COSE SULL’ADDA

“[…] vi sono spazi in cui l’individuo si mette alla prova come spettatore senza che la natura dello spettacolo lo interessi veramente”.

(Marc Augè, Non-Luoghi)

29 ottobre 2022, Pagan Tour

Venerdì ho guidato sette ore – Roma-Trezzo sull’Adda (idealmente provincia di Milano, realisticamente Bergamo) – per andare con il mio migliore amico al concerto di tizi chiamati Faun, che fanno cose come medieval folk-rock in tedesco.

Ho indossato un vestito da sposa medievale in un hotel di lusso (ultimo rimasto su Booking a prezzo regalato) dopo essere entrata nel parcheggio dello stesso con la Panda, mentre quelli che parcheggiavano Audi e BMW ci guardavano come se avessimo i caciocavalli appesi ai finestrini. Ma forse li avevamo.

Poi la Panda l’ho lasciata lì a fare il pigiama party con le amiche ricche, tipo me al liceo con quelle di Roma nord. Entrati in camera le nostre prime parole sono state: “Abbiamo una culla a fianco al letto”. “Sì, sono stati carini a farci l’upgrade della camera, domani ci mettiamo le birre”.

Insomma dopo sette ore di macchina, l’ingresso trionfale dalla Terronia e il cambio ad hoc per non sfigurare tra la “fauna” del Pagan Tour, ci siamo attraversati un cavalcavia buio a piedi (sempre in tenuta medievale) e abbiamo raggiunto la location… noi e gli altri 20 matti con pentacoli e corna in testa che hanno speso dei soldi per questo evento. 

Abbiamo conosciuto una serie di persone strambe, di cui noi eravamo tra gli esemplari migliori o peggiori (non saprei davvero dirlo), abbiamo perso la voce e la sensibilità alle gambe per scatenarci come quando avevamo quindici anni e per qualche ora ci siamo sentiti a casa.

Del concerto ricordo solo i primi brani, fino a Rihannon (uno dei miei preferiti), che è esattamente il punto in cui ho l’ultimo fotogramma: sette persone che mi sostengono tipo rock-star evitando che rovinassi a terra rovinando il vestito e forse anche un po’ la reputazione.

Poi ricordo che abbiamo fatto conoscenza con un ragazzo che si è aggiunto al nostro malcontento circa i brani non eseguiti (tipo Tanz mit Mir, Satyrus o Federkleid). Ciò è avvenuto sempre sul cavalcavia, sulla strada del ritorno verso l’albergo. Ho capito che il cavalcavia è uno dei maggiori punti nevralgici della vita sociale da queste parti.

Dato che anche lui alloggiava al nostro albergo (ma un po’ tutti alloggiavano al nostro albergo, quindi il nostro sconto su Booking non era poi così esclusivo) lo abbiamo invitato in camera per dei noodles precotti assorbi-alcol. Il tè delle 5.00 del mattino. Così abbiamo potuto continuare a lamentarci ancora un po’ e parlare di montagna e cibi vegani (sempre lamentandoci).

Non ricordo come e quando se n’è andato in camera sua. Le mie ultime parole sono state: “Dani, perché c’è una bottiglia di vino accanto al lavandino al posto degli spazzolini?”.

Trick or Trezzo
Tombe longobarde
Non vo’ che al castello
Adda
Once upon a time in Trezzo

30 ottobre 2022, “Signor Crespi, buondio!”

Sabato mattina ci siamo svegliati con un mantello in velluto sul lussuosissimo comodino e una bottiglia di vino sul lavandino al posto di ciò che dovrebbe stare su un lavandino, e abbiamo amato un po’ di più la vita.

A Trezzo sull’Adda tutto ruota intorno all’Adda. Nomi di case, chiese, negozi, vie, hotel, ristoranti, paesi confinanti.

Quindi ci siamo lanciati, inevitabilmente – e col peso delle scelte poco mature della sera passata ancora sulle spalle – in una serie di escursioni a COSE sull’Adda (paesi sull’Adda, ponti sull’Adda, ville sull’Adda, strade sull’Adda, vite sull’Adda, tu comunque mettici Adda). Dopo un po’ abbiamo cominciato ad aggiungere la parola “Adda” a qualsiasi desinenza di parola così per sfizio.

E la cosa migliore è che abbiamo visto un sacco di cose (sull’Adda) – tipo il castello di Trezzo (sull’Adda), il paese di Crespi (d’Adda) – tranne l’Adda.

Dei paesi sull’Adda ho capito una serie di cose. Una è che i cavalcavia sono proprio un elemento architettonico portante, e attraversarli (o farci jogging) è comune quanto prendere battelli a Venezia. Forse non riuscirei ad immaginare la mia vita in un paese sull’Adda senza l’attraversamento di un cavalcavia. “Oh, ci vediamo al cavalcavia”. “Dove sei? Io sto al cavalcavia”. “Raga, stasera ape al cavalcavia”, e via selfie sul cavalcavia, foto ricordo sul cavalcavia, lucchetti sul cavalcavia, primi baci sul cavalcavia, proposte di matrimonio sul cavalcavia, e (cavalca)via dicendo.

La seconda è che se vedi da lontano un sito storico bellissimo che sembra uscito da un film fantasy (perché per qualche motivo tutto ciò che c’è dall’Emilia in su sembra uscito da un film fantasy) – un castello, una torre, un campanile, una rocca – sarà comunque difficilissimo da raggiungere. Ma sul cammino troverai una serie di grigie periferie, ecomostri e capannoni industriali degni di nota che ti faranno ripensare a tutta una serie di problemi legati al post-modernismo di cui tu comunque ora non ti vuoi occupare perché sei troppo preso ad evadere e comunque sei già settato sul fantastico.

Diciamo che la punta di diamante della giornata è stato il noto paese di Crespi d’Adda, Patrimonio Unesco, che coniuga egregiamente i due punti di cui sopra, e tutto il senso delle vite sull’Adda.

Il paese è un esempio di “villaggio operaio” ideato dall’architetto Cristoforo Crespi e dal figlio Silvio a fine ‘800, in piena rivoluzione industriale, e si è reso noto per le sue architetture ripetitive e le sue case squadrate tutte identiche con il caratteristico logo a stella a otto punte, che sorgono attorno alla fabbrica, cuore pulsante dell’agglomerato. Le case erano ovviamente destinate alle famiglie degli operai, e ora appaiono come una fila decadente e distopica di ruderi tutti identici dall’aspetto desolato e fuori dal tempo.

Nonostante sia indubbiamente un angolo di spazio-tempo che va sicuramente degnato di una visita almeno una volta nella vita, non si può negare che la ripetitività ossessiva delle architetture, dei motivi ornamentali, dei colori e delle perfette geometrie, unito al vuoto esistenziale dato dal disuso e dai segni del tempo conferiscano una sensazione di estenuante oppressione ai limiti dell’insofferenza.

All’ennesima casa identica di una fila di case squadrate con stelle ci buttiamo su una panchina in uno scoppio di risate compulsive condito da chiare manifestazioni di esaurimento nervoso. “Questa panchina è patrimonio Unesco”. “Ti posso dire che è la cosa più originale che ho visto fino ad ora?”. “Aspetta, voglio fare un’altra foto alle case con le stelle”. “Ma ne hai fatte settanta… tutte uguali”. “Sì, ma non posso più farne a meno”. “Chissà se Crespi ha progettato anche altro?”. “NO! Per carità! Signor Crespi buondio, ci ridia le nostre esistenze!”.

Arriviamo fino al fondo del paese, dove sorge un enorme cimitero monumentale, con tombe tutte identiche. “Signor Crespi, la situazione le è decisamente sfuggita di mano!”. Quindi ci rifacciamo tutta la strada al ritroso per le ennesime case, stelle, strade, geometrie. “Signor Crespi la misura è davvero colma!”. Continuiamo a ridere e dialogare con un immaginario Signor Crespi come fossimo in preda all’LSD. “Signor Crespi, si metta una mano sulla coscienza”. “Qualcuno levi quel righello al signor Crespi!”.

Aggiungiamo un chilometro di periferie e cavalcavia perché l’intera zona di Crespi d’Adda è a traffico limitato. “Il gioco è bello quando dura poco, Signor Crespi!”.

Saturi di Crespi e famiglia, cavalcavia e altre cose sull’Adda, ci dirigiamo verso Bergamo dove trascorreremo l’ultima giornata all’insegna del ritorno al caos cittadino, con le sue persone in carne e nevrosi, confortanti abusi edilizi dall’aspetto asimmetrico e altre cose la cui vita non è appesa al filo dell’Adda, alle sue storie, ai suoi singolari personaggi.

“Signor Crespi, mi vedo costretto a prendere le distanze da lei”.

“Signor Crespi si dia un contegno!”
“Signor Crespi il gioco è bello quando dura poco”
“Signor Crespi lei ha il diritto di rimanere in silenzio. Qualsiasi cosa dirà potrà essere usata contro di lei in tribunale”.
Signor Crespi si metta una mano sulla coscienza”
“Signor Crespi la situazione le è sfuggita di mano”

31 ottobre 2022, file d’autore

Oggi siamo in una Bergamo mattutina silenziosa con anime sparse, con un pomeriggio affollato-variabile, a finire il nostro personale Pagan Tour, prima di rimettere il navigatore su Roma e riprendere l’infinita via dell’autostrAdda… (da questa cosa dell’Adda non ne usciamo più).

Ancora in preda ai postumi degli effluvi narcotici del villaggio industriale (che ha sicuramente avuto effetto più nocivo del concerto di folk-rock pagano) continuiamo ad attribuire la colpa di tutte le nostre sventure e contrattempi al signor Crespi. “Signor Crespi, lei mi sta rovinando la vita!”.

La prima scelta sbagliata della giornata è la funicolare. Immancabilmente attratti dal fascino del mezzo meccanico dal sapore retrò ci imbarchiamo in una fila immane di famiglie provenienti da tutta l’Emilia, tutta la Lombardia e forse anche mezzo Veneto e tre quarti di Piemonte, per salire a Bergamo alta. Cosa che – nota bene – si sarebbe potuta risolvere in poche rampe di gradini con veduta panoramica. “Signor Crespi, lei ci sta portando sulla cattiva strada”.

Ovviamente il primo commento su Bergamo alta (ma anche Bergamo bassa, in generale) non può essere altro che di meraviglia. È la prima volta qui per entrambi e non ci aspettavamo una città così architettonicamente gradevole, piena di storia, cultura e scorci suggestivi, in tutto questo marasma di cantieri distopici sull’Adda.

Poi, il secondo commento è di fatica. Non tanto per i saliscendi (che comunque dopo Matera e Genova sono ben poca cosa) quanto per la congestione umana. C’è letteralmente una fila per tutto, anche per fare una fila. Mentre siamo in fila (l’ennesima) per accaparrarci un posto ad un pub concepiamo una sorta di Tripadvisor per le file. “Due ore in piedi tra il viavai del corso principale e schiamazzi, a questa fila do decisamente cinque stelle!”. “Consiglio la fila a Santa Maria Maggiore, da provare assolutamente”. “Solo tre persone, scorrevole, c’erano persino delle panche su cui sedersi, sinceramente deludente”.

Finalmente riusciamo a mettere piede nel benedetto pub a un tavolo in bilico tra due o tre gironi infernali di turisti con bambini e l’uscio della porta, per un tipico pranzo a base di cose leggere, come polenta, lardo, guanciale, stracotto di asino e taleggio. Il che ci dà la mazzata finale. “Signor Crespi lei mi sta mettendo a dura prova”.

Verso sera andiamo a riprendere la macchina da un costosissimo garage a pagamento (perché le uniche altre opzioni a Bergamo centro sono vendersi la macchina o sperare che te la rubino). Ma non prima di aver constatato che Bergamo è una di quelle città che va vissuta e ammirata ad occhio nudo perché non è fotogenica come altre città altrettanto belle ma che sono state più furbe sulla scelta dei colori.

Come vuole la buona tradizione di ogni ritorno, ci perdiamo. Stavolta facciamo il nostro ingresso trionfale a Verona, senza alcun motivo apparente. “Ma che diamine, Signor Crespi, ci dia un po’ di tregua!”. Il nostro detour ci porta dritti, dritti davanti al fabbricato della Bauli. Evitiamo di fermarci nostro malgrado (“A Natale puoi”, una domenica sera di ottobre di ritorno verso Roma, non puoi).

La seconda sosta (voluta) è quella ad un autogrill tra Modena e Firenze. Ci guadagniamo un tavolino in disparte accanto ad un muro idealmente allestito per far disegnare i bambini ma sul quale compaiono scritte di protesta come: “un panino otto euro”. (Sottinteso: “Signor Crespi, io la denuncio!”). Tempo di pochi minuti ci rendiamo conto di essere finiti nella capitale del regno dei non-luoghi, abitato da popoli di non-persone.

Un tipo completamente dipinto di blu, dalla testa ai piedi, compie un giro completo della sala ristorante deserta, delineando ogni angolo, per poi tornare indietro con sguardo vuoto e la stessa decisione con la quale era venuto. Altre due o tre entità nello stesso stato lo seguono, l’ultima è una ragazza che si ferma per un bel po’ a fissarci immobile prima di tornare nel cappello magico.

Conveniamo che questa è una fauna decisamente più pagana e meno umana di quella del concerto. Conveniamo anche che è il caso di toglierci di torno prima di venire risucchiati nel labirinto del Fauno, nel quale probabilmente è in corso un rave devastante. “Signor Crespi si dia un contegno la prego!”.

Ci reimmettiamo sull’autostrada, quasi sentendoci a casa, e mi vengono in mente le parole di Marc Augè: “È nell’anonimato del non-luogo che si prova in solitudine la comunanza dei destini umani” (2018: 130).

Bergamo bassa
Bergamo alta

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