“Se finisco fuori strada, è perché qui succede continuamente, con tante strade fatte d’acqua. Da queste pagine, in altre parole, potrà non venir fuori un racconto, una storia, bensì il fluire di un’acqua limacciosa «nella stagione sbagliata dell’anno». A volte appare azzurra, a volte grigia o bruna; invariabilmente è fredda e non potabile. Il motivo per cui mi ingegno a filtrarla è che contiene tanti riflessi, tra i quali il mio”
(Josif Brodskij, Fondamenta degli Incurabili)
Treni in orario
Il 18 ottobre 2022 vedo la mia prima alba alla stazione Termini.
Mentre fioche luci rosee abbracciano gli edifici squadrati in stile fascista rivelando i primi volti delle ombre scure seminate lungo le banchine assopite, noto che il mio treno porta già cinque minuti di ritardo. Il che è molto poco fascista. Ci sono solo due treni in ritardo: il mio Frecciarossa per Venezia e il trenino regionale per Albano. Ma recuperiamo subito: nel giro di venti minuti compaiono almeno sei treni con ritardi dai 25 minuti in su, quello per Milano ne porta 70.
No, decisamente, i treni non arrivano più in orario.
Alla fine riesco a partire con solo un’ora di ritardo, io e il libro che dovrò presentare questo pomeriggio, con performance canora a seguito. Io ho già sonno, nervosismo misto ad ansia mista a nervosismo, zero esercitazioni vocali all’attivo, il foglio sul quale sto scrivendo il discorso della presentazione (a mano) ancora bianco, e una sfilza di vestiti leggerissimi che vorrei darmi in faccia ad ogni metro strappato alla copiosa nebbia fuori dal finestrino.
Avrei voluto fare il classico video di rito all’arrivo della stazione di Santa Lucia, su quel bel tratto lungo il quale il treno sembra volare sul mare. Ma è sempre e comunque nebbia. Arrivo in stazione con la stessa ora di ritardo con la quale ero partita, nonostante ad un certo punto sembrava essersi ridotta a venti minuti in qualche ponte di Einsten-Rosen tra Firenze e Bologna.
Quindi, partendo già in ritardo (non per colpa mia), vado a ritirare la carta trasporti per i battelli lasciata dalla Fondazione Cini, e la perdo nel giro di tre minuti tra: smanetta il trolley, trova gli spicci per passare i tornelli delle toilette, trova il molo, sbaglia il molo (colpa mia). Ergo: torna indietro e ricompra la carta a spese tue, prendi il battello giusto grazie a un gruppo di signori che evita che tu finisca a Chioggia e mettiti comoda alla volta di San Giorgio Maggiore.
La nebbia sul Canal Grande è dissolta, c’è un piacevole sole primaverile (di pieno ottobre) rotto solo da raffiche di vento pungente e umido della laguna. Ad ogni fermata rivivo i miei quindici anni: San Basilio (nella mia mente: Noyz Narcos), Zitelle (foto alle amiche), e via dicendo. Sbarco a San Giorgio alle 13.30, arrivo previsto: 11.40. Sono comunque la prima tra tutti i miei colleghi, compresi quelli di Bologna.
La strada verso la residenza è un bel corridoio di ciottoli sconnessi lungo il porticciolo, che il mio trolley solca a mo’ di aratro svegliando probabilmente chiunque nelle isole circostanti si stia approcciando ad un sonnellino pomeridiano. Mi preparo dei noodles istantanei usufruendo del kettle attaccato alla presa del bagno e mi infilo un sarung cambogiano, un kebaya indonesiano e degli scomodissimi e ingombranti orecchini thailandesi. Sono pronta per la presentazione del volume Patterns of Change in the Traditional Music of Southeast Asia, performance finale inclusa.
Quindi esco in scena tra i turisti. Venghino! I duecento metri verso la sala Barbantini sono lunghissimi e più imbarazzanti di quanto credessi.
Seguono cene, eventi, passeggiate a San Marco e Rialto, altre cene e altri eventi, archivi sonori, concerti di musica sami, spritz col Select a tre euro, battibecchi con commercianti locali, cicchetti a base di sarde, tutto a base di sarde, battelli notturni, risuonare di passi sulle banchine, i ridondanti vetri di Murano, bestemmie di gondolieri in pausa, il museo dell’Arte Orientale.
Sbarcati dall’ennesimo molo, un graffito vicino ai giardini recita: “A Venezia amplessi d’acqua e luce”.
Un’ora d’aria lunga sei ore
Verso Burano
Un po’ di tempo per me
Con tutto lo spazio del mondo
Tocca il punto più lontano
E fai ritorno, anime solitarie
Annegano nelle fondamenta degli incurabili
Per rinnegare, rinascere, ricominciare.
Siedi a cena di fronte a un Sami
Yoik per dessert e antichi copricapi
L’acqua ad un passo dal tavolo
L’acqua ad un passo da tutto
Tu ad un passo dall’ennesimo bicchiere
Gingiña, giuggiola, genziana
Cambia sempre e solo il sapore della latitudine
Ci rivediamo stasera, ci rivediamo a Trömso
Al mio ennesimo svogliato ritorno.
San Giorgio alle otto di mattina del 20 ottobre è un enorme camposanto dormiente. L’acqua è calma e color opale. Le prime ore del mattino danno sempre un qualche conforto alle anime inquiete in cerca dell’ignoto. Un piccolo passo oltre il tempo di confine, la quiete dopo l’alba, con qualche strascico di nulla e nebbia.
Venezia senza il tran-tran turistico è la regina del mondo. Il molo è semideserto, sola, a tu per tu con ponti e fondamenta. Le prime bancarelle cominciano a stiracchiarsi. I primi piccioni volteggiano tra marinai lenti e raggi del sole a mollo nell’acqua torbida.
Andare a Burano come metafora dell’andare “lontano”. Ho sei ore di ora d’aria dai convegni, dagli eventi, dall’Asia, dagli spritz, dai sami… Ovviamente è un contentino, lo è sempre, per me. È più facile di quello che sembra, ed è comunque più facile che rimanere alle fondamenta a rigirarsi in labirinti di vite passate cercando di perdersi, e non riuscendoci. E allora, come al solito, l’unica soluzione è andare a Burano, che è quello che più di “lontano” mi è venuto in mente.
Quaranta minuti di schiaffi di sole e vento in laguna aperta con Canale Grande Number One di Peggy March nelle orecchie tra turisti tedeschi bastano a convincermi che lo sia. Quando il battello attracca mi attanaglia il solito senso misto di euforia calante per il viaggio che finisce ed euforia crescente per l’esplorazione che inizia. Chissà, forse speravo di arrivare a Trieste, o in Slovenia. Ma anche uno sbarco in Catai avrebbe probabilmente prodotto lo stesso risultato.
Fatto sta che oggi a Burano c’è il sole e poche persone. Non è la Burano che ho visto qualche gennaio fa, fredda, crepuscolare, affollata. Chissà come sarà la prossima Burano.
I negozianti mi approcciano in inglese, io mi fingo turista, un po’ per gioco, un po’ perché si sposa proprio bene con la mia aspirazione alla fuga. Chissà perché non sembro mai italiana a casa mia. Non sembro mai italiana a casa di nessuno. Una ragazza mi chiede di farle una foto. Poi mi chiede se viaggio da sola. Riparto con le storie della Cambogia. Ci teniamo compagnia per qualche minuto prima di continuare a viaggiare (un po’ meno) sole. Chissà, lei, in quale Burano tornerà.
Di Burano mi piacciono due cose:
1. non ti perdi
2. non ti sbagli
Due dei miei più grandi problemi esistenziali risolti in 211, 28 Km².
Un set cinematografico galleggiante in cui puoi girare a caso scattando foto a caso finché non ti ritrovi, comunque vada, ad un molo con un battello in partenza e la tua memoria – digitale e umana – piena di cartoline variopinte, identiche ad altre centinaia di migliaia di cartoline variopinte di chissà chi. A Burano facciamo tutti gli stessi giri, gli stessi scatti, gli stessi errori di valutazione.
Continuiamo a rigirarci attorno col naso all’insù incollato alle imposte colorate finché non svoltiamo in una “calle” o in un “campo” deserto e piombiamo nel silenzio per un po’, solo noi e le madonnine sugli architravi pastello. Le case pastello sono il motivo per cui vieni a Burano (e a Procida, Bosa, Nyhavn, Balat…).
Non ci vieni tanto per le madonnine sugli architravi o per i bagni di silenzio nelle caleidoscopiche oasi di cemento, o per i moli brulli con i cantieri navali che fanno da contorno. Non ci vieni per vedere i giovani isolani prendere il largo sulle loro barchette coi motori Yamaha come degli scooter nei paesi e chiederti: “Chi sarei adesso se fossi nato e cresciuto qui?”.
Non ci vieni neanche per le fondamenta, vecchie, nuove o quelle di Brodskij e dei suoi incurabili, né per l’acqua stagnante che fa capolino da angoli troppo poco pittoreschi per essere reali, a Burano. Burano esiste solo in questo suo paradosso: ciò che è reale risulta troppo irreale per farne parte. Fai la tua comparsata da Truman Show – Buongiorno, Buon Pomeriggio, e se non dovessimo rivederci, Buonasera – e sei a tuo agio nel mondo per qualche oretta.
Io non lo so perché sono venuta a Burano.
Forse avevo nostalgia di rivedere questo posto (e Procida, Bosa, Nyhavn, Balat…). O forse sono anche io una incurabile, e ogni tanto ho bisogno di una parvenza di fuga prima di poter tornare a digerire il mondo reale, senza pastelli, Buongiorni e davanzali. Senza la possibilità di staccarmi dalle fondamenta e prendere il largo in una qualsiasi mattina soleggiata di un giorno comune a bordo del mio motore Yamaha.
Un battello mostruoso divora lo skyline della laguna mentre la voce di una guida diffonde informazioni metalliche in un inglese stentato sul significato dei colori delle case di Burano. Non ce la faccio più. Faccio l’ultimo giro a vuoto per riconfermare il calcolo delle probabilità finendo al molo principale in perfetto orario nell’ennesimo tentativo di perdermi, e torno ad essere reale ed incurabile nella speranza di riavere, presto, di nuovo qualche oretta con un mio posto definito nel mondo (a Burano, e Procida, Bosa, Nyhavn, Balat…).
“Più di un boomerang non torna, sceglie la libertà”
(Stanislaw Lec, in Hugo Pratt “Corto Sconto”)