«Jogja Jogja, tetap istimewa, istimewa daerah istimewa orangnya».
Yogya, Yogya di sicuro è speciale, la regione è speciale come la sua gente
(Yogya Hip Hop Foundation, Jogja Istimewa)
6 gennaio 2015
Yogyakarta
Concordiamo con il receptionist di scendere a colazione entro le dieci. Mettiamo la sveglia alle nove. Alle nove meno dieci bussano alla porta: il nasi goreng torna ad affacciarsi come un rimosso freudiano nei migliori psycho-thriller. Era destino che concludessimo il viaggio come lo abbiamo iniziato.
Mi affaccio alla finestra. Il giardiniere pota le siepi mentre il sole splende alto nel cielo. Andiamo a trascorrere il giorno dell’Epifania (che qui ignorano beatamente) in spiaggia. Pacitan è il paradiso del surf e dello snorkeling, con le sue immense spiagge bianche incastonate tra i monti. Dato che siamo stanchi e in ritardo di un giorno sulla scaletta di marcia, rinunciamo a intrepidi sopralluoghi in calette disperse tra i monti e ci buttiamo alla spiaggia ‘di casa’.
Teleng Ria è un’ampia mezzaluna bianca su un panorama da cartolina, la ‘spiaggia a forma spiaggia’ che abbiamo cercato invano nei nostri peregrinaggi. Soprattutto, è deserta. Non c’è nessuno, neanche i soliti bigliettai ad esigere il pedaggio. C’è solo un particolare che stona. Cartelli con i colori indonesiani avvisano:
DILARANG BERENANG
VIETATO NUOTARE
Non ci ferma neanche questo. Ci piazziamo in spiaggia con asciugamani, borse e una novità: il bikini. Ci hanno rifilato un albergo chiamato Bali che era poco più che un motel per scambisti, ci troviamo nel paradiso degli sport acquatici da perfetto manuale del bule, direi che almeno qua posso permettermelo. Mi fa quasi strano non essere bardata da capo a piedi in spiaggia. Lorenzo va tranquillo in mutande, ora più che mai.
Dopo un po’arrivano i famosi surfisti, tutti occidentali, a solcare le onde con le loro tavole firmate. Dato l’andazzo, ci buttiamo anche noi. La corrente non è così forte, l’acqua è pulita e le onde sono divertentissime anche senza corredo da surf. Altre persone cominciano ad entrare in acqua. Capisci che sono indonesiani dal fatto che rimangono a riva, vestiti.
Quando la corrente comincia a farsi più forte usciamo dall’acqua e ci sdraiamo sulla spiaggia. Intono beata il motivo del brano Caping Gunung che recita: “Pacitan sarwi jenang”.
Ci laviamo alle kamar mandi pubbliche sulla spiaggia, stavolta senza l’impaccio dei vestiti addosso. Dato che non ho più leggins né pantaloni puliti, decido di tornare a Yogyakarta in pantaloncini, il che implica non solo una busta in più appesa al motorino ma anche probabili oltraggi al pudore strada facendo.
Intercettiamo un uomo che guida un carretto dei gelati Wall (la Algida indonesiana). Dopo averci scambiato quattro chiacchiere segniamo dei punti fissi sulla nostra agenda di certezze: tutte le guide sono di Sulawesi, tutti i gelatai sono balinesi. Ci congeda con un confortante: “God bless you”.
Impacchettiamo i bagagli per l’ultima volta e cerchiamo di capire che strada fare per non ritrovarci nell’ennesimo safari. Il receptionist ci consiglia una strada alternativa. Invece di tornare indietro, dovremmo proseguire per la strada verso Pocung per poi svoltare a sinistra verso Yogyakarta. Dovremmo evitarci così l’ennesima gincana tra i monti di Wonogiri e la trafficata Surakarta.
Eravamo partiti con uno zainone compatto, due borse personali e una per l’elettronica, vestiti lunghi e puliti. Torniamo in shorts, ciabatte sbrindellate e maglia di Sukarno, con uno zainone semivuoto da cui pende un sacco a pelo mal riposto, la borsa dell’elettronica con una bustina di cibo penzolante da una delle stringhe, borse personali ridotte ad ordigni ad un passo dall’esplosione, bustone di panni infangati, bustona di scarpe sporchi e maleodoranti che penzola sulla marmitta, la bustina delle conchiglie e quella delle bottiglie assicurate al manubrio e la new entry: sacca di panni insabbiati. Ci immaginiamo sul Ring Road yogyanese accompagnati da un soundtrack di Goran Bregovic.
La strada procede bene. Sole, bei paesaggi, niente traffico, il motorino non perde pezzi, l’asfalto è ben messo. Facciamo una sosta improvvisata a Goa Tabuhan, la grotta musicale. Abbiamo letto che le formazioni di roccia se colpite riproducono i suoni del gamelan. È una deviazione di solo un chilometro, cosa potrebbe andare storto?
I parcheggiatori indonesiani si rivolgono a noi in italiano. Il bigliettaio ci fa: “Masuk aja” (“Entrate e basta”), senza pagare. Pare quasi che ci stessero aspettando. La grotta è piccola e piena di visitatori. Affittiamo una torcia per 5.000 rupie e ci diamo ad un insensato brancolamento nel buio nel retro della grotta. Poi udiamo il suono familiare del gamelan e torniamo verso la parte illuminata.
Una vera e propria orchestra è intenta a suonare. A parte due sindhen e un suonatore di kendhang, tutti gli altri strumentisti utilizzano le pietre della grotta. È sorprendente, l’effetto è quello di un gamelan vero.
Un folto gruppo di Ibu, per nostra fortuna, ha donato 150.000 rupie per ascoltare cinque brani. Finisce che mi metto a cantare Caping Gunung e Prahu Layar a squarciagola con le Ibu festanti. Finita l’esibizione uno dei musicisti mi chiede se studio karawitan. Gli dico di sì, all’ISI di Yogyakarta. Partono pacche sulle spalle da ex alumni, siamo a casa.
Proseguiamo decisi e sereni fino al cartello che ci informa del nostro ingresso nella DIY, la Regione Speciale di Yogyakarta. Ci fermiamo a fare uno spuntino nei pressi di Gunungkidul ad un chiosco di roti bakar. Ne ordiniamo uno con margarina e uno con marmellata all’ananas. Ci arrivano quattro strati a testa di pane tostato colmi di margarina e ananas. Ci sediamo a mangiarli sotto un albero ma non riusciamo a finirli. Quindi, ripartiamo con l’ennesimo cartoccio.
Facciamo il nostro ingresso trionfale a Yogyakarta mandando in replay la scena dell’ingresso a Pacitan: scendiamo dai monti di Wonosari sulle luci della città all’imbrunire.
Mentre raggiungiamo l’amato Ring Road ci accorgiamo che quelli che pensavamo essere piatti esclusivi di Giava orientale sono in realtà diffusissimi anche qui. Nasi rawon e martabak ovunque.
Imboccando gloriosamente la Parangtritis, quindi il vialetto di casa, torniamo alla nostra cara casetta ancora senz’acqua corrente e ancora più piena di gatti, grilli, blatte, crepe sul soffitto e tanti altri comfort. Rispetto a quello che abbiamo passato questi giorni, ci sembra un hotel a cinque stelle.
EPILOGO
Yogyakarta
17 gennaio 2015
Casa, pomeriggio
La cornice della finestra regala uno spettacolo fisso ininterrotto, che va avanti da ore: muro d’acqua monsonico in diretta nazionale. Il volume è al massimo, continuo, incessante. Per udire la nostra voce bisogna urlare, è come essere in un acquario posto su una mensola a fianco ad una TV dalla quale trasmettono un loop di secchiate d’acqua ininterrotte.
Se poi vuoi vederle dal vivo, basta spostarsi in cucina. Il controsoffitto, composto per un buon 80% da scadente cartongesso, è pregno e gocciolante e ha già contribuito all’allagamento di buona parte della zona lavanderia.
Il muezzin è l’unica voce chiaramente udibile in tutto l’isolato. Quello si sente sempre.
Un gatto bagnaticcio entra indisturbato da non so dove, si rotola sul tappeto e riparte a dar la caccia ai topi nel controsoffitto (che nel frattempo staranno facendo surf, altro che Pacitan).
Ogni tanto passa qualche motorino, ma oggi niente venditori ambulanti. Niente jingle inquietanti dai megafoni e colpi di kenthongan per attirare gli avventori. Oggi non avremo pane aromatizzato dal color verde fluorescente, polpette di scarti animali e frittura di tofu.
La stagione delle piogge non è mai stata così divertente.
(Una blatta saltella festante tra le piastrelle allagate della veranda).
17 gennaio 2015
“Sayuuuuuuuuuuur! Saaaayuuuuuuuuuuuuuurrrr!”.
La vecchietta delle verdure è puntuale come ogni mattina col suo motorino adibito a bancarella ambulante. La sua voce rauca e cantilentante ci dà un chiaro e monotono buongiorno.
Siamo tornati alla normalità, oggi, finalmente, è uscito di nuovo il sole.
Yogya Istimewa.