«L’adrenalina è la nostra indennità di viaggio. Tanto vale consumarla in modo innocuo».
(Bruce Chatwin, Anatomia dell’Irrequietezza)
2 gennaio 2015
Balekambang
Recuperiamo tutti i bagagli, carichiamo lo Yamaha e ripartiamo alla volta di Balekambang, altra spiaggia famosa situata ad una ventina di chilometri da Sendangbiru. Prendiamo la strada che molti ci hanno indicato come “baru” (“nuova”) e “sedikit rusak” (“poco rotta”). Il che può voler dire sia che in quanto nuova presenta solo pochi tratti rovinati o che è totalmente in rifacimento e dunque un incubo.
Ovviamente era la seconda. I primi chilometri procedono su un asfalto liscio e sinuoso, incorniciato da panoramici palmizi su risaie con il mare in lontananza. Passiamo una serie di calette incantate, tra palme e scogli dai profili resi ancora più suggestivi dal controluce del sole calante. Vorremmo fermarci a dormire in uno di questi dipinti viventi, sotto qualche pendopo, ma decidiamo di continuare. “Vediamo com’è Balekambang, poi al massimo torniamo indietro”.
Dopo pochi metri la strada comincia a degenerare. Tratti sempre più consistenti di carreggiata sono crollati e sono protetti da blande transenne. La presenza di macchinari pesanti si fa sempre più consistente e blocca la viabilità. L’asfalto lascia man mano il passo ad una fanghiglia sassosa, e siamo da capo a dodici. Non si distinguono più le corsie, non c’è più una strada, i fossi laterali sono ormai dei crepacci e noi ci ritroviamo nel mezzo dell’ennesimo paesaggio spettrale tra cumuli di terra brulla e sagome di alberi minacciosi. Ed eccoci nel successivo girone dantesco.
Come al solito, non pensiamo che tornare indietro sia un’opzione. Quindi cominciamo a trascinare il motorino a piedi sui tratti di strada più impervi. Non c’è luce elettrica, quindi non so dove metto i piedi. Non c’è nemmeno l’ombra di una casa, di un warung o di altri veicoli. Unici segni della presenza umana le escavatrici che giacciono sui giacigli bui come mostri dormienti. Poi, quando credevamo di aver toccato il fondo, eccoci qui: LONGSOR, un bel cartello incorniciato da massi caduti. Dejavù.
Nonostante siamo ormai ben documentati in merito, andiamo comunque avanti trattenendo il fiato, e il motorino. Non abbiamo altra scelta, tornare indietro è ugualmente rischioso. Dopo metri di incubo cominciamo ad intravedere i primi segni di insediamento umano: qualche casa sperduta con un lumino in lontananza. Daremmo qualsiasi cosa, ora, per udire il richiamo di una moschea.
Quando le abitazioni si fanno più vicine alla strada, cominciamo a fermarci per chiedere informazioni. Un pak ci grida dalla sua veranda: “Ancora cinque chilometri per Balekambang, sempre dritto!”. Un altro ci dice la stessa cosa, tre chilometri dopo. Il terzo finalmente riduce la distanza a due chilometri soltanto e menziona una strada asfaltata, che sarà la nostra oasi nel deserto per i successivi tre chilometri.
Quando ormai abbiamo quasi perso le speranze la intravediamo in lontananza: una sottile striscia scura sulla quale qualche motocicletta sfreccia troppo veloce per poter essere su dei sassi. Superiamo il nostro ultimo cratere e ci ritroviamo sull’asfalto liscio. Quasi lo bacerei. La strada scende dritta da un nulla boscoso e ci rientra dopo pochi metri. Unica isola luminosa è la lucina di un warung all’incrocio.
Lorenzo entra a tutta velocità nel piazzale del warung lintas, parcheggia bruscamente e scende imprecando ad alta voce. “Ci fermiamo qua”. In quel momento un anziano signore viene verso di noi dal warung. Parla inglese. Ricomponendoci con calma giavanese, ci sediamo e ordiniamo due caffè. Controlliamo la cartina e notiamo che la strada che abbiamo appena fatto non esiste. Inizia con una sottile linea grigia e termina nel nulla. Se calcoliamo che la guida non è aggiornata, torna il concetto di ‘strada nuova’. La stavano praticamente costruendo per noi. Rimpiangiamo di non esserci fermati a quelle belle spiagge panoramiche. Ci abbiamo messo due ore per fare venti chilometri.
Ci mettiamo a chiacchierare con il pak per riprenderci un po’. Lui è originario di Bali, dove attualmente vivono moglie e figli. Lui non vuole raggiungerli perché, all’età di sessant’anni, si sente ancora in piene forze per poter mandare avanti la sua attività. Ha aperto questo warung non solo come punto ristoro ma anche come officina e pompa di benzina. È un bel punto strategico dove fermarsi per ogni necessità, poco lontano dalla spiaggia turistica, prima di chilometri di nulla.
Molti turisti e viaggiatori si fermano da lui, anche stranieri, afferma con orgoglio. Dice che abbiamo fatto bene a venire oggi a Balekambang. Ieri saremmo incappati nell’orda di camion con dangdut a tutto volume venuti a festeggiare il primo dell’anno. “Ecco, come quello che sta passando”, afferma, mentre un fascio di luce spazza via le tenebre circostanti al ritmo di Aku ora popo (“non me ne frega niente”) della grande Julia Perez.
Chiediamo se date le circostanze sia facile trovare un posto dove dormire. “Altrimenti ci tocca dormire qui”, la butto a ridere ma neanche prendendola troppo come uno scherzo.
“Riuscireste a dormire qua fuori?” ci chiede lui sarcastico. “Certo!” risponde Lorenzo. “Abbiamo i sacchi a pelo, ci serve solo una tettoia sulla testa che ci tenga al riparo dalla pioggia”. Gli raccontiamo del nostro viaggio e delle nostre tappe più improvvisate, dalla stazione Pertamina a casa di Pak Yoyo a Madura. “Di solito gli stranieri non lo fanno” dice, “gli Indonesiani, loro sì, riescono a dormire ovunque, in spiaggia, all’aperto…”. Gli spieghiamo che anche a noi piace, quando è possibile. Solo che la maggior parte delle volte è vietato o troppo pericoloso. Risfoderiamo gloriosi i vari “rawan” e “dibunuh”.
Rimaniamo d’accordo così: se non troviamo niente di decente giù alla spiaggia, torniamo a dormire da lui. Se troviamo qualcosa, torniamo comunque domani mattina per due chiacchiere e un caffè. Ci scambiamo vigorose strette di mano e ci fiondiamo giù nel buio per un altro chilometro, verso la spiaggia.
Dopo aver pagato pegno di 25.000 rupie al casellante di turno, entriamo nella spiaggia più affollata di Giava orientale. La lunga costa è gremita di warung, venditori ambulanti, parcheggiatori, gente ammassata sotto tende e pendopo. Andiamo di malgrado verso l’hotel. Pieno anche quello. L’unica opzione rimasta è quella di noleggiare una tenda per 250.000 rupie e cercare di piantarla in qualche angolino rimasto libero tra un barbecue e una pila di altoparlanti. Torniamo di corsa dal pak. Lui ci riceve incredulo, forse non pensava dicessimo sul serio. Ci accoglie in casa e ci indica una camera nascosta da una porticina di bambù nel retro della bottega.
Gli diciamo che possiamo benissimo dormire in veranda, non è necessario che ci dia la sua camera. Dice che per lui è meglio così. Alle dieci chiude bottega, si stende sulla panca di legno della taverna e si fa un sonno, alle cinque del mattino si veglia e apre di nuovo l’attività. Tra mille remore e rimorsi alla fine accettiamo l’incredibile e commovente ospitalità di un uomo di sessant’anni disposto a dormire su una panca pur di darci accoglienza.
Il pak ci mostra come spegnere le luci e chiudere le imposte di bambù, in caso volessimo dilungarci a leggere o a scrivere nella taverna. In camera non c’è luce. Rinunciamo alle varie attività e diciamo che possiamo dormire subito. In effetti siamo in piedi dalle sei del mattino, abbiamo attraversato a piedi la foresta vergine, nuotato tra tempeste di sabbia e trascinato il motorino all’inferno. Possiamo ritenerci soddisfatti.
Ci mostra la kamar mandi sul retro con aria imbarazzata. Non c’è acqua corrente ed i servizi sono all’aperto, celati da un separé di bambù. Diciamo di non preoccuparsi, non è la prima kamar mandi che usiamo. Prima di congedarci si prende un cuscino e una coperta dalla sua stanza, rassetta qua e là e dà una spruzzata di repellente per insetti. Ringraziamo ancora e ci distendiamo nei sacchi a pelo nella stanza buia. L’arredamento è minimale e pratico, da uomo che vive solo gestendo la sua attività. Un cesto con dei panni, due paia di scarpe, una canna da pesca, pochi oggetti utili appesi alle pareti, una stuoia e un copricapo musulmano.
Finiamo di armeggiare con la torcia a dinamo e cerchiamo di prendere sonno, non riuscendoci affatto. Un po’ è per via dell’orario, per quanto siamo stanchi, sono comunque le nove di sera. Poi siamo pieni di sensi di colpa. Avremmo dovuto prenderci la benedetta tenda e buttarci su un albero giù in spiaggia. Poi si aggiunge l’ansia di ritrovarci in un posto sperduto nel nulla senza che nessuno sappia dove venire a cercarci. Conosciamo quest’uomo solo da un’ora, e Madura ci ha insegnato che non tutta Giava è Yogyakarta.
Ci fidiamo di quest’uomo, ma siamo comunque ‘turisti’, bianchi, pieni di oggetti elettronici e vestiti di marche occidentali. D’altro canto, forse lui ha più paura di noi e si chiede chi glielo ha fatto fare. Lo sentiamo parlare al telefono dal locale adiacente, forse con la famiglia. Smettiamo di preoccuparci e ci rimettiamo giù. Ogni camion che passa ci fa sobbalzare. Quando finalmente prendiamo sonno ci sveglia un frastuono immondo: è scoppiato un temporale tropicale. Sembra che stiano piovendo sassi sul tetto, andrà avanti tutta la notte.
Ci immaginiamo in questo momento chiusi in una tendina tra il panico generale giù in spiaggia e ringraziamo i santi giavanesi che ci hanno mandato l’ennesimo angelo custode.