Jalan Jalan

Capitolo 21 – Blitar

«Bhinneka Tunggal Ika»

Unità nella diversità.

(Motto nazionale ufficiale indonesiano)

3 gennaio 2015

A mezzanotte comincia a venire giù tutta l’acqua racchiusa nell’atmosfera terrestre. Non possiamo fare a meno di ripensare alla strada fatta fin qui. A quest’ora potevamo essere sotto le secchiate di pioggia in qualche spiaggia desolata o nel mezzo della giungla a spingere il motorino sotto colate di fango.

Alle 5.30 ci svegliamo ancora sotto la sinfonia di scrosci monsonici. Alle 6.00 decido di alzarmi, non riesco più a dormire. Nella veranda trovo un gruppetto di persone intente a bere tè e mangiare bakso con sambal in bustine di plastica che spremono tipo Calippo. Pak Susiyo mi accoglie sorridente, mi indica la toilette e mi chiede se voglio il caffè. Annuisco sorridendo a mia volta.

Un cartello appeso fuori la toilette avvisa che ancora manca l’acqua corrente. Decido di usare il minimo indispensabile quella raccolta nel secchio, dicendo addio alla ‘doccia’ completa.
Mi metto a bere il caffè appoggiata al bancone, sepolta tra bottiglie e pacchi di krupuk appesi, incantandomi a fissare la terra lavata dalla pioggia incessante. Guardo la strada da cui siamo venuti, mi vengono i brividi. A quest’ora sarà uno scivolo di pietre e slavine.

Con la luce del giorno noto anche cartelli che il giorno prima non avevo notato.

PANTAI BALEKAMBANG
SELAMAT DATANG

SPIAGGIA DI BALEKAMBANG
BENVENUTI

Noto anche il pendopo nel cortile del warung. Forse avremmo potuto dormire lì e lasciare la camera a Pak Susiyo. Forse ci saremmo presi taniche d’acqua in faccia.
Penso a quest’uomo tutto solo che gestisce alacremente e con orgoglio il warung, il chiosco di benzina e l’officina, che si sveglia alle 5.00 del mattino e va a dormire alle dieci di sera ogni giorno e incontra decine, centinaia di persone che vanno e vengono.

Dopo una mezz’oretta si sveglia anche Lorenzo e il pak prepara anche a lui un caffè. Mentre siamo intenti a bere in santa pace, osservando il pak che spazza il terriccio umido del cortile con la scopa di saggina, la situazione degenera. Un’orda di ciclisti fradici scortata da una macchina della polizia fa il suo ingresso nell’isola felice e ne invade ogni angolo. “Vengono da Blitar”, ci comunica Pak Susiyo.

Sulle magliette di un arancione fiammeggiante sono stampate le scritte: POLRES BLITAR MOUNTAIN BIKE. Il circolo di ciclisti amatoriali della stazione di polizia di Blitar, una città a settanta chilometri da qui. “Dove sono diretti?” chiedo a Pak Susiyo. “a Goa Cina, la località prima di Sendangbiru”. “E da dove passano?”. “Da lì”. Il pak indica la strada semi-franata. Mi prende un colpo. “Polisi harus kuat!” (“La polizia deve essere forte!”) annuncia fiero uno di loro vedendo la mia faccia sgomenta.

Nel frattempo si sono tutti sistemati alla bene e meglio e stanno distribuendo piatti e bicchieri “cepat-cepat” (“velocemente”), perché devono ripartire subito. A quanto pare è una sorta di gara. Uno chiede a noi le bevande, ormai siamo ufficialmente gli inservienti del warung. Quando capisce che non lo siamo si mette a ridere. Chiediamo comunque al pak se, già che ci siamo, vuole una mano. Lui si fa una bella risata e ci rassicura che non occorre, possiamo tornare ‘al nostro ufficio’, dice indicando il bancone dove abbiamo apparecchiato laptop, macchine fotografiche, blocchetti di appunti e telefoni.

I ciclisti consumano cibi e bevande in tutta fretta, ancora zuppi. Tra di loro c’è anche una donna, col velo intonato alla tuta da ciclista. Ovviamente dopo il pasto parte la sessione fotografica con me e Lorenzo, ma soprattutto con me, dopo aver chiesto ripetutamente a Lorenzo: “Pak, bisa foto sama istrimu?” (“Possiamo farci, una foto con tua moglie?”). Uno dei nostri nuovi amici pare che venga da Penataran, il grande tempio a dieci chilometri da Blitar, la nostra prossima tappa.

Un altro signore ci offre dei cartoccetti di riso, affermando orgoglioso: “nasi polisi!”. Ora abbiamo anche il riso ufficiale della polizia, grandioso. Calcolando che sono ancora comunque le sette e mezza del mattino, decidiamo di tenerlo per dopo. Ma niente, il pak non è d’accordo e ce lo fa mangiare subito, fornendoci tanto di piatti e bottigliette d’acqua. Finiamo quindi per fare la prima colazione con riso, noodles, tofu in salsa piccante e uova.

Team polizia Blitar!
Semangat!
Pausa tè
Nasi polisi
Il team
Pak Susiyo

Uno dei ciclisti ci informa che domani mattina a Blitar ci sarà la cerimonia del ‘bersih Gong Agung’, la pulizia del grande gong, che è il gemello di quello di Yogyakarta. Si terrà alle otto del mattino nell’Alun Alun principale. Li vediamo ripartire fieri sotto la pioggia, che per fortuna pare stia calando di intensità. Ne approfittiamo anche noi prima che ricominci il monsone per andare al tempio sull’isolotto di Balekambang, a cui si accede tramite un ponte pedonale dalla spiaggia.

Paghiamo a Pak Susiyo tutto quello che abbiamo consumato e ci accingiamo a dargli un lauto extra per l’ospitalità notturna. Lui rifiuta e dice che lo ha fatto perché l’ospitalità è sacra, come recita anche il Pancasila, la costituzione indonesiana. In quanto giavanese, si sente in dovere di aiutare chi è in difficoltà. Ci chiede solo una cosa: se mai dovessimo ricapitare da quelle parti, in vita nostra, ci piacerebbe che passassimo a trovarlo.

Come ultima cortesia ci consente di lasciare lì i bagagli mentre andiamo al tempio. Partiamo alla volta della spiaggia. I casellanti mantengono la parola data e ci lasciano passare con il biglietto che avevamo già pagato la sera prima. La spiaggia è decisamente troppo affollata. Le persone non si perdono d’animo nonostante la pioggia e fanno il bagno (vestite). Intere famiglie sfoggiano tovaglie imbandite mentre orde di ragazzini scorrazzano tra tende, amache, macchine e motorini. È un delirio.

Lasciamo il motorino a casaccio sulla spiaggia tra la selva di altri veicoli e ci avviamo al ponte. Riparte l’acquazzone. Ci rifugiamo sotto la tendina di un warung con un gruppo di indonesiani che cerca di attirare la nostra attenzione sparando termini a caso in inglese. Appena spiove ci sbrighiamo ad attraversare il ponte e raggiungere il tempio arroccato su un atollo che sbuca dal mare. L’ingresso, gremito di turisti che sfornano foto di famiglia in quantità mostruose, sembra chiuso.

Dentro al tempio, tuttavia, sembra esserci dell’attività. Si ode un suono di campanelli e si sente odore di incenso. Facciamo anche noi qualche foto di rito e torniamo al warung lintas. Lì carichiamo di nuovo il motorino come un animale da soma e ci lanciamo in saluti strazianti e ringraziamenti con Pak Susiyo. Ci facciamo una foto di famiglia anche noi, davanti al warung. Il nostro pak ci chiede di parlare bene del suo punto di ristoro. Lo assicuriamo che lo faremo e gli consigliamo di investire in una homestay, riscuoterebbe un gran successo.

Ripartiamo spediti verso la nostra prossima meta: Blitar, patria del primo presidente indonesiano Sukarno, colui che ha reso l’Indonesia indipendente, e sede del suo mausoleo. La strada ovviamente fa schifo. È un susseguirsi di pozzanghere e salite farcite di sassi e buche. Oltretutto è strettissima e obiettivamente inadatta a contenere due sensi di marcia su cui si alternano motorini, macchine, camion e pullman turistici. Poi per fortuna riusciamo ad arrivare ad una superstrada, senza danni. C’è persino un Pertamina, non lo vediamo da giorni, ormai sopravviviamo con benzina in bottiglia in chioschi di fortuna.

La ‘amena’ Balekambang
Il delirio
Italia c’è
Verso il tempio
Sampai jumpah, Pak

Alle due del pomeriggio siamo a Blitar. La città ci piace subito, è elegante e silenziosa, ha strade pulite, marciapiedi lastricati senza la selva di carretti e angkringan, non ci sono sgraziati palazzoni in cemento e brutte architetture moderne. L’unico problema è che la superstrada attraversa il centro urbano e gli automobilisti lo attraversano a velocità siderali. A primo acchito sembra una città ricca e non troppo turistica, almeno per quanto riguarda il turismo estero. Siamo gli unici stranieri, ma i locali non sembrano scomporsi più di tanto.

Decidiamo che entra nella top 10 della classifica ‘l’Indonesia che vorrei’.
Ci fermiamo prima di tutto a mangiare nel primo ristorante Padang che troviamo, in jalan Merdeka (giustamente ‘via della libertà’, se non qui, dove?) nei pressi dell’Alun Alun principale. L’Alun Alun è diverso da quello di altre città, è di dimensioni molto estese, comprende un bel parco verde racchiuso in inferriate rosse e bianche (i colori della bandiera indonesiana) e vi si accede tramite un grande arco in mattoni rosso scarlatto che sfoggia le scritte da ambo i lati:

SELAMAT DATANG
BENVENUTI
SELAMAT JALAN
ARRIVDERCI

Anche qui non mancano i due enormi alberi di banyan, come in tutti gli Alun Alun. Al centro ce n’è anche uno più piccolo, racchiuso in un grazioso giardinetto circondato da inferriate rosse e bianche. I viali interni del parco sono occupati da angkringan, venditori di giochi per bambini e banchi che affittano mini motorini e macchinine giocattolo. Conveniamo all’unanimità: “siamo al Pincio”.

Il Padang è bene arredato e c’è una vasta scelta di pietanze. Due signorine ci accolgono scostando le tendine dalla vetrina che espone la solita fila di piatti, ciotole e vassoi con i cibi in bella vista. In pochi secondi ci scodellano piramidi di riso, verdure e salse speziatissime senza che possiamo intervenire. Fanno tutto loro. Un uomo dai tratti cinesi con lunghi capelli bianchi dello stesso colore di barba e baffi, con una bandana in testa e una kefia, ci invita a sederci a un tavolo. Sembra appena uscito da un focolaio di resistenza.

Ci sediamo poco più in là, dato che comunque siamo nuovi arrivati e non capiamo ancora che aria tira. Poco dopo viene ad offrirci un piattino con del pollo, in segno di benvenuto.
Troviamo sulla guida l’hotel dal nome Sri Rejeki, che mi ricorda un noto brano musicale per gamelan.

Il fatto che l’edificio sorga esattamente nel mezzo di due ospedali non ci fa desistere. Entriamo sotto la scritta:

BLITAR KOTA PATRIA
BLITAR CITTÁ DELLA PATRIA

e andiamo a morire per un po’in camera. Questa, in realtà, non è il massimo. È abbastanza sporca, umidissima, non c’è acqua calda e il bagno sembra una foto della Cuba decadente di Michael Eastman. Gli asciugamani sono dei fazzoletti e la finestra dà sul parcheggio interno. Del resto, siamo talmente esausti che dormiremmo anche per strada.

Verso le otto di sera usciamo a procacciare del cibo a piedi usufruendo del superpotere dei marciapiedi, una cosa di cui ho sentito una mancanza indescrivibile da quando sono in Indonesia. Dato che i miei due paia di scarpe sono al momento zuppi e ricoperti di fango, decido di andare in cerca di infradito sostitutive, attendendo che si asciughino. Vado a reperirle in un emporio di fronte l’hotel.

La ibu tira fuori da uno scaffale remoto sotto al bancone due sandali enormi, taglia 11. Quando le dico che porto la 9, mi guarda scettica, si sporge a guardarmi i piedi ed esclama un: “For youuuu???”, che risuona per due o tre isolati. Insisto. Me ne porge un paio di colore diverso, stessa taglia. Ribadisco che voglio una 9. “Tidak ada” (“Non c’è”). Categorica. Mi affaccio un attimo dietro al bancone e intravedo un paio di infradito marroni della mia taglia. Le provo senza neanche chiedere, sono perfette. Le porgo le 11.000 rupie mentre la ibu mi incenerisce con lo sguardo ed esco soddisfatta.

Superiamo un concerto sponsorizzato dalla marca di sigarette L.A. Sul palco, delle ragazze in vertiginosi tacchi e minigonne reggono a turno il microfono al cantante, rimanendo ferme e mute. Cominciamo a non soffermarci troppo sui siparietti alla David Lynch che si aprono ogni tanto qua e là. Andiamo all’Alun Alun. Attraversiamo il parco cercando di non farci mettere sotto dai bimbi in veicoli giocattolo quasi più pericolosi di quelli veri nella superstrada al di fuori.

Sbuchiamo sul retro del parco addentrandoci in una selva di chioschi culinari. Ci infiliamo in un tavolo al centro di quattro tendoni diversi, non capendo a quale appartenga: tofu, zucchero filato, martabak ed es buah (la magnifica ‘zuppa fredda’ con frutta, gelatine, ghiaccio, sciroppo chimico e latte condensato). Di fronte a noi una signora e sua figlia divorano enormi cartocci di tofu fritto.

Torniamo nel parco per il dessert: sate buah (‘spiedini di frutta’) con cioccolato fuso. Andiamo a mangiarcelo sotto un pendopo osservando il parco pieno di luci e colori con la grande moschea bianca che si staglia sullo sfondo. L’idea di racchiudere il delirio di macchinine e risciò a forma di Hello Kitty con altoparlanti killer nel parco è geniale. Così non intralcia il traffico cittadino come a Yogyakarta o Sumenep (dove c’era anche il bonus carrozze alate).

I bimbi sfrecciano sui loro mini bolidi andando a gruppi di tre, strombazzando all’impazzata e falciando tutto ciò che trovano sul loro cammino. Ce li vediamo già tra vent’anni sul Ring Road. Una mamma costringe una bimba ad infilarsi un giubbottino imbottito di lana, con trenta gradi. “Questa è una di quelle che andrà in motorino con guanti e giubbotto da neve”, sempre prossimamente sul Ring Road. Finito il giro sulle giostre, la mamma se la lega sulla schiena con un sarung e la porta a casa.

Alun Alun Blitar

Prima di rientrare a nostra volta, ci fermiamo a chiedere informazioni circa la cerimonia dell’indomani mattina. Un pak ci forma che si terrà all’Alun Alun… di Lodoyo, a quattro chilometri da qui. Poco dopo, il receptionist dell’albergo affermerà che i chilometri sono diciannove. Le mappe di Google, del resto, ne riporteranno dieci.