremate e frustrate, ma di certo non affamate.

Anche perché a circa metà volo ci lanciamo in un banchetto mostruoso degno de Il Pranzo di Babette, con il secondo round di caciotte e mortadelle, stavolta senza neanche disturbarci ad affettarle e a metterle nel pane, ma solo tramite l’ausilio di morsi e un coltello di plastica spezzato, trafugato chissà dove.

Alla discesa siamo tutti col naso spalmato sui finestrini fiutando aurore. Ovviamente non ne vediamo mezza. Quello che vediamo è tanto buio e montagne di ghiaccio che sbucano dal mare. “Beh il cielo però è pulito”; “Sì, pulitissimo, non c’è nulla, né nuvole né aurore”. Appena tocchiamo terra il comandante ci augura buon anno e ci dà il benvenuto a Tromsø: “The Paris of the Northern Countries”. Temperatura: 1°C.

Sbarchiamo in un freddo già più concreto, che comincia a dare un senso ai nostri indumenti, ma non ancora letale. L’aeroporto sembra il magazzino di Leroy Merlin e intorno regna la desolazione totale. Penso a Parigi e mi vengono i brividi (se non per il freddo, per qualcosa dovrò pur provarli). Filtrate dalle luci nebulose che appannano metri di buio intravediamo solo strade ghiacciate con cumuli di neve gelata ai lati, capannoni, recinti, cantieri.

Un pesce rosso troneggia fiero su un piedistallo davanti l’entrata dell’aeroporto, trastullandosi nel nulla più  assoluto. “Guarda, il simbolo dell’aeroporto è una carpa”. “Sarà una balena, l’unica che vedremo”.

Andiamo alla ricerca di un bus per il centro cittadino, inizialmente senza successo. Non riusciamo a scorgere fermate tra i baluardi di ghiaccio e desolazione. Gli altri passeggeri si sono volatizzati, sembra che in questo aeroporto ci siamo solo noi. Dopo qualche metro di pattinaggio sul ghiaccio imbocchiamo nell’unico bus che troviamo: è la navetta che “collega i terminal” (letteralmente a due minuti di cammino girando l’angolo). Il conducente ci indica una strada poco oltre il cumulo di neve che separa il parcheggio dell’aeroporto dalle tenebre, e buona fortuna.

Se non altro, reperiamo due ragazzi asiatici che sono accomunati dalla nostra stessa sorte, ma sembrano molto più  decisi di noi. “Segui gli asiatici, non ti sbagli”. Ci sbagliamo, e si sbagliano pure loro. Ci ritroviamo dall’altro lato dell’aeroporto mentre l’uomo della navetta ci passa a fianco, ci supera e si parcheggia al terminal. Riproviamo con un secondo autobus (l’unico altro veicolo parcheggiato di fronte al terminal, a fianco della navetta). Ha un aspetto esoso ma chiediamo comunque. Stavolta non ci sbagliamo, è la corsa Express per il centro cittadino. Dieci minuti di corsa per 12 euro. Non esiste.

Entriamo di nuovo nell’aeroporto per chiedere dove sia la benedetta fermata del bus pubblico e otteniamo ancora più  confusione. Mentre tento di aprire un ascensore guasto convinta di aver udito “lift” tra le parole della signora allo sportello trasporti, Fra prende la situazione in mano: facciamo di testa nostra, si scende in strada e via.

Ci dirigiamo a grandi falcate sul ghiaccio verso la carreggiata percorsa da una macchina ogni quindici minuti e intravediamo finalmente una pensilina, unico baluardo di civiltà. La nostra fermata. Il primo autobus è tra venti minuti. Venti minuti ferme tra i ghiacci. L’abbigliamento termico comincia ad assumere più peso di quanto gli avessimo dato. Pensare che se non fosse per il surriscaldamento globale dovrebbero fare -20° C.

Facciamo i biglietti ad una macchinetta che accetta solo carte di credito e ha un tastierino microscopico incastonato nella struttura, il che implica doversi rimuovere i guanti. Passo dei bei minuti a ghiacciarmi le dita sbagliando combinazioni a rischio che mi blocchino la carta e mi caschi una mano. Ma come vi viene in mente un trabiccolo del genere con un clima simile?

Il bus 42 arriva davvero, fendendo il buio artico come il Polar Express. In pochi minuti siamo al sentrum (“centro”), per soli 2.50 euro. Scampate ad uno dei furti più  clamorosi nella storia dei trasporti. Il tragitto prevede più che altro tunnel nella roccia e strade ghiacciate fiancheggiati totem di neve alti quanto me.

Approdiamo ad un piacevole centro urbano con case dai tetti a punta innevate e illuminate a festa. Siamo sempre più dentro Polar Express. Scendiamo ad una fermata di troppo per colpa mia (le cose fatte bene mai), salutiamo il nostro Tom Hanks alla guida e filiamo dritte all’ostello, ansiose di mollare i bagagli e iniziare la caccia all’aurora. La città è una piccola, fredda boutique nordica. Non mi sentirei di sbilanciarmi su Parigi, ma diciamo che dati i dintorni, comincio ad afferrare la similitudine del capitano.

In poche centinaia di metri intravediamo le principali attrazioni e i negozi di punta (tipo un terrificante Sami Shop che ci appare tanto antropologicamente sbagliato quanto allettante). La città ruota tutta attorno al porto e al corso principale. “Vabbè, l’abbiamo vista, ce ne possiamo anda’”. Ci fermiamo davanti alla vetrata di un grazioso ostello dai begli interni pensando sia il nostro, per poi realizzare che è quello dopo: brullo portone in legno con catenaccio e cartello in cartone scritto a pennarello indelebile che recita “Coco Apartment”. Sessantacinque euro a notte.

Leviamo il catenaccio ed accediamo ad un atrio esterno. Davanti a noi si para una porta con altri cartelli scritti a mano. Manca solo quello con su scritto: “Down to the rabbit hole”. Ci vorrebbe una combinazione per aprirla. Ci chiediamo cosa fare quando leggiamo un altro cartello in cartone che recita: “Please ring only once and be patient” (sempre della serie: “Alice, we are all mad here”). È  esattamente quello che facciamo. Ci apre una donna in ciabatte a muso di renna e ci fa strada attraverso altri ingressi criptati con codici e cartelli. In pratica è una Escape Room.

La nostra oste ci fa lasciare le scarpe all’ingresso (l’ultimo dei tanti) modello albergue del pellegrino di Santiago, solo con più  ghiaccio (fortuna che ho indosso due paia di calzini e le calze), e ci mostra il resto della bicocca. Più che un ostello è un appartamento condiviso con due camere da due letti a castello ciascuna, due bagni, un cucinino e un salotto comune. Ci facciamo mille premure per entrare in camera senza fiatare né accendere la luce, ma non c’è nessuno. Sono tutti fuori a caccia di aurore.

Ci affrettiamo anche noi a partire alla ventura dopo aver mollato gli zaini, travasato le provviste in una delle mie buste di emergenza (cominciamo con i numeri rocamboleschi), preparato due insipidi shake proteici con acqua calda nei thermos e aver seminato roba per mezzo ostello. Ci dirigiamo senza indugio verso il lago Prestvannet, a circa venti-trenta minuti di cammino dalla città. Pare sia il posto migliore per vedere le “luci del nord”.

Neanche facciamo due metri che veniamo risucchiate impietosamente da un supermercato (come se non avessimo abbastanza cibo). Siamo di nuovo ai vecchi fasti. Ne usciamo – per fortuna – solo con cioccolata, birre, patatine e altri snack poco salutari, rimandando saccheggi più impegnativi al giorno successivo.

Uscite dal supermercato rimaniamo a bocca aperta, con tutte le provviste fresche da Yoghi e Bubu appena imbustate: tra due palazzi spunta una luce verde che si fa sempre più grande e vivida. L’aurora boreale. Non ci crediamo ancora che stia succedendo, propria ora, senza preavviso, sovrappensiero e con le tasche piene di Wasa alla cannella. Ringalluzzite ed eccitate ci affrettiamo ad inseguirla. Sembra che provenga proprio dal Prestvannet.

Inutile precisare che la strada verso il lago è tutta in salita e ghiacciata, è come risalire uno scivolo ad un acquapark. Ce la facciamo comunque tutta d’un fiato, con saltuari numeri da circo (tanto con tutti gli strati che abbiamo neanche percepiamo il contatto con il suolo). Quando arriviamo nei pressi del lago siamo sudate ed accaldate. Lungo il tragitto non riusciamo a staccare il naso dal cielo: le aurore si moltiplicano e si espandono, danzano, cambiano colore dal verde al viola. Ci viene da piangere.

Ad un certo punto non seguiamo più  Google Maps, solo le luci ed il viavai di gente. Ogni tanto chiediamo dove sia il lago tanto per sincerarci che non stiamo finendo a Capo Nord a piedi. Nessuno sa che ci sia un lago, ma ci dicono tutti di continuare per il sentiero boschivo, non possiamo sbagliarci. Ci chiediamo cosa intendano.

Arriviamo al lago e lo capiamo alla prima occhiata. Il bacino d’acqua è completamente ghiacciato, potrebbe essere benissimo un enorme prato ricoperto di neve, e sopra sta avvenendo una specie di rave. Un tripudio di persone attrezzate con falò e macchine fotografiche professionali piantonate con faccia in su sotto le esplosioni geomagnetiche. Arranchiamo alla bene e meglio nella neve che ci arriva al ginocchio, nel buio più  totale, e riusciamo ad accaparrarci un “fu tavolino da pic-nic” coperto da un generoso strato di ghiaccio. Quelle che una volta erano le panchine sono perite sotto un buon metro di neve.

Tiriamo fuori i nostri thermos con i disgustosi shake ancora bollenti e ci mettiamo a goderci lo spettacolo per un’oretta buona. Il romanticismo della situazione è saltuariamente rovinato da frasi del calibro di: “Guarda Fra, sembra un bruco verde enorme che cammina nel cielo”.

Verso le undici e mezza, quando le aurore cominciano a ritirarsi ed affievolirsi, la folla comincia a disperdersi. Riusciamo ad accaparrarci un braciere e rimaniamo un altro po’ sugli ultimi rantoli di fuoco. “Dove si compra la legna?”. Quando lo spettacolo è definitivamente terminato e ci ritroviamo da sole a fuoco spento nel bosco con la neve agli stinchi, conveniamo che è l’ora di andare. Ci perdiamo per un attimo in un piccolo complesso residenziale fronte lago ad ammirare le enormi ville con luci tenute accese in ogni stanza (“ma questi il gas non lo pagano?”), i suv parcheggiati nei viali, le staccionate da film natalizio e i decori in bella vista.

Sulla strada del ritorno continuiamo a fermarci di continuo e a guardare indietro come vediamo rispuntare un accenno di verde. Intervalliamo soste di ammirazione a capitomboli micidiali sul ghiaccio. “Facevamo prima in slitta”.

Rientrate nel centro di Tromsø ci prende un colpo: è tutto aperto ed è pieno di gente. È  mezzanotte passata ma potrebbero essere le cinque del pomeriggio. Una movida che neanche ad Ibiza. Già che ci siamo facciamo un giro al porto in cui è parcheggiata la mostruosa nave da crociera rompighiaccio che farà tappa a Capo Nord. Dopo un’altra abbuffata di barche di lusso e casette addobbate ci rifugiamo in un Doner Kebab, l’unica cosa che ci sembra abbordabile in loco. Il freddo e la camminata ci hanno riacceso l’appetito e appresso abbiamo solo schifezze.

Non è abbordabile per niente. Ci dividiamo un kebab da 12 euro (si sono rifatti su quelli del pullman, ti fregano comunque). Rimaniamo per un po’ al calduccio del locale, appiccicando la faccia al vetro di tanto in tanto, sperando in qualche aurora ritardataria, in compagnia di avventori dall’accento tedesco che ci augurano un cordiale “buon anno”.

Torniamo all’ostello più che soddisfatte della serata e ancora incredule dello spettacolo al quale abbiamo appena assistito. Becchiamo l’altra tipa che è in camerata con noi, con non poco sollievo. Questo significa che possiamo tenere le luci accese ed evitare di giocare al mimo con le borse. E possiamo anche fare i turni per il bagno e chiacchierare. In pratica un pigiama party con le amiche.

Andiamo a dormire con il dubbio che ci attanaglia riguardo il quarto inquilino. Speriamo che non ci piombi in camera di prima mattina sbattendo cose, come nei migliori ostelli.