Altro Giro, Altra Corsa

Capitolo 12 – Repent! The end is near!

«Viaggiare ha senso solo se si torna con una qualche risposta nella valigia», attaccò Leopold. «Tu che viaggi tanto, l’hai trovata?».

(Tiziano Terzani, Un indovino mi disse)

Chiang Mai, 8 luglio 2019

Oggi due dei miei peggiori incubi sono diventati realtà: la polizia e la pioggia monsonica. Entrambi scampati per un pelo ma comunque di un certo impatto.

Torniamo dalla solita colazione a base di lassie, cocco, avocado e pace nel mondo, imbocchiamo le stradine kampungan e sbuchiamo sulla strada principale. Stiamo per svoltare verso il MAYA, il grande centro commerciale, quando un tipo barbuto senza casco ci sbarra la strada col suo motorino e comincia a blaterare cose in preda al panico: “They are everywhere! Come back! Have a coffee somewhere! Go anywhere!”.

Sembra uno di quei film apocalittici ambientati a New York in cui girano i pazzi con i cartelli REPENT! THE END IS NEAR! E poi succede qualcosa tipo un virus letale, un uragano di squali o un attacco alieno di insetti robotici giganti, ma tu sei il nerd che risolverà la situazione e sopravviverà miracolosamente quindi te la prendi piuttosto comoda per tutto il film.

Quindi, mentre riceviamo bagni sonori di clacson da ogni lato (dato che siamo al centro di un incrocio e abbiamo bloccato mezzo quartiere) tentiamo di ottenere qualche informazione in più. Dice che i posti di blocco dei poliziotti lo hanno già fermato tre volte e per tre volte sono riusciti a trovare cose che non andavano bene sulla sua patente, con tutto il foglio di concessione pagato profumatamente (lo stesso che ho io).

Alla fine riesce a suggestionarci così tanto che manda nel panico anche noi. Rimaniamo lì, ferme, al centro dell’incrocio, investite da scariche sonore di decibel e guidatori infervorati, senza sapere cosa fare. Uno dei posti di blocco s’intravede effettivamente a qualche centinaio di metri più avanti. A quel punto, dopo averci mandato in tilt, il tizio ci lascia sull’eco di: “Welcome to Thailand” e sparisce nel marasma di motocicli.

Mi accosto a lato della carreggiata per porre fine almeno a parte dei problemi. Decidiamo di utilizzare metodi da intelligence sovietica: mandiamo Yuri in avanscoperta (l’unico che a quanto pare ha una patente a prova di KGB) e attendiamo il da farsi. Non appena ci dà il via libera scattiamo per i duecento metri che ci separano dal posto di blocco lasciandolo alla nostra sinistra, e svoltiamo nella viuzza sulla destra con una sterzata alla Valentino Rossi, mentre Yuri finisce di intrattenersi nei controlli di routine. Ci ricongiungiamo al 7ELEVEN vicino casa con le fedine penali intatte e i portafogli intonsi. Ogni giorno è una guerra.

Come al solito ci perdiamo nel minimarket e finiamo per annullare ogni cognizione di tempo e spazio tra visioni culinarie che fluttuano in un tunnel di arcobaleni e unicorni. Il junk food asiatico è il nostro oppio. in piena crisi estatica riempiamo il cestino di tamarindo essiccato, prugne salate giapponesi, semi di loto, semi di melone, Pringles al gusto tom yum, l’ennesima variante sul tema delle chips alle alghe (scure, chiare, gommose, croccanti, piccanti, fluorescenti…), chips di piselli verdi, chips di jackfruit e gelato al durian. Ci evitiamo due masterpiece dell’orrore: le chips di pesce gusto pizza a forma di tagliolini e le chips di pesce alla tempura di uovo salato. Il problema di tutto ciò non è tanto l’offerta, quanto che ci sia un’effettiva domanda.

Mentre stiamo pagando comincia a venire giù il diluvio, sempre più forte, scrosci su scrosci, in un’escalation che in pochi secondi diventa una tempesta tropicale in piena regola e ci ritroviamo a fissare un muro d’acqua fuori la vetrata del minimarket (REPENT! THE END IS NEAR!). Eccolo, il caro vecchio monsone.

Rimaniamo un’altra mezz’ora a trastullarci nella caverna delle meraviglie tentando di non arraffare altre meraviglie. Quando cominciamo a pensare a soluzioni creative (tipo comprare un ombrello e issarlo sul motorino tipo Palio di Siena) comincia a spiovere. Acquisto comunque una mantella di plastica, una sorta di enorme busta per l’immondizia color arancione, che però fa il suo lavoro. Arriviamo a casa pressoché asciutte.

Ci mettiamo buone, buone a lavorare al paper dell’ICTM senza azzardarci a rimettere piede fuori per l’intero pomeriggio, già sufficientemente bastonate dal karma. Solo verso sera torniamo al MAYA per cenare al Food Court, e ci dice male anche lì. Quando la giornata comincia male capisci che l’unico modo per uscirne è barricarti in qualche scantinato con materiale per sopravvivenza ad un attacco nucleare e attendere pazientemente il decorso delle successive 24 ore (REPENT! THE END IS NEAR!).

La cameriera non capisce una parola d’inglese, gli altri lo capiscono ma non capiscono comunque quello che vogliamo, e anche se lo capiscono non ce lo portano. Alla fine ci arrendiamo e ci portano quello che dicono loro. Quindi mangiamo del riso fritto con i frutti di mare e del macinato di maiale piccante al basilico. Tutto bene, se solo non fossero misere mezze porzioni, da dividere in due. L’acqua vado a chiederla io di persona alla manager.

Dato che non siamo sazie neanche un po’, decidiamo di ordinare un’omelette ai frutti di mare. Questa ce la portano, ma per quattro persone. Riusciamo a stento a mangiarne metà. Nel frattempo, l’allegra tavolata familiare a fianco a noi si fa fuori vassoi di crostacei, gamberi, granchi, aragoste, da fare invidia ad un pranzo di nozze sulla costiera amalfitana. Quasi vorremmo andare a sederci con loro.

Prima di uscire dal centro commerciale veniamo risucchiate da una serie di negozi che vendono materiale da feste di provenienza thailandese, giapponese e coreana. Tra le altre assurdità spiccano decisamente dei costumi a forma di pene. Concludiamo il tour con un bel dessert: mochi alla big bubble e antidepressivi (formalmente: pasticche per il sonno) che qui apparentemente puoi acquistare senza prescrizione medica.

Poi però c’è il colpo di scena finale. Eva decide che ha bisogno di una valigia enorme, che acquista poco prima di ricordarci che siamo su un motorino. In pratica torniamo in tre, con il bambino legato dietro, in pieno stile indonesiano. Chissà quanto si paga questa al posto di blocco.