«I cinesi hanno una bella espressione per descrivere come io vivevo, e ancora vivo: “Guardare i fiori dal dorso di un cavallo”. Proprio così: in venticinque anni d’Asia ho visto tanti fiori, a volte straordinari, grandi, ma dall’alto di un cavallo, sempre di corsa, sempre a distanza, senza troppo tempo per soffermarmici».
(Tiziano Terzani, In Asia)
Chiang Mai, 9 luglio 2019
Le fronde degli alberi sono mosse dal vento. Succede ad ogni latitudine, ma il modo in cui lo fanno qui è particolare, sembra trasmettere segreti esistenziali di immensa portata. Se solo qualcuno sapesse decifrarli.
Nel frattempo, le fronde dei miei capelli sono mosse dal phon, mentre il condizionatore falsifica le temperature permettendo che avvenga qualcosa di così poco logico in un habitat tropicale. Basterebbe spegnere entrambi i congegni e mettersi fuori, ma certe azioni sono talvolta necessarie per ricreare la sensazione di “casa” anche a migliaia di chilometri.
Si creano quindi due realtà parallele. Fuori dalla finestra: movimento naturale, caldo disumano, vento vivo e mistico. Dentro la finestra: movimento fittizio, fresco a misura d’uomo, vento vuoto e meccanico. Chissà perché scegliamo sempre di essere dalla parte della finzione.
Stiamo facendo le valigie (e gli zaini, le borse, i marsupi, le sporte…). Lasciamo Chiang Mai. Stanotte il bus notturno ci condurrà all’afosa e disastrosa Bangkok, dove ci aspettano sette giorni di conferenza e la seconda parte del mio viaggio, quella produttiva.
Nel pomeriggio ho dato il mio ultimo saluto alla città, stando bene attenta a non incrociare la polizia (ripagare la tassa prima di partire sarebbe davvero troppo). Ho visitato il museo etnografico (il Lanna Folklife Museum), che offre alcuni esempi di abitazioni tradizionali della cultura Lanna (diffusa nel nord della Thailandia) nel quieto e tranquillo verde di un parco. Poi un altro tempio (altro giro, altro tempio) con annesso cimitero monumentale, un bianco labirinto di mausolei. Un altro posto in cui perdersi, in un modo o nell’altro.
La magnifica immancabile pagoda dorata, i naga multiformi che vegliano sulle entrate, le custodi umane altrettanto multiformi, con innumerevoli braccia che raccolgono offerte, pedaggi e pagamenti. Mano alle scarpe, mano al portafogli, mano al selfie-stick. La routine del buon turista.
Un gruppetto di monaci bambini tenta approcci verbali: “Hello, sorry”. “Hello, how are you?”. “Hello!”. Risatine, parole in thai. “Hello, sorry!”. Sembrano bambole con il un chip inserito che ripetono frasi pre-registrate. Dopo vani tentativi di conversazione in qualche lingua franca, verbale o gestuale, procediamo sul soundscape più o meno stabile e monotono che svanisce in lontananza. Hello, sorry, risatine, thai, hello, sorry…
Per ogni altarino c’è un percorso diverso, un idolo di una qualche minoranza etnica o di una diversa corrente dell’immenso mondo del sincretismo religioso Sudest Asiatico, spesso indo-buddhista o qualche spirito locale (che non fa mai male), un incenso, una collana di fiori arancioni. Bianco, arancio, rosso, oro. Altro giro, altra corsa, altro Buddha. Il Buddha dai mille volti, questo non l’avevo ancora visto. Poi momenti di calma, pace, quiete, ritagliati tra un cataclisma eco-umano e l’altro. Giri un angolo e la folla di turisti urlanti è solo un vago ricordo.
Un po’ mi dispiace non aver visitato di più la città vecchia. Sono in preda a classici rimorsi pre-partenza dell’ultimo minuto, in cui vorresti visitare ogni scantinato che non hai visto perché chissà quando tornerai, se tornerai. In cui tutto quello che hai odiato della città ti sembra tutto sommato passabile, parte del pacchetto, e quello che ti è piaciuto un minimo diventa meraviglioso e irrepetibile. Quello che è davvero meraviglioso, paradossalmente, è l’unica cosa che quasi svanisce, dissolta nell’essenza del tuo essere, acquisita, metabolizzata, ora quasi superflua.
Il fatto è che se pensi a ciò che potresti ancora fare nelle città Sudest Asiatiche continui a sommare esperienze simili tra loro ma leggermente diverse, piccole variazioni sul tema, talvolta mediocri, talvolta irripetibili, ed entri in un loop senza fine in cui procedi per accumulo compulsivo, senza mai davvero assaporare qualcosa a fondo, un po’ come nei supermercati locali, tra una fantasmagoria al durian e una tempura di desideri agrodolci a forma di panda.
Quindi cominci la tua corsa in questo meraviglioso tunnel di effetti speciali dai mille colori fluorescenti che ti provocano scariche di adrenalina continue, e devi andare avanti finché non le esaurisci tutte. Ed è così che finisci a vivere qui per anni, risvegliandoti un giorno dal tuo viaggio sotto allucinogeni, chiedendoti da dietro il bancone del tuo bistrot per attivisti vegani: “che ci faccio qui?” (alla Chatwin, ma con meno retroterra filosofico).
“Hello, sorry”. Risata. Altri turisti sono incappati nei monaci bambini a gettone automatico. Ci riallacciamo le scarpe, pronte a volgerci altrove.