Jalan Jalan

Capitolo 19 – Pulau Sepu

«The great wall of vegetation, an exuberant and entangled mass of trunks, branches, leaves, boughs, festoons, motionless in the moonlight, was like a rioting invasion of soundless life, a rolling wave of plants, piled up, crested, ready to topple over the creek, to sweep every little man of us out of his little existence».

(Joseph Conrad, Heart of Darkness)

2 gennaio 2015

Sendangbiru

Ci alziamo alle 6.00 consapevoli di ciò in cui ci stiamo imbarcando. Sul pianerottolo ci sono i due mas che dormono su due materassi buttati per terra tra le poltrone del salottino. Potremmo farci tante domande, tipo “perché non dormono con le fidanzate” o “perché non dormono sul divano”, ma non ce le facciamo.

Scendiamo al piano terra e avvisiamo la ibu che stiamo andando a Pulau Sepu, torneremo a riprenderci i bagagli nel pomeriggio. Accompagnata da un cenno inconfondibile con la mano pronuncia uno schiettissimo: “bayar dulu” (“prima i soldi”). Poi ci chiede se vogliamo del tè caldo. Mentre annuisco la vedo avvicinarsi a due centimetri dai nostri volti. Mi fissa: “kamu cantik” (“tu sei carina”). Si gira verso Lorenzo: “kamu ganteng” (“tu sei carino”). “I vostri figli verranno bene”.

Fuori all’ufficio turistico c’è ancora più gente di ieri accampata con attrezzature che noi non abbiamo. Il pak ci accoglie con la stessa verve di ieri e ci dice di attendere la guida. Ci sediamo fuori tra gli altri escursionisti. Alcuni si infilano gli scarponcini, altri stanno per entrare in una giungla vergine in infradito. E il nostro problema era la torcia. In generale, se togliamo zaini e tende che fanno la loro figura, la maggior parte di loro ha un abbigliamento inadeguato: vestitini, camicette di jeans, berretti di lana.

Quando arriva la guida il pak glielo mette subito in chiaro indicandoci: “i turisti con te”. Come se non capissi. Come se gli indonesiani qui con noi non fossero anche loro turisti. Entriamo in ufficio a firmare il foglio di responsabilità (il famoso izin, “permesso”) e molliamo le prime 20.000 rupie. Il pak ci conduce al porto, dove sganciamo al barcaiolo altre 130.000 rupie, di cui non si era fatta menzione. Ci ritroviamo soli con la guida, gli altri indonesiani sono spariti, persino la coppia di ieri non si è vista.

Montiamo sulla barchetta a motore in legno variopinto che ci porterà sull’isola. Durante la brevissima traversata (cinque minuti massimo) uno dei nostri marinai rimane per tutto il tempo attaccato a poppa, a rilasciare i suoi bisogni in mare.

Attracchiamo ad una spiaggetta sporchissima dall’acqua color marrone e rifiuti galleggianti, ritagliata da un tripudio di vegetazione selvaggia. La guida ci dice di scegliere: sentiero standard di due chilometri fino alla spiaggia o sentiero con tappe intermedie di cinque chilometri. Quest’ultimo viene 150.000 rupie invece che 100.000. Neanche abbiamo iniziato l’escursione e già abbiamo speso più del doppio di quanto preventivato. Come ci muoviamo escono nuove tariffe. Già che ci siamo scegliamo il sentiero lungo, tanto sentiamo che in qualche modo gli altri soldi ce li estorceranno comunque.  Il barcaiolo ci dice di segnarci il suo numero di telefono, scritto su una targhetta in legno appesa alla barca, dovremo chiamarlo noi al ritorno.

Bolidi in partenza
Salpati
Il barcaiolo
Barcaiolo su mangrovie
L’attracco

Muoviamo i primi passi sul sentiero in un tripudio di fango. Il primo chilometro è essenzialmente guadare una sottile striscia di fango tra muri di vegetazione. Ci appendiamo a qualsiasi cosa per non cadere. Abbiamo comunque già sporcato tutto quello che poteva essere sporcato quindi ci facciamo poche remore e cerchiamo di non slogarci qualcosa. La guida ci fa notare tracce di maiali selvatici sul sentiero con più entusiasmo del dovuto.

La prima tappa vale quasi la pena di tutte le peripezie compiute finora. È una meraviglia. È una caletta incastonata tra pareti di roccia con sabbia bianchissima e conchiglie enormi sparse ovunque. L’acqua è calma e cristallina. Chiediamo se possiamo fare il bagno. No, ci sono le aragoste che pizzicano.

Ci mettiamo a prendere il fresco sotto a un albero con la vista celestiale davanti e qui la guida ha una rivelazione siddhartiana: è cristiano cattolico. Quando gli diciamo che tecnicamente lo siamo anche noi è al settimo cielo. Comincia quindi un sermone in cui ci rivela che prima a Sidoharjo e Sendangbiru erano tutti cattolici, poi sono arrivati i musulmani e le cose sono cambiate. È per questo che in queste zone si trova sempre un warung dove mangiare carne di maiale, alcune usanze persistono. Ci rivela che non sopporta il suono onnipresente della moschea dalla sera al mattino.

Prima di lasciare la spiaggia ‘collezioniamo’ testimonianze. Mentre Lorenzo attiva il Tascam per raccogliere suoni, io raccolgo conchiglie. Ho i miei dubbi sulla legalità della faccenda, ma la guida continua a dirmi “bisa, bisa” (“puoi, puoi”) tutto sorridente. Anzi, dopo un po’ si mette ad aiutarmi anche lui e riempiamo una busta sana.

Quando rientriamo nel folto della foresta il sentiero diventa più facile. Ora è in piano e senza fango, solo un tappeto di foglie colorate. Continuiamo a proseguire fiancheggiando la costa, accompagnati dallo scroscio dell’acqua. Le tappe successive sono altre due spiaggette minuscole incastonate tra alte scogliere. Piccoli gioielli racchiusi in metri e metri di roccia con le acque cristalline del mare che vi si infrangono lasciandosi dietro ogni ben di Dio. Io raccoglierei l’isola intera.

La quarta spiaggia è un po’ meno amena. Tra i residui dei flutti marini spicca qualche traccia umana, tipo una bottiglia di anggur merah (vino rosso indonesiano). Eppure per arrivarci riprendiamo la parte selvaggia del sentiero, la guida apre la strada letteralmente a colpi di machete. Prima della spiaggia c’è anche uno dei due laghetti, in cui possiamo ripulirci sommariamente dal fango. Pare che sia uno dei punti preferiti dai campeggiatori, per via dell’acqua potabile del lago. Notiamo tracce di barbecue che furono, con testimonianze di paguri arrostiti, e qualche infradito seminata qua e là.

Ci ricongiungiamo al sentiero principale, recuperando in un attimo tutto il fango lavato via, e incontriamo un altro gruppo di escursionisti, una decina di giovani indonesiani. La loro guida è un tipo singolare: un profumo fortissimo che atterrerebbe un cinghiale, continua ad appendersi ai rami e ad improvvisare balletti e goliardici agguati alla nostra guida spuntando dalle frasche a tradimento. Ce lo portiamo fino all’ultima tappa, il lago salato che è il cuore dell’isola.

Ci si arriva tramite un sentiero a picco la cui unica possibilità di sopravvivenza è aggrapparsi alla roccia con quanta meno dignità possibile. È la meta principale che ricongiunge tutti i sentieri, e difatti è parecchio affollato. Ovviamente, la sottile striscia di terra scavata nella roccia a picco sul lago è l’unica via di accesso e di uscita, dunque ci sono gruppi che salgono e gruppi che scendono ad intralciarsi a vicenda. Le possibilità di fare un tuffo diretto nel lago sono altissime.

Quando posiamo finalmente l’ultimo piede sulla sabbia, lo spettacolo che ci si apre davanti è un paradiso. La spiaggia fa da anticamera ad un’enorme piscina naturale di un limpido blu-verde racchiusa tra pareti rocciose ornamentate dalla vegetazione rigogliosa. Sul lato orientale della piscina vi è un’apertura nella roccia, dalla quale l’acqua dell’oceano entra sottoforma di piccole rapide. Notiamo con piacere che c’è gente che fa il bagno vestita.

Tempo di parcheggiare guida e bagagli all’ombra e ci buttiamo subito anche noi. Mentre Lorenzo può sfoggiare il look ‘mutande e basta’ in virtù della sua coppia di cromosomi XY, io devo accontentarmi della full experience ‘bagno vestita’. Mi levo solo i pantaloncini di jeans per tenermi almeno un indumento asciutto e mi getto in intimo, leggins e maglietta di cotone a maniche lunghe nell’acqua tiepida. Il fondo è sabbioso fino ad un certo punto, poi diviene roccioso.

Peccato ci sia un vento fortissimo che alza secchiate di sabbia, il che ti costringe a rimanere in acqua per non morire di freddo e per non venire lapidato da schicchere di granelli dorati. Dopo un’oretta trascorsa in questo bagno di benessere ci rimettiamo in marcia, io totalmente zuppa e ricoperta di sabbia come una cotoletta alla milanese. Ho anche perso un calzino, ma ne è valsa la pena.

Spiaggia a forma di spiaggia
Verde e azzurro
Terra all’orizzonte
Guida e frangiflutti
La potenza del mare
Dettagli isolani
Tracce umane
Piscina naturale
Tempo di vacanza
Sentiero su dirupo bonus scolaresca contromano

Facciamo amicizia col pazzo che guida l’altro gruppo, anche lui cattolico, originario di Sulawesi. Ci lascia il suo contatto per escursioni future. Arrivati ad un bivio ci separiamo a malincuore. La nostra guida ci avvisa: dobbiamo percorrere tutto a ritroso, circa due ore di cammino. Entro le cinque dobbiamo essere alla cloaca su cui siamo attraccati o il barcaiolo se ne va. Pure, con quello che lo abbiamo pagato.

Il sentiero sembra anche peggio dell’andata. Continuiamo a scivolare reggendoci per miracolo a tutto quello che ci capita sottomano. Provo persino l’incontenibile emozione di lanciarmi da una liana. Finisco comunque nel fango ma andava fatto.
Dopo un’ora e mezza siamo coperti di melma fino sopra alle ginocchia e abbiamo finito le scorte di acqua. La guida ci invita a sederci su un tronco e fare una pausa. Mancano ancora trenta o quaranta minuti di cammino.

Mentre siamo lì fermi, un altro gruppo attraversa il sentiero. La loro guida continua a fare apprezzamenti di cattivo gusto sul didietro di una ragazza in carne che arranca in fondo alla fila, ripetendo “bagus, bagus!” (“buono, buono”).

Riprendiamo il cammino e concludiamo in bellezza con il numero finale.

Ci mancano pochi metri alla fine del sentiero quando sento Lorenzo da dietro le mie spalle produrre un crescendo di urla dallo stupore al terrore:

“Oh”

“Ohh”

“OHHH!”

Segue rumore di cocci infranti.

Mi giro e vedo lui a terra con espressione scioccata, circondato da conchiglie rotte. Poco più in là una scimmia digrigna i denti, e Lorenzo le risponde soffiandogli come fosse un gatto. La guida si sganascia dalle risate.

Chiedo delucidazioni. Lorenzo spiega: “Ho visto all’improvviso questa grossa cosa davanti a me e ho pensato ‘Oh, un gatto’, ‘Ohh una scimmia’… ‘OHHH una scimmia!’. E in quell’istante lei ha digrignato i denti e mi è saltata in faccia. Si è aggrappata ai pantaloni con le zampe inferiori mentre con quelle anteriori cercava di strapparmi la busta di conchiglie. Ho cercato di difendermi”.

L’isola si è ripresa i suoi tesori, e lo ha fatto prepotentemente.

Arriviamo finalmente all’attracco pestilenziale da cui siamo partiti, decisamente più sporchi e provati, Lorenzo ancora in shock post-traumatico da aggressione. La guida ci esorta: “mandi, mandi” (“lavatevi”), indicando l’acqua putrida. Non abbiamo nessuna intenzione di immergerci tra i rifiuti tossici.

La scimmia ricompare brevemente a bordo giungla per porgerci i suoi omaggi, acchiappa qualche rifiuto e sparisce tra il fogliame. Anche la guida matta ricompare, e dato che ha deciso che mi chiamo Cassandra (ma lo aveva deciso sin dall’altra spiaggia), butta una voce al suo gruppo: “Cassandra is back!”.

Tentiamo più volte di chiamare il nostro barcaiolo senza successo. Poi lo vediamo ricomparire dopo aver scarrozzato un altro gruppo. Non diciamo niente o rischiamo di pagare anche il loro viaggio. Raggiungiamo la terra ferma appollaiati a prua, dato che la poppa apparentemente è la toilette.

Appena siamo a terra andiamo a caccia di acqua e bibite energetiche. Sono le tre del pomeriggio passate e le uniche cose che abbiamo in corpo sono sei wafer al cappuccino e cinque patatine.

Avremmo dovuto seguire l’esempio degli indonesiani e portarci appresso pentoloni di riso e pacchi di noodles precotti. Makan dulu. Voglio tatuarmelo.

Offriamo da bere alla guida, gli diamo il dovuto prima che escano spese extra e torniamo dalla ibu a recuperare i bagagli.

La moschea è sempre in piena attività, oggi è il turno delle donne, che cantano in cori distorti da altoparlanti poco performanti. È quasi una traccia dubstep.

Dopo una mega sessione di mandi con pentolino collettivo nel bagno della guesthouse ci fiondiamo al primo warung che troviamo nella piazza principale. Ceniamo con nasi goreng con extra uova e pollo e caffè nero. Rimaniamo a sorseggiare il caffè incantanti dalle mani velocissime della ibu che riesce a preparare cinque uova fritte assieme senza farle attaccare mentre maneggia dieci porzioni di riso in piatti diversi, ripetendo movimenti rapidi e meccanici. Potrebbe farlo ad occhi chiusi.