«Lei dice che non riusciremo? Noi terrestri abbiamo il genio di rovinare tutte le cose grandi e belle. La sola ragione per cui non abbiamo messo delle bancarelle di salsicciotti caldi in mezzo all’antico tempio egizio di Karnak è perché si trova troppo fuori mano e commercialmente non serve a nulla».
(Ray Bradbury, Cronache Marziane)
Chiang Mai, 6 luglio 2019
Oggi ho salito un gradino in più nella graduatoria di santità e nel grado di apprezzamento di ciò che offre la Thailandia, che come si sarà intuito non è proprio il mio paese sudest asiatico preferito.
Faccio colazione alla caffetteria del Kanith attendendo che Eva e Yuri si sveglino. Il menu prevede thai tea freddo e hit da ogni nazione riarrangiate in stile bossanova dalla seducente voce di una cantante thailandese.
Facciamo la seconda colazione in una voliera. L’Art Roastery Coffee and Eatery è un grazioso posticino che sorge sulla via della montagna, con tavolini e divanetti ben confezionati in una serra di rampicanti, fiori e vetrate che danno sul verde circostante. Qualche volatile scorrazza allegro tra le stoviglie non sempre risparmiando le pietanze sulle tavole imbandite.
Prendo un khao soi, ovvero un piatto tipico del nord della Thailandia che sembra derivare in realtà da un piatto diffuso in Birmania, in Laos e nello stato Shan. Si tratta di una zuppa di noodles al curry di cocco con pollo e nido di noodles fritti in cima. Lo accompagno con uno smoothie al frutto della passione e una cheesecake al frutto della passione. Oggi è decisamente giornata frutto della passione. Ci prendiamo una meritata pausa dal mango. I piatti sono decorati con fiori viola e foglie di basilico locale. Ma più che una decorazione è un bouquet sano, non sappiamo dove riporre tutti i fasci di fogliame che leviamo dai piatti.
Dato l’ottimo inizio di giornata ritengo sia alquanto propiziatorio recarsi al tempio sulla montagna sopra Chiang Mai, il Wat Doi Suthep. Prendo gentilmente in prestito il motorino di Eva e la lascio a lavorare alla presentazione per l’ICTM (cosa che dovrei fare anche io ma come al solito preferisco la vita). Faccio il pieno e imposto il navigatore sulla strada del tempio. Ce n’è solo una, non posso perdermi.
Passo davanti allo zoo, percepisco vibrazioni di trash e crudeltà e tiro dritto. Guidare il motorino su strade di montagna mi ridà quella sensazione di pace che non provavo da tanto. Mi ricorda i peregrinaggi per le montagne di Wonosari e Wonogiri in cerca delle location dei wayang. Vado a 50 Km/h per assaporarmi tutto, senza fretta. La pace è interrotta solo da sporadici attacchi di panico quando intravedo posti di blocco della polizia locale. Mi servirà un ciclo di psicoterapia per superare questa cosa.
Lungo il tragitto ci sono innumerevoli tempietti minori, altarini e piccole oasi con cascate. Decido di fermarmi a qualcuno di questi nel tragitto di ritorno. Qualche curva dopo aver formulato questo pensiero mi si para davanti un punto panoramico segnalato da tanto di cartello. Accosto subito e scendo. Una coppia sta scattando una foto davanti alla panoramica della città che si apre tra le fronde, protetta da uno steccato precario. Mi sorridono, gli sorrido. Penso che non vorrei essere in nessun altro posto ora, tra gli ostinati dei grilli e la calura avvolgente.
Do un’occhiata a Chiang Mai dall’alto. È più grande di quel che uno si immagini, e decisamente più moderna. Faccio qualche selfie storta controluce e per poco non faccio cadere il casco giù per la scarpata. Continuo il percorso tra tornanti e sciami di farfalle, sembra la scalata all’Olimpo. Man mano che si sale il venticello diviene più fresco e la mia guida si adatta sempre più alla pendenza delle curve e all’asfalto. Mi sembra di essere in perfetta armonia con l’ambiente circostante.
Faccio una seconda sosta ad una piccola cascata che reclama attenzione dal bordo strada. Mollo il motorino a caso e mi inerpico sulle rocce umidicce fitte di vegetazione, con sandali in mano e casco tenuto come una pochette. Quasi mi ammazzo. Un’enorme farfalla nera e verde acqua di una brillantezza surreale si abbevera sulla roccia. È inutile cercare di immortalarla, sarà sempre e comunque più bella nella sua libertà.
Due ragazzi dall’accento anglofono cominciano ad inerpicarsi per il mio stesso sentiero (ma in mondo molto più rapido e agile). “Hi”. “Hi”. Ne approfitto per farmi fare una foto in cui si capisca che ho anche un corpo oltre ad una faccia esageratamente grande. “Nice tattoos”. “Thanks”. E sono di nuovo sola con la cascata. Noto un piccolo tempietto in miniatura e una statua di una divinità in blu e oro. Lo spirito della cascata.
Scendere giù è quasi peggio che salire tra manate sulle foglie, passi falsi e commenti random ad alta voce (“Scusa grillo, so che è il tuo habitat ma abbi pazienza”). Su, giù, giù, su, poggia un piede, poggia il casco, non farlo mai più, ricomincia. Mani giunte, inchino allo spirito, occhio al gradino, riprova, mani giunte, inchino, saltino, arrivo. E anche oggi non siamo morte in modo scemo.
Dopo altri cinque minuti di guida mi ritrovo in un piazzale affollato pieno di bancarelle, parcheggi, bus turistici, cartelli, cani tramortiti dal caldo buttati qua e là e un’enorme scalinata con dei Buddha che spuntano in cima. Ha tutta l’aria di essere il tempio, anche se secondo il navigatore mancano ancora 19 minuti. Continuo per qualche centinaio di metri in preda a dubbi cruciali. Sarà per il buon influsso dello spirito della cascata, ma in una botta di presa di iniziativa faccio inversione e torno al chiassoso piazzale, prima di ritrovarmi in Laos.
Parcheggio il motorino tra mille altri e non scorgo traccia di parcheggiatori, cartelli e richieste monetarie di alcun tipo. Vado a sincerarmi della situazione scomodando un tizio che sta beatamente seduto per i fatti suoi. Pare che stavolta la passiamo liscia così, senza pedaggi. In Indonesia in un posto simile ci avrei lasciato minimo 5.000 rupie.
Entro sotto quello che sembra un arco d’ingresso nella confusione generale e mi ritrovo in un secondo piazzale stracolmo di bancarelle, letteralmente inondata di musica pop thailandese a volumi insostenibili. Alla faccia del luogo meditativo. Mi inerpico su una scalinata infinita, i cui corrimano squamosi terminano in una serie di teste di naga che si divorano a vicenda, piene di pietruzze, oro e intarsi. Adoro gli animali mitologici a guardia dei luoghi sacri, sono grotteschi, buffi e inquietanti al tempo stesso.
Sotto i circa 70° C del primo pomeriggio e un tasso di umidità di un acquario, salire centinaia di gradini era davvero l’ultima cosa da fare. E con la giacca addosso per giunta, non sia mai che manchi di rispetto a qualche divinità. Quasi svengo, ma arrivo in cima. Entro sotto lo sguardo vigile dei guardiani color verde smeraldo, con fauci spalancate e clave alla mano. Un cartello recita:
MAY PEACE PREVAIL ON EARTH
Un altro cartello recita:
FOREIGNERS 30 BAHT
Se prevalessero anche onestà ed egalitarismo non sarebbe male. Dato che bisogna levarsi le scarpe per entrare in ogni nicchia e padiglione, decido di lasciarle direttamente ai lockers all’entrata e farmi tuto scalza. O finisco nel Nirvana o al pronto soccorso. Accedo all’area interna della pagoda e mi ci vuole un po’ per riprendermi dal primo impatto visivo. Oro su oro, su giada, su oro, su statue di oro e di giada, ma più che altro oro. Mi sembra di essere finita nella caverna delle meraviglie di Alì Baba. Comincio il primo giro rituale attorno alla pagoda principale. È impossibile focalizzarsi su qualcosa, c’è troppo di tutto, è come un viaggio sciamanico sotto LSD.
In preda allo stordimento generale, imbocco in un padiglione affrescato in cui un enorme Buddha siede placido tra due zanne di elefante. Ottengo la benedizione da un monaco. Mi sorride. Faccio per avvicinarmi e stringergli la mano. Lui si ritrae allarmato. “Me no touch woman”. Come non detto. E via, di nuovo fuori, un altro Buddha sdraiato, uno in piedi, un Buddha che medita.
La foglia sul Buddha d’oro.
Il Buddha sulla foglia d’oro.
Grappoli di campanelle risuonano nel vento.
BE QUIET.
Alberi di soldi, elefanti d’oro.
PLEASE SIT DOWN IN THE HALL.
Campane e oro.
Altro giro, altra corsa.
Fai la tua offerta (la cerimoniera vigila, irremovibile)
Prendi il fiore, accendi la candela, prega.
Tre giri, tre corse attorno alla pagoda al prezzo di uno
pronunciando parole incomprensibili
(Imita gli altri
Fa tutto parte del gioco).
Il Buddha blu
I Buddha sdraiati, in piedi, seduti, sul loto.
Tre giri all’esterno e tre all’interno
(Inizia un altro round)
Regole su regole
NON MOSTRARE AFFETTO IN PUBBLICO
Tutto ruota attorno ai Buddha
Attorno a loro, attorno all’oro
VESTITI CASTO
Esco. Un monaco armeggia col telefono. Bentornati nel Samsara.
Mi dirigo sul retro del complesso, dove mi aspetta un altro punto panoramico, la mia passione. Un gong gigante, un Buddha gigante (un altro, quasi non ci fai più caso), ricominciano le vertigini. Altra veduta sulla città, stavolta su ampie terrazze. Entro in un negozietto desolato e spulcio tra gli scaffali dei dischi. Tra i vari album inquietanti infarciti di musica per meditazione e pastrocchi neo-folklorici scovo un album di musica per ranat, lo xilofono tradizionale. Chiedo alla commessa di farmelo ascoltare per la prova #autenticity. Passa la selezione e vince un posto nella mia collezione di musiche dal mondo.
Riscendo la scalinata impiegandoci un terzo del tempo impiegato per salire. Dei poveri bimbi costretti in pomposi abiti di qualche minoranza etnica d’acchiappo fermano i turisti per le scale. Pochi baht per una foto ricordo. Non è meglio dello zoo. Evito di alimentare il business. Non questo. Mi addentro nella rete dei venditori adulti. Maschere, campane tibetane, parei con mandala ed elefanti, elefanti in ogni forma, colore e dimensione (comincio ad elencarli in mente tipo il tizio dei gamberi in Forrest Gump), gingilli, manufatti, cose che hanno comunque troppi attributi e troppi colori per venirne a capo. Ne esco con una modesta campanella. Mi piace il suono e mi ricorda la sensazione uditiva delle file di campanelle della pagoda principale suonate dal vento.
Quando il cielo comincia a scurirsi attraverso di nuovo l’arco principale guadagnando l’uscita. Ho all’attivo solo un CD, un campanello e innumerevoli pizzichi, nonostante gli strati di Autan. Zanzare di giada dal pungiglione dorato capaci di traforarti ognuno dei sette chakra. Vorrei dirigermi al motorino ma la mia attenzione viene distolta da un’altra scalinata (il termine tecnico è “autolesionismo”). In cima mi attende un altro grande Buddha con un altro grande gong. Un anziano euroasiatico sbuca da una frasca e mi incita a colpirlo. Mi chiedo se anche questa cosa abbia un costo. Prendo un bastone da terra e colpisco il bossolo centrale ottenendo un suono così flebile che non sembra poter esser uscito da quell’affare. Anni di gamelan buttati. Ritento su insistenza del signore che è ancora tutto convinto e mi blatera cose in non so che lingua. Dopo un po’ mi dileguo continuando ad annuirgli per sicurezza.
Uscire da questo posto è difficilissimo, è come uscire dal cancello del parco giochi di quando ero bambina, solo che qui non ho nessun genitore a trascinarmi fuori, devo auto-trascinarmi. È scontato che ne esci con una forza spirituale di ferro. Riscendo in motorino sfiorando a stento l’acceleratore e godendomi il vento serale.
Faccio una breve sosta ad uno dei templi minori che avevo notato all’andata. Il tempio consiste in due piccole costruzioni bianche al centro di una radura. Un enorme Buddha bianco mi accoglie nel mezzo della vegetazione. Qui trovo solo silenzio e solitudine. Finalmente. Mi chiudo a fare qualche minuto di meditazione prima di rifiondarmi nel caos cittadino. Ci metto più a fare tutte le inversioni a U nei trecento metri dal raccordo al Kanith che a scendere dalla montagna.
Recupero Eva e andiamo al Convention Center, dove è in corso una mega esposizione di abiti, cibi e oggetti tradizionali del nord della Thailandia. Tendenzialmente andiamo a scovare altri “orrori da gustare” e li troviamo. Cominciamo a prendere assaggi da ogni banco: salsicce speziate, funghi e alghe fritte, frutta tropicale essiccata, tortine di riso, curry, pelle di maiale croccante (Ariccia è qui), latte di avocado, latte di edamame, yoghurt al tamarindo, tè al crisantemo, tè amaro (non provatelo a casa), chips di qualsiasi cosa (riso, banane, alghe, maiale…). Assaggiamo ogni cosa fino a scoppiare spendendo solo 30 baht, quanto l’ingresso al Wat Doi Suthep. Dal tempio all’empio.
Mi metto a discutere con il vecchietto al banco del caffè su come fare il caffè thailandese con la moka senza saltare in aria. Ci prova, me lo fa assaggiare. È uno dei più buoni mai assaggiati. Me ne prendo un pacco sano. Poi incappiamo nei grilli. Stavolta però non ce la sentiamo, decisamente troppe zampe, troppi occhi, troppe antenne.
Nella sezione tessile ci va meno di lusso. Sono tutte taglie locali, non c’è speranza di farci entrare i nostri fianchi e il nostro seno. Riesco comunque a comprare qualcosa: un pha sin (sarung locale) e degli orecchini a pon pon tipici della regione che non metterò mai ma era bello averli. Ci sono anche accenni di performance musicali un po’ deludenti. La cosa migliore rimane il luk thung diffuso dagli altoparlanti.
Sulla via del ritorno ci fermiamo ad un 7ELEVEN illudendoci di poter comprare delle carte da gioco. Costano un occhio, sono conservate come il Graal in uno scomparto nascosto dietro il reparto liquori e portano il bollo statale. Pare lo facciano per scoraggiare il gioco d’azzardo. Un mazzo costa 500 baht. Ce ne servirebbero due. Non giocheremo a carte stasera. Mi limito ad acquistare un balsamo dato che l’ho terminato. L’essenza meno inquietante di tutto lo scaffale è l’anguria. Mi sveglierò con una frutteria in testa. Se calcoliamo che abbiamo iniziato la giornata con fasci di fiori nei piatti, torna tutto.