GENOA CHRONICLES

Genova nel mondo… l’Indonesia a Genova

«Viaggiando ci s’accorge che le differenze si perdono: ogni città va somigliando a tutte le città, i luoghi si scambiano forma ordine, distanze, un pulviscolo informe invade i continenti»

(Italo Calvino, Le Città Invisibili)

Prologo

Roma, 13 maggio 2022

L’ambasciata indonesiana di Roma (per la quale collaboro ormai saltuariamente in veste di interprete, mediatrice, cantante, ricercatrice, tuttofare) mi contatta per invitarmi a partecipare ad un evento che si svolgerà a Genova il 21 giugno. Si tratta di una giornata di scambi internazionali e performance musicali intitolata Genova nel mondo, il mondo a Genova. Parteciperanno all’incirca una quindicina di ambasciate e consolati da tutto il mondo e si prevede uno spettacolo serale presso il Teatro Carlo Felice, che è uno dei teatri d’opera più prestigiosi in Italia. Ed è qui che entro in gioco io:

Ti informo che il 21 giugno partecipiamo ad un evento intitolato “Genoa in the world, the world in Genoa” che consiste in un evento business. Mostra culturale e spettacolo al Teatro Carlo Felice. Ogni paese può contribuire con uno spettacolo culturale di 7 minuti (danze, canto, etc.) e vogliamo la tua collaborazione. Chiaramente vitto, alloggio e trasporto sono a carico nostro più il tuo onorario.

Neanche a dirlo, accetto. In mancanza dell’orchestra gamelan al completo, suonerò due brani folk da Sumatra e Ambon con voce e chitarrina accompagnata da Agnes, una funzionaria dell’ambasciata che eseguirà delle danze tradizionali.

Genova, 20 giugno 2022

Mi presento alla stazione Roma Termini con chitarrina e valigia piena di abiti indonesiani e cavi elettrici. Il mood è #skappatadekasah, sempre. “Il treno Freccia Bianca delle 11.57 arriverà al binario 22 con 10, 20, 30, 40, 45, 50, 55 minuti di ritar…”. Spoiler: arriverà con 2 ore di ritardo, che quindi in totale fanno 7 ore di viaggio. Un massacro.

Se sali su un treno con strumento musicale ti becchi almeno un: “cos’è? Un violino?” (può avere anche forma esagonale, per la gente sarà sempre e comunque un violino), e un: “Ci allieterai il viaggio?” (Ma con sguardo preoccupato che la cosa possa accadere davvero). Tranquillizzo tutti che sono in ansia pre-performance da 24 ore, non intendo toccare la chitarra fino al concerto.

Commetto l’errore di compiere un atto di gentilezza verso il mio vicino di posto cedendogli una mascherina FFP2. Il vicino: pendolare albanese preso da botta di patriottismo, si lancia in una guida al turismo in Albania. E la prima ora la trascorriamo così, alla Valtour. Se vi serve sapere dove andare a mangiare a Durazzo, non esitate a contattarmi. Per fortuna poi si addormenta e riesco a leggere un po’… e a gettarmi in una insensata operazione di traduzione e analisi letterario-musicale dei brani che andrò a suonare, solo per buttare giù una presentazione di mezzo minuto per la quale sarebbe bastato leggersi due righe sul Wikipedia indonesiano. Perdoname madre por mi vida etnomusico – loca.

A un certo punto forse ho perso i sensi in Toscana, ma mi sono risvegliata comunque in Toscana.

La Toscana è immensa, dura quanto la Transiberiana. È più che altro uno stato d’animo, come direbbe Terzani. La pacchia dura fino a La Spezia, dove sale l’ansia in sembianze umane (tipo l’“Edgar-abito” dei Men in Black, un’“ansia-abito”) che comincia a raccontarmi tutti i disguidi della sua giornata e a lamentarsi ad ogni minuto di ritardo che accumuliamo (quindi praticamente ogni minuto). Le dico che io ci sono salita da Roma, ormai sei ore fa, che dovevano essere quattro.

Ne esco con una notevole conoscenza in più sulle dinamiche del pendolarismo ligure oltre che sulle coste albanesi. Più che un viaggio in treno è stata una Masterclass in geografia del turismo.

Arrivo all’hotel aggrappata al banco della reception tipo sopravvissuto da apocalisse zombie e riesco a scordarmi in una botta sola numero di telefono, numero di codice fiscale e qualche termine utile in italiano che sostituisco all’occorrenza con l’indonesiano. Tralascerei il fatto che premo per sbaglio l’allarme nella doccia generando attimi di panico alla reception.

WELCOME TO GENOA.

Salto la “light dinner” con consolati e ambasciate in un moto d’anarchia e mi godo le poche ore di giro turistico serale in solitaria, non so neanche io con quali forze. In due orette mi vedo mezza Genova, da piazza della Vittoria fino al porto e ritorno. Mi prende un colpo passando davanti al Teatro Carlo Felice realizzando, forse per la prima volta da quando ho accettato l’incarico a cuor leggero, che suonerò lì.

Mangio la tipica farinata in un posto fighissimo dietro Piazza Dante che la fa dal 1800. È la tipica botteguccia anonima a cui non daresti due lire ma fa robe pazzesche. Mi siedo fuori, ad uno sgabello a filo muro, arroccata tra una torre storica, un vicolo troppo stretto per essere vero e una salita immane. Genova in a nutshell. Il proprietario continua a riempirmi il piatto per farmi assaggiare tutto quello che ha di tipico. Spendo 8 euro, gli voglio bene.

Piazza de Ferrari
Piazza della Nunziata
L’evento

Genova, 21 giugno 2022

Il 21 mattina sono a Palazzo Borsa per l’evento “Genova nel Mondo, il Mondo a Genova”, che consiste in una serie di incontri internazionali con stand promozionali allestiti da consolati sobrissimi… più lo stand indonesiano (poi su questo punto ci torniamo). Al terzo Nespresso Starbucks di Sumatra (sì, esiste ed è tipo la combo più figa al mondo dopo Philip Glass e Ravi Shankar) decido di defilarmi. Ho 4 ore libere e un’altra mezza città da esplorare. Mollo la chitarra a qualche poveraccio del corpo consolare e chi s’è visto s’è visto.

Genova nel mondo…
…l’Indonesia a Genova.
Ci siamo

Mi butto subito a via del Campo e mi crogiolo tra i vicoli di de André, per poi trovare l’iniziativa a ca**o del giorno: la funicolare. Quando arrivo in cima (da Zecca a Righi, tutte le fermate) mi accorgo che ho solo 20 minuti prima di riscendere se non voglio arrivare tardi alle prove in teatro. Un tizio mi suggerisce di salire sulle terrazze ma sono chiuse quasi tutte tranne la più bassa, quindi trascorro 15 minuti circa sui tetti di Genova ad osservare i binari della funicolare misti a sprazzi di porto semi-coperto da generosa vegetazione e abusi edilizi.

Via del Campo
Vicoli
De André vibes
Un giro in funicolare
Capolinea
Mi basta.

Ritorno in tempo per le prove, trafelata e semi-liquefatta, ma al teatro sono in ritardo sulla scaletta quindi ci becchiamo tutta la danza di Panama e la pianista albanese (tanto ormai con l’Albania sono di casa).
Quando penso che utilizzeremo i camerini capisco che ci sono gli artisti di altre 14 ambasciate ad accapigliarsi, quindi non li useremo. Quindi, con chitarra e cambio costumi appresso, trascinati una giornata sana, torniamo a cambiarci in albergo.

Teatro Carlo Felice

Realizzo per la seconda volta che stiamo davvero suonando al Teatro Carlo Felice quando ci presentiamo all’ingresso artisti. Noi (in foto) e un coro di tedeschi composto da 40 persone vestite bene con spartiti alla mano. Per il resto cantanti d’opera, pianisti, violinisti, flautisti e tutta la creme della creme dei musicisti mondiali… più noi (sempre in foto).

La situazione non migliora quando ci sediamo in platea tra consoli, prefetti e il bel pubblico del teatro dell’opera in abito lungo, tacchi e stole pregiate. Vedi: sempre noi con cose in testa da Sumatra e pezzi di stoffe fucsia giallo e blu elettrico gettate addosso. Nel pubblico ci sono i corpi diplomatici di 14 consolati e il sindaco di Genova con mezza giunta, e io sto per cantare una canzone che si intitola “ho perso il mio pollo” (ayam den lapeh). Decido di buttarla sul significato metaforico (provvidenziale l’analisi fatta in treno) e ne viene una roba fighissima super struggente. “Etnomusicologi in teatri dell’opera che fanno supercazzole a pubblico selezionato. Le nuove possibili applicazioni della practice-based research”, presto in bibliografia.

All’intervallo io e la danzatrice ci spostiamo dietro le quinte per prepararci all’entrata in scena. Riesco a rovinarmi quasi la vita con un colpo da maestro: apro la custodia maldestramente e il capotasto finisce nella chitarra. Ma non solo: si incastra nei marchingegni elettronici. Creo il delirio tra i tecnici e alla fine comunque risolvo: scorda la chitarra, ficca la mano nella cassa armonica, tira fuori il capotasto senza divellere i cavi, impreca, riaccorda la chitarra, rimetti il capotasto al posto giusto, prega.

Dileguandomi con garbo dall’area “accordatori di violini” (che è più che altro un girone dantesco), mi aggrego all’area “chitarristi che passeggiano suonando tra sé e sé come pazzi in preda a deliri” (il girone successivo) e finisce che faccio amicizia con un chitarrista parigino che suona con il gruppo del consolato di Haiti. Poi conosco anche il percussionista che è proprio di Haiti e la danzatrice che è già entrata in trance prima ancora di cominciare. Lei sembra uscita da un romanzo coloniale ottocentesco. Seguono abbracci e rassicurazioni fraterne tra scappati de casa vestiti con costumi tradizionali e tamburi a seguito, versus la creme della creme dei conservatori mondiali.

Sul palco appuro che per fortuna non ho rotto la chitarra.

La performance va liscia a parte il pubblico che comincia a battere le mani sull’accento musicale sbagliato e quasi mi manda fuori. È una cosa difficilissima ignorarli. Sugli appalusi mi alzo con grazia, mi inchino a mani giunte con la danzatrice e mi avvio verso la quinta… incollandomi il cavo che ovviamente ho dimenticato di staccare. Accorre il tecnico in soccorso (lo stesso del capotasto, mi odia, lo so).

Tornata nel backstage mi accoglie un tripudio di “amazing amazing”, ma a me quasi frega niente perché la cosa più bella è che tutti credono che io sia indonesiana. Quindi riparte tutta la storia dell’etnomusicologia, dei “7 anni in Tibet” etc. È praticamente un’aria da baule, ogni tanto la ritiro fuori tra un atto e l’altro.

Dopo altri grandi abbracci con gli haitiani commossi, parte il gemellaggio Indonesia-Haiti, e chi ce ferma più. Musicalmente non so che ne esce ma spiritualmente è na bomba. Mi invitano a suonare con loro a Parigi. Ora il romanzo ottocentesco sono io. Ci mettiamo a fare salotto a suon di commenti da suocere becere sull’abbigliamento dei cantanti lirici. Curva Folk c’è. Alè.

Ayam den lapeh

Poi ad un tratto è finita. Tripudio di saluti e complimenti con persone che non so chi siano ma so che sono importanti. Io ancora non mi riprendo e continuo a sentirmi fuori luogo. I colleghi indonesiani già hanno dato via al “toto foto” in ogni angolo del teatro. Mentre saliamo in macchina ritrovo gli haitiani e partono altre manifestazioni da stadio per strada #fermateli.

Io e la danzatrice vorremmo mangiare visto che non tocchiamo nulla dal primo pomeriggio ma constatiamo che in Italia non ci sono angkringan e chioschi notturni di martabak e gado-gado. Quindi finisce a ricordi nostalgici dei viaggi sui treni notturni per Yogyakarta e a spuntino mezzanotte ad un karaoke bar, bonus americane in accappatoio dell’hotel che urlano a squarciagola autocompiacendosi.

Genova, 22 giugno 2022

Il 22 mattina faccio un ultimo giro e saluti vari con gli organizzatori dell’evento, l’anno prossimo speriamo di rivederci con orchestra gamelan/kroncong al completo. E per i miei colleghi che leggeranno questo articolo: sì, è una minaccia.

Prima di correre in stazione (perché nonostante mi sia svegliata alle 7 e abbia un treno a mezzogiorno e mezza so che comunque correrò) mi metto alla ricerca di qualcosa di tipico da riportare a Roma. Finisco con due bocce di liquori genovesi, pesantissime, che non so dove infilare tra chitarra e cavoli vari.

La morale della favola non c’è, ho solo capito che non importa in quale città o paese io vada, ci sono comunque 3 certezze: sarò sempre un pendolo che oscilla tra un disguido e una corsa forsennata, tornerò carica di alcolici, l’Indonesia verrà sempre con me, ed io con lei.