«Pacitan sarwi jenang».
(Pak Gesang, Caping Gunung)
5 gennaio 2015
Pacitan
Per un bel tratto non succedono disgrazie, ingorghi, guasti e imprevisti. Tutto ciò che dobbiamo fare è seguire i cartelli per Ponorogo e poi riscendere a Pacitan. Questo lo pensiamo finché non arriviamo al bivio PACITAN/PONOROGO. Rimaniamo spiazzati. Dovevano essere una conseguenza, non un’alternativa l’uno dell’altro.
Lorenzo afferma di fidarsi più dei cartelli che della cartina stradale, che appariva più o meno così:
Contrariamente ad ogni logica, confusi dalla scelta tra le due località, optiamo per la direzione Ponorogo, il che implica l’abbandono della strada dritta per un groviglio di stradine montuose dalle traiettorie poco chiare. Ma questo non lo immaginiamo subito, lo scopriamo man mano.
Non ci allarmiamo neanche quando la strada comincia a salire. Ci fermiamo ad acquistare una bottiglia di benzina per sicurezza, constatando con piacere che il prezzo è sceso a 8.000 rupie. Non consideriamo che non sia affatto un buon segno, perché i prezzi scendono in maniera indirettamente proporzionale alla vicinanza di centri abitati. Poi la strada comincia a salire un po’ troppo e cominciamo ad essere circondati da un po’ troppa vegetazione.
Al cartello che avvisa RAWAN LONGSOR (lo sponsor ufficiale del viaggio) cominciano ad attivarsi i campanelli di allarme. Ma noi ce ne freghiamo e facciamo il nostro ingresso in pompa magna nel nulla.
Ci aspettano chilometri di boschi montani prima di poter finalmente rivedere il mare. Ma lo scopriremo solo molte ore dopo. Tanto perché ci mancava un po’ di allenamento, riprendiamo i vecchi fasti: scendiamo a turno per spingere il motorino sui tratti più impervi.
Il paesaggio è spiazzante: boschi di pini, foreste di bambù, distese di banani, palme e rocce. Sembra un orto botanico. Dopo interminabili chilometri di dirupi, salite, scarpinate e fogliame variegato, ci fermiamo ad un chiosco di benzina gettato nella desolazione totale. Una capra dialoga con un tokkay sfruttando l’eco delle vallate. “Meeeeh”. “Oooookkeeei”. “Meeeeh”. “Ooooookkei”. Potrebbero continuare per giorni. L’ultima frontiera delle storie a distanza.
Quando chiedo il prezzo, la ibu mi risponde in giavanese colloquiale. Insieme al resto ci elargisce una bustina di caramelle al cocco e un significativo sorriso di incoraggiamento. Fuori al chiosco, dei ragazzi giocano a badminton, lo sport nazionale indonesiano, in mezzo alla strada. Giustamente, chi vuoi che passi, tranne noi.
Quando ormai non speriamo più di rivedere anima viva e ci convinciamo di essere diventati spiriti dei boschi, spunta il mare in lontananza. Poco dopo tagliamo il traguardo:
SELAMAT DATANG DI KABUPATEN PACITAN
BENVENUTI NEL DISTRETTO DI PACITAN
Subito a seguire ci accoglie lo sponsor: LONGSOR. Meno male, ormai quasi ci conforta. È quasi un leitmotiv in un’opera wagneriana, o forse è proprio un’opera wagneriana, “Die Longsor”.
Cominciamo a scendere verso quella che crediamo sia Pacitan, che invece è Lukor. Perché Pacitan è il capoluogo dell’omonimo distretto quindi prima di arrivarci dobbiamo passare tutte le località del circondario.
In un attimo di interdizione sfrecciamo davanti ad un warung che sfoggia il cartello NAZI GORENG, con svastiche annesse. E dal dramma musicale al romanzo distopico è un attimo. Chiamate Philip Dick.
Altre tre o quattro montagne dopo, mancano comunque trenta chilometri. Lo apprendiamo da diversi locali che ci parlano in giavanese colloquiale come il bahasa non fosse mai arrivato nelle Indie Orientali. Sarebbe quasi piacevole continuare questa gincana di saliscendi montani circondati da vegetazione rigogliosa con il mare che spunta tra un tornante e l’altro, se solo non fossimo in viaggio da più di quattro ore e non cominciasse a calare il buio.
Se non contiamo la visita di cortesia al tambal ban e la sosta per la benzina, non ci fermiamo dalle tre del pomeriggio, e sono le sette passate. In un moto di disperazione accendiamo il GPS del telefono coi pochi dati rimasti: siamo da qualche parte nel mezzo di una chiazza verde scuro prima di Pacitan. In tutto ciò Ponorogo ormai è andata.
Ci inerpichiamo su per l’ennesima montagna sperando sia l’ultima. Lo è. Dopo l’ennesimo tornante intravediamo il tappeto di luci sottostante della cara Pacitan. Il panorama mi ricorda quello di Yogyakarta di notte dai monti di Wonosari. Scendiamo per l’ultima infinita discesa ed entriamo nella città di Pacitan. Ci dirigiamo subito all’Alun Alun e imbocchiamo nel primo hotel.
Ci dirigiamo verso un cartello che indica RECEPTONIST. Non c’è reception, il receptionist è un’entità a sé. Chiediamo una camera doppia. L’uomo ci controlla i documenti e chiede se siamo sposati. Ci prende un colpo. Incespichiamo qualcosa che non suona per nulla convincente. Il pak butta un’occhiata sullo stato civile del mio documento che recita ‘single’ e ci indica una minacciosa clausola in fondo al modulo di accettazione all’hotel.
Non possiamo avere la stessa camera se non siamo sposati, dobbiamo prendere due singole. È la prima volta che ci troviamo di fronte ad una regola così ferrea. Senza batter ciglio riprendiamo le nostre borse e ci dirigiamo verso l’uscita. L’uomo ci dice di provare ad un hotel chiamato, significativamente, Bali. Dato che non abbiamo più fantasia e siamo stremati seguiamo il consiglio.
Da fuori il posto sembra lussuosissimo, dentro è una bettola. La camera è poco più che uno scantinato polveroso e ingiallito, con mobili vecchi accatastati. La luce fioca non basta comunque a celare le evidenti chiazze sulle lenzuola. Getto uno sguardo in bagno che basta a farmi venir voglia di compiere seppuku all’istante. Tutto questo ben di Dio costa 300.000 rupie a notte, lo stesso prezzo dell’Hayam Wuruk.
Convenendo che preferiremmo dormire al Pertamina o in spiaggia, assassini inclusi, ci dirigiamo verso il lungomare. Lì troviamo il Graha Prima, che sorge a due passi da Teleng Ria, una suggestiva spiaggia alle pendici di un monte. Per 300.000 rupie otteniamo un’ampia camera con letto matrimoniale e aria condizionata, bagno con acqua calda e doccia, toilette all’occidentale e un enorme dipinto di un unicorno sulla porta. La finestra dà sul viale d’ingresso con il mare sullo sfondo.
Toltaci questa ultima fatica, ci diamo alla ricerca di un pasto serale. Ci consigliano un warung ad una spiaggia poco dopo la nostra, Temperan. Ci siamo solo noi in un gazebo all’aperto. Nella sala interna i camerieri si dilettano in un animato karaoke. Prendiamo un ovvio nasi goreng seafood e un meno ovvio nasi goreng Hong Kong con un succo al lychee a rischio diabete.
Concludiamo questa ennesima infinita giornata al chiaro di luna sulla spiaggia di Pacitan, la nostra ultima tappa prima del rientro a Yogyakarta, senza assassini.