«Ci sono posti dove manca il concetto del recupero, o del ritocco del passato. A Parigi, fra tutti quei restauri impeccabili, mi ero sempre sentito in colpa, convinto che tutti mi vedessero per quello che ero: un essere non abbastanza perfetto. A Bangkok ciascuno è libero di andare in pezzi come crede».
(Lawrence Osborne, Bangkok)
Bangkok, 10 luglio 2019
Chiang Mai, domenica sera, ultima cena, ultima corsa sull’ottovolante dorato.
Siccome quel gioco dei camerieri che non capiscono gli ordini ci era piaciuto tanto, ci concediamo il bis. Stasera si superano: siamo solo 3 clienti con 3 ordinazioni, riescono comunque a scordarsele. Ad un certo punto qualcuno si ricorda che non volevamo la cipolla, ma non sanno in quale piatto. Noi attendiamo i nostri hamburger di anatra e l’insalata birmana accompagnati da scrosci monsonici. Ceci, uva passa, masala e acqua a secchi. La migliore selezione della stagione delle piogge.
Stordita dal caldo umido del post-diluvio cado in una pennica soporifera, approfittando finché posso del letto. Quando arriva l’ora fatidica prendiamo zaini e valige (marsupi, sporte…)… e il gelato al durian che avevo scordato in congelatore. Lo mangio strada facendo. L’ascensore sa di durian. Tutto sa di durian. Si attacca ad ogni cosa, come l’umido dell’aria piovosa, lo smog, il caldo appiccicoso, i sorrisi melensi, le attenzioni di troppo, l’ossessione per i pedaggi. Il Sudest Asiatico è un affare impegnativo, ti logora i sensi, li satura e li fa implodere per il troppo carico.
L’autista del Grab si lamenta dell’odore del durian, ma lo fa scherzosamente. In realtà è divertito perché capita raramente che gli stranieri lo apprezzino. Continua a ridacchiare e fare battutine tutto il tempo. Io cerco di ingurgitarlo il prima possibile e aprire i finestrini senza molto risultato. Almeno questo non è vietato. Si lamenta anche dei 26 chili di valigia da sollevare, che erano 24 appena una decina di giorni fa. Non so come sia possibile, in questi giorni ho comprato solo cibo che ho consumato. Sarà lo spiritello delle valige dei viaggi di ritorno.
Salutiamo l’autista, riceviamo in risposta altre battute sul durian e andiamo a riscuotere i nostri biglietti cartacei al botteghino della stazione. L’inserviente è intenta a guardare video di band thailandesi sul suo smartphone. Ci concede uno dei due padiglioni auricolari, l’altro rimane ben saldo alla cuffietta. Nella stazione di Chiang Mai non c’è un’anima. Serrande chiuse, sedie vuote, parcheggi deserti. Un tuk tuk solitario occupa la piattaforma 4, quella del nostro bus. Nella mia testa ripeto che no, non torneremo a Bangkok in tuk tuk. Attendiamo.
Il bus è diverso da quello dell’andata, è di un’altra compagnia (altro giro, altra marca). Assicuro i miei 26 chili di vita ad un esile autista dall’aria sciupata. Vorrei aiutarlo, ma non vuole. Rinuncio e vado a sedermi con Eva. Prendiamo posto nei primi due sedili del piano superiore del bus e ci intratteniamo per alcuni minuti con una serie di rocambolesche manovre di assestamento. Un marasma di borse, cuscini, manopole, giacchetti. Dove metto la borsa. Come richiudo lo schermo. La TV dritta in faccia. L’aria condizionata dritta sulla cervicale. Creare un habitat accogliente dovrebbe essere la specialità della razza umana.
Chiudi aria. Ripiega schermo. Reclina sedile. Come si reclina? Sbaglia manopola. Trova manopola. Premi bottone. Parte il massaggio. Visitors sotto il deretano. Mi prende un colpo. Grida all’amica: “Hanno le poltrone col massaggio!”. Ritorna a fare quello che stavi cercando di fare.
Lo schermo offre sei opzioni. Sei modi in cui intrattenersi. Scartando le promozioni, le info sulla compagnia e una cosa indefinibile in thai, ne rimangono tre. Il menu VIDEO dà errore. La selezione musicale propone le seguenti tracce:
- [scritte in thai] – 25 hours
- [scritte in thai diverse] – 25 hours
- [thai] KALA [thai]
- AB Normal [thai]
- AB Normal [thai]
- Bad luck [thai] (feat. The Toys)
Il menu GIOCHI è in turco.
Ingurgito una “pillola per il sonno” e mi bardo in cuscino da collo, auricolari, coperta e mascherina, moda Sudest Asiatico tutte le (due) stagioni. All’una sono ancora sveglia.
Ci fermiamo più volte a caricare altri passeggeri presso stazioni immerse nel nulla e a vari controlli immigrazione per i passeggeri che vengono da Birmania e Laos, oltre alle immancabili soste cibo ad orari strambi in autogrill nell’Area 51. Verso le due, finalmente, la pillola fa effetto.
Chiang Bye.
Case, templi (ancora, e ancora, la terra promessa degli accumulatori compulsivi), e piogge, e strade, modi di rapportarsi ad un altro che così altro non è Mai, in fin dei conti. Passata la prima ondata di Ohh e Ahh, resta, come sempre, solo tanta umanità, gestita come sia più logico o illogico gestirla in base al luogo, al tempo, la storia, le latitudini e le moltitudini, le lingue, le etnie, i motivi tessili, le risorse culinarie, gli idoli sulle soglie degli altari domestici, fino ai modi stessi di dire “città”, a distanza di pochi chilometri, di pochi altri esseri viventi e una manciata di occhiate. Modi di essere, di esserci e modi di andarsene. Anche quando non te ne andresti mai perché non è mai abbastanza, quando ti ritrovi a chiederti dove sei e come ci sei finito, in fin dei conti sei arrivato l’altro ieri, dieci o venti anni fa.
Come se ora questo posto “altro” fosse diventata la tua casa e ti abbia cambiato un po’ tutta la prospettiva delle cose. E forse, adesso, non è più neanche così tanto interessante, perché non è più diverso, è già routine. E ogni giorno ti accorgi di accumulare di meno, di esplorare con meno curiosità e di scavare sempre più in superficie, finché torni ad un equilibrio statico. E invece di accomodarti in quell’equilibrio ecco che fuggi di nuovo, in cerca di un posto ancora più diverso dove ricominciare ad accumulare, esplorare e scavare con rinnovato vigore. E quindi, eccoci qua, altro giro, altra corsa.
Hello, sorry, risate in thai. Altri mini-monaci automatici all’ingresso di un altro tempio. Seguono altri Buddha sdraiati, in piedi, meditano, seduti, loto, offerta, monaco e via. Hello, sorry, è già scaduto il tempo della corsa.
Eva mi sveglia gentilmente (di più dello steward gender fluid dell’andata). Siamo quasi arrivate al terminal. Apro gli occhi alle 4.30 nel traffico infernale di Bangkok, e come d’incanto Chiang Mai rientra nella lampada magica, chiusa ermeticamente nella caverna delle meraviglie. Alle 8.30 siamo al Sombat Terminal, come fosse stato tutto un sogno, come fossi caduta nel canale e svenuta con valigia a seguito dieci giorni fa e mi fossi risvegliata solo ora davanti al mio chai latte.
Ripetiamo il rituale. Scarica valigia. Trascinala lungo il canale. Siedi da Starbucks. Ed ecco la variazione sul tema che rompe l’incantesimo: ripeto per tre volte che voglio un chai latte da bere qui. Non solo tè, ma con il latte. No, non da portare via. Sì, qui. Mi bevo un chai tea, senza latte, in un involucro di cartone e affondo cucchiaiate nella matcha cake rimuginando nel malcontento. Quella “pillola per il sonno” mi ha letteralmente narcotizzata e non ha influito molto positivamente sul mio umore.
Il Grab arriva al terminal, non ci trova, ci viene a raccattare di persona da Starbucks, si trascina la valigia sul canale. Del tragitto non ricordo nulla, solo ondate di dormiveglia in stati non ordinari di coscienza. Siamo bloccate nel traffico mostruoso di Bangkok e io sono uno zombie. Dopo un lasso di tempo indefinito, forse un’era glaciale o due, ci scarica in una stradina angusta. Benvenuti al Pratunam Hotel. Rimaniamo minuti davanti ad una porta che non si apre prima di capire che è la caffetteria.
Vado alla reception vera, attraversando una porta che si apre, e faccio il check-in. La camera è disponibile dalle 14.00. Mollo tutto, anche le speranze, e vado ad accompagnare Eva a sbrigare i suoi affari burocratici alla Mahidol University, poco fuori città. Tanto non è che abbia di meglio da fare.
Narcotizzata sul sedile posteriore dell’ennesimo taxi, scruto i soliti amabili resti di metropoli asiatica che mi si parano davanti. Rama. Suksol. Abusi edilizi. Cemento in varie (e brutte) forme e colori che dirama ogni dove le sue metastasi. Palazzoni con muffe infestanti a macchia d’olio. Puro dadaismo. Un poster del Re (l’ennesimo, come i Buddha nei templi, seduti-in piedi-inchino-loto-e via) appiccicato sulla parete di un colosso luccicante, forse una banca. Il clone del sovrano grosso quasi quanto l’intera facciata di un grattacielo. Come fai a non amare tutto questo?
Un cornicione scrostato, un’inferriata di troppo, cubi di vuoto cemento, tendine cadenti e slavate. Angoli che non combaciano, diagonali mancate, incastri asimmetrici, non torna nulla. Rompicapo insolvibili a perdita d’occhio. Costruisci cosa vuoi e dove vuoi e fregatene di tutto il resto. È il caos anarchico dell’architettura civile, il fallimento di ogni teoria sulla coerenza. Il brutto è fatto principio fondante. Brutto e accumulo. Accumulo di brutture. Se cerchi qualcosa di tipico, eccoti servito. È la visione del brutto, del posticcio e dell’anarmonico nell’insieme. È una visione grandiosa dello sconforto estetico.
Ogni tanto trovi qualche oasi di sollievo, qualche tetto inframezzato di verde, ricordo lontano di una campagna pre-coloniale, di un campo di riso, dell’Asia che vorresti in ogni cartolina. Ma dura poco. il tempo di inalare una boccata di aria condizionata gelida e sei già sotto un altro pilone scrostato, sotto qualche traliccio cadente. Qualche mostro di ruggine e rottami spalanca le fauci e ingurgita altri rottami. La mitosi dei rottami. L’accozzaglia come principio ingegneristico.
Nel taxi, un volantino plastificato propone: FASHION TV VODKA MODEL PARTY! Specificando: PARTY WITH THE MOST BEAUTIFUL THAI & FOREIGN MODELS TOGETHER! Sotto nomi di Dj russi, tedeschi, americani e thailandesi accompagnati da foto con facce minacciose: GOODFATHER OF TRANCE, [LETTERE INCOMPRENSIBILI], DJ DOMINATION, BANG-COCK.
Bang-cock.
Bang-cock è la città del come sarebbe il concetto di “esagerazione” se dovessi riprodurlo su scala ∞: 1. Bangkok è il male. Bangkok è il paradiso (perduto). Bangkok è l’Asia che abbiamo voluto. Bangkok è l’Asia che non augureremmo mai a nessuno. Eppure ci torniamo sempre, per un motivo o per l’altro.
Mahidol. Giovani thailandesi in divise bianche e nere. Mense e zuppe fumanti sotto il caldo tropicale. Ma anche oasi e laghetti. Dei lucertoloni nuotano liberi nel fossato. Delle studentesse in gonna e camicetta inamidata cibano delle enormi carpe in un lurido canale. Alla Mahidol ci sono dei distributori automatici di cibo per pesci.
La facoltà di Musica è sempre la più bella. È introdotta da un’oasi di verde in cui sorge la Concert Hall. Al ristorante della Concert Hall prendiamo un pad thai al granchio e un frullato al frutto della passione. Altro frutto, altra corsa. È tutto buono, ma non buonissimo. È comunque Bangkok. E si muore di caldo.
Il dipartimento di jazz “si sente”. Sull’amore viscerale tra la Thailandia e il jazz non ci sono dubbi. Torna tutto, se ci pensi. Qui vengono a sbattere la crème della crème dei musicisti, la crème della crème dei lupi solitari, la crème della crème dei virtuosi problematici, la crème della crème dei disperati. Il jazz in Thailandia è tra le musiche più “tradizionali” che puoi trovare. Pare che il Re Bhumibol Adulyadej (Rama IX) andasse matto per il jazz. Letteralmente il Re del jazz.
Continuiamo la nostra gradevole visita lungo altri fossati dal caldo opprimente. Troviamo altri resti di abitazioni tradizionali (come quelle del museo etnografico) che qui sono state convertite in edifici pubblici per cerimonie di rappresentanza. Per rappresentare quel che di “tradizionale” c’è rimasto. Al campus, in effetti, un po’ è rimasto, dietro gli inni nazionali e le parate militari. Ad esempio i luoghi sacri. Ce n’è uno davvero peculiare. In questo sito un po’ nascosto tra un dipartimento e l’altro sono disposti, in un ordine che qui è quasi distopico, mucchi di statuette di animali. Come fossero giochi nella stanza di un bambino, ma di fronte ad un altare.
Spiriti locali, divise, marce militari, sprazzi di inglese ed echi di jazz. È tutto amalgamato, tutto coerente. È tutto Thailandia. E via di nuovo sulla strada delle brutture (altro taxi, altra corsa). Scopro un inconscio piacere perverso, quasi viscerale, nel guardare tutta questa bruttezza. A scovare il dettaglio più sbagliato e sgraziato. Cavi aggrovigliati, pali aggrovigliati, marciapiedi aggrovigliati. Vite aggrovigliate.
Rimaniamo mezz’ora a morire nel traffico e nel caldo, neanche i livelli di aria condizionata a rischio incendio dell’ozono reggono il colpo. Mezz’ora a morire dentro. Sepolte nel groviglio di corsie, di grattacieli, di supermercati, di insegne luminose, di tuk-tuk, di taxi, di McDonald’s, di cavalcavia, di vicoli saturi, di bancarelle, di dettagli. Sovrastate da tutto fino al senso di nausea. Chiudo gli occhi per un istante. Vorrei una manopola o un qualche rubinetto per chiudere tutti gli altri sensi, per dargli qualche attimo di tregua. Siamo sotto attacco, perennemente.
Ad un tratto mollo la presa e lascio che la pillola finisca il suo effetto e mi metta definitivamente k.o. senza più opporre resistenza. Mi metto comoda nell’afa a lasciar demolire quel che rimane della mia lucidità. Forse è l’unica uscita d’emergenza sicura. Voglio godermi questi ultimi pochi chilometri percorsi in troppi minuti e con troppi rischi di incidenti nella totale incoscienza e risvegliarmi nell’anonimo vicolo dell’Hotel, scartato dalle selezioni dell’eccellenza dell’eccesso. Voglio uscire fuori da tutto tranne che dal senno.