«In Indonesia, where it seemed that dangdut shaped the soundscape of urban life: in buses and taxis, roadside food stalls, nightclubs, karaoke bars, and luxury hotels, and on television and radios at home. In 2006, an informal survey of weekly television programming showed that 29 out of 43 music programs were devoted exclusively to dangdut (67%), while another calculation showed that dangdut could be viewed on television nearly ten hours per day. Clearly dangdut was one of the most—if not the most— popular music on television».
(Andrew Weintraub, Dangdut Stories: A Social and Musical History of Indonesia’s Most Popular Music)
1° gennaio 2015
Ore 21.00
Sendangbiru
Carichiamo i bagagli sullo Yamaha e cominciamo a scaldare il motore. Quando sono lì, lì per girare la manopola dell’acceleratore, i ragazzi alla reception realizzano che ce ne stiamo andando e si informano sul nostro percorso. Come al solito, partono complimenti a Lorenzo per la sua incredibile forza nel portare il motorino da solo per tutti questi chilometri. Ogni tentativo di ribadire il mio contributo alla guida non è preso seriamente.
La nostra prossima destinazione è la spiaggia di Sendangbiru, ad una cinquantina di chilometri da Malang. Per evitare di perderci, puntiamo intanto a raggiungere la località di Duren, poi penseremo a come trovare la spiaggia. Ci sentiamo astutissimi.
Il nostro primo informatore sulla strada ci riporta alla realtà:
“Dove si va per Duren?”
“Durian? Volete della frutta?”
Come non detto, questo non l’avevamo calcolato. “duren” è la pronuncia locale di durian, il noto frutto dall’odore tremendo.
Alla fine in qualche modo usciamo dal tremendo labirinto di gag linguistiche e appuriamo che siamo sulla giusta via.
La strada sembra inizialmente piatta e abbastanza monotona. L’unica traccia umana rilevata è una tizia che siede sul motorino a bordo strada, da sola, a gambe incrociate. Poi tutto cambia: realizziamo che stiamo salendo sul fianco di un pendio col motorino che arranca ad ogni curva. In men che non si dica ci ritroviamo nel solito luna park di saliscendi immersi nella folta vegetazione. È la classica strada di montagna stretta e tortuosa, quelle strade che sono anche piacevoli se sei solo tu a percorrerle, quelle in cui solitamente preghi che non ti spunti un camion davanti.
Noi lo troviamo subito, e anche ben fornito.
Non si sa da dove, come per magia, compare un mostro corazzato di altoparlanti che sputano pop e dangdut a massimo volume, con un gruppo di giovani indonesiani che si sbraccia dal parapetto. L’intera vallata è inondata dalla febbre del sabato sera su ruote che incede lentissima, bloccando tutta la carreggiata, mentre altre macchine e motorini cominciano ad affastellarsi in una coda infinita.
La fila cresce, i clacson lacerano prepotentemente il silenzio della giungla tropicale, e i giovani continuano a godersi le ultime hit ballando sul tetto del camion, qualcuno intento a cantare a squarciagola pericolosamente inerpicato sugli altoparlanti. Il tormentone da spiaggia del giorno è: “macarella macarella baila baila bella bella” sulla melodia remixata di Sakitnya tuh disini (“il mio dolore è qui”) della grande Cita Citata. Arriveremo in spiaggia probabilmente tra ore, ma lo faremo con stile.
Superare il disco-camion è impossibile, anche perché la strada, già insufficiente per un senso di marcia, è doppio senso. Dall’altra direzione provengono orde di motorini con gruppi di minimo tre persone ciascuno, su alcuni ci sono famiglie intere con bagagli. Qualche altro camion tipo il nostro comincia ad intravedersi all’orizzonte. Stesso modello, stesso utilizzo: impianti stereo colossali eretti tipo tempio di Moloch con anime festanti al ritmo di trash transculturale. Mi sento intrappolata in una serie di dejavù dalla mia adolescenza: è un mix tra il carnevale di Ronciglione e il gay pride.
Sembra una situazione senza via d’uscita. Alcuni sono ricorsi a pit stop d’emergenza a bordo strada, intenti a riparare motorini stremati dal sovraccarico e dalle ripartenze in salita, e a rinfrescarsi nei ruscelletti. Altri non ce l’hanno fatta e trascinano i fardelli a due ruote tipo Sisifo, sotto al sole cocente aiutati da pochi volenterosi soccorritori. È l’ennesimo girone dantesco, ci chiediamo a quale siamo arrivati.
Approdiamo finalmente ad uno slargo, dopo un bivio, e intravediamo i volti salvifici dei venditori ambulanti. Ci fermiamo tra altri gruppi di gente stramazzata all’ombra dei warung e ci mangiamo due pannocchie bollite (jagung rebus). Prima di rimetterci in marcia chiediamo informazioni alla ibu che ci informa che mancano soli dieci chilometri alla spiaggia di Sendangbiru, ma dobbiamo “naik sedikit” (“salire un po’”). Ancora. Lasciamo l’oasi di ristoro sulla scia della reclame del FATIGON (una nota marca di integratori locali) che si fa beffe di noi.
Dopo l’ennesimo bivio succede un’altra magia: tutti prendono una deviazione e rimaniamo solo noi sull’asfalto cocente in totale silenzio. L’effetto è un po’ Alice nel Paese delle Meraviglie, sono spariti tutti, brucaliffi, capellai, stregatti ed eserciti di carte. Poco dopo siamo alla spiaggia. Ci rimaniamo un po’ male: trattasi di porto con pittoresche barchette colorate ormeggiate, alcune mezze affondate. La strada all’ingresso della “spiaggia” è come al solito piena di warung e angkringan, oltre che il solito casellante che ci estorce 24.000 rupie (“un fiorino”).
Stavolta ci trasciniamo il motorino fino a riva e lo molliamo di fronte alle barche, rimanendo alcuni minuti a guardarci attorno confusi. Altre macchine, motorini e camioncini continuano ad arrivare. Prima di imbatterci nelle solite pantomime con gli scambi di informazioni decidiamo di consultare la mappa e capire dove abbiamo sbagliato. Lo vediamo subito: la nostra spiaggia balneabile era circa tre chilometri fa, dove aveva girato tutta la gloriosa parata. Ci prendono i sudori freddi solo al pensiero del possibile scenario. Poi ci viene una sorta di epifania joyciana osservando il verdeggiante isolotto, Pulau Sepu, che galleggia nell’oceano di fronte a noi.
Secondo la guida è possibile raggiungerlo con imbarcazioni a noleggio. Parto in ricognizione. La mbak di un chiosco di bevande mi consiglia di chiedere qualcosa che suona come “ijen” alla stradina a fianco. Mi infilo nel vicolo e mi trovo davanti ad un ufficio turistico. Dentro, vengo accolta dal solito pak con baffi da manuale e aria sarcastica. Fuori l’ufficio sono riuniti gruppi di giovani con zainoni, scorte ed equipaggiamento da camping.
Chiedo al pak come funziona per raggiungere l’isola.
“Per una notte?”
“Si”
Ci pensa.
“Quante persone?”
“Due”
Sguardo inquisitorio.
“Chi?”
“Io e… mio marito”
Non ci crede, lo so.
“Dov’è?”
“Al parcheggio”
Sorride pensieroso.
Silenzio.
“Ho capito, vado a chiamarlo… tunggu”
Quando Lorenzo mette piede nell’ufficio il volto del pak si distende. Ora cominciamo a ragionare, si parla da uomo a uomo. Io mi metto buona in un angolo a fare l’interprete, il che non va affatto a favore del tempo e della chiarezza ma senz’altro salva il buon costume.
“Avete una tenda?”
“No”
Sorriso beffardo.
“Avete una torcia?”
“No”
Altro sogghigno.
“Quindi che volete fare?”
Dopo estenuanti minuti di interrogatori in traduzione simultanea capiamo che non possiamo andare sull’isola di notte senza l’attrezzatura adeguata. Sarebbero bastati cinque minuti e molto meno sarcasmo.
Dato che è comunque giavanese, vedendoci contrariati si muove a compassione e decide di spiegarci meglio la situazione. Ci apre una cartina sul tavolo e ci mostra il territorio dell’isola: si tratta di un lembo di terra disabitato dall’uomo, composto quasi interamente di foresta vergine, con due laghi salati al centro. Per andarci è necessaria una guida, che costa 250.000 rupie, e l’attrezzatura necessaria. Inoltre, data la stagione, potrebbe piovere. In quel caso ci ritroveremmo a sguazzare tra il fango e le mangrovie.
Ci propone un’alternativa diurna: se ci facciamo trovare qui domani mattina alle 7.00 può portarci a fare un’escursione di mezza giornata, fino alle tre del pomeriggio, per un costo di 100.000 rupie. Possiamo passare la notte ad una guesthouse su al villaggio. Accettiamo l’offerta.
Mentre siamo intenti a disincastrare il motorino da fango e sassi, una ragazza con il velo si avvicina e ci chiede se vogliamo andare sull’isola. Vuole aggregarsi anche lei col suo ragazzo. Diciamo che non ci sono problemi, magari ci si dimezza anche il costo. Ci dirigiamo alla guesthouse.
Contrariamente alle aspettative, la guesthouse è un gioiellino. Sorge di fronte alla moschea del villaggio ed è gestita da una ibu ben piazzata con tanto senso dell’umorismo. Qui l’ironia è proprio di casa. Paghiamo 200.000 rupie per una stanza al primo piano ben riverniciata, con ventilatore a muro (niente soluzioni fai-da-te) una TV e una finestra con una vista panoramica sul villaggio. Il bagno è sul pianerottolo, in comune con le altre stanze. Sempre sul pianerottolo ci sono un tavolo, un divano in buono stato e due maestose poltrone, e persino un balcone con vista panoramica da cui entra aria fresca.
Abbiamo sottovalutato la poltronissima sulla moschea. Alle 18.00 in punto l’imam parte in direttissima e arriva in camera nostra con effetto Dolby 5.5. Continua così per un’oretta, accompagnato man mano da altre preghiere di altri imam in lontananza in effetto cacofonico. O ci convertiamo, o usciamo. Optiamo per la seconda. Mentre vaghiamo raminghi per le strade di villaggio in cerca di biscotti o simili per la colazione, le voci delle moschee continuano ad accompagnarci in un continuum sonoro. È letteralmente un bagno di voci.
Ripercorriamo la stradina ripida dell’andata, immersa nel buio. Qui senza generatori non si vede una luce neanche in lontananza. Un motorino ci sfreccia vicino mentre un tizio ci urla qualcosa a squarciagola, facendoci prendere un colpo. Torniamo subito nella zona illuminata e ci infiliamo nella prima attività commerciale che sembri tale. Un’altra simpatica ibu, non meno carismatica dell’altra, ci accoglie baldanzosa. Compriamo i nostri Tango al gusto cappuccino e chiediamo se ci sia un warung aperto.
“Questo è un warung!” Risponde con aria indignata e divertita al tempo stesso.
“Cosa possiamo mangiare?”
“Soto ayam”
“Non quello alla madurese vero?” ci affrettiamo a chiedere allarmati.
“Assolutamente no! Qui non cerchiamo mica cose strane”
Ci convince.
Poco dopo siamo davanti al miglior soto ayam della storia. Una scodella enorme di brodo di pollo in cui sono chiaramente distinguibili tutti gli ingredienti: dalla verza tagliata a listelli, alla cipolla all’uovo ai pezzi di filetto di pollo. Ce lo gustiamo pieni di gratitudine verso Giava orientale e la sua cucina, pensando ai tempi bui di Madura.
Mentre mangiamo, un’altra ibu entra e comincia a parlare di soldi con la nostra ibu, nel dialetto locale. Mentre sta per porgerle una banconota da 10.000 rupie, è blackout totale. Finiamo di bere il nostro tè freddo nell’oscurità rischiarata solo da una flebile lampada al neon d’emergenza. Le voci della moschea divengono ancora più forti, ora c’è anche un tamburo.
Quando usciamo la ibu ci canzona: “Cercate ancora la zuppa di Madura?”. La assicuriamo che la sua è la migliore mai mangiata. Sembra contenta. Prima di rientrare alla guesthouse decidiamo di passare alla moschea. Tanto ci siamo comunque già dentro anche non volendo, ovunque andiamo.
Ci mettiamo ad osservare dall’esterno, attraverso le grate. All’interno si intravedono bambini e bambine intenti a cantare e suonare tamburi e tamburelli. Una donna seduta nel porticato con una bimba fa cenno di avvicinarci.
Rimaniamo un po’ con lei ad osservare quello che accade all’interno, poi Lorenzo non resiste e tira fuori la videocamera. La donna si offre di entrare e fare le riprese per noi. Poco dopo la nostra nuova reporter d’assalto torna con minuti di preghiere filmate nei dettagli. Gli chiediamo se oggi sia una ricorrenza particolare, dato che pregano da tre ore ininterrotte. Lei ci risponde semplicemente “sholat”.
Tornati in camera scopriamo nuovi problemi con la TV: non si accende. Chiediamo soccorso alle due giovani coppie che hanno occupato la stanza a fianco (quattro in una stanza con un unico materasso, in pieno stile indonesiano). Neanche loro riescono a fare nulla, quindi non ci rimane che chiamare la proprietaria. Lei ci piomba in camera con la solita baldanza, monta sul letto con non-chalance calpestando tutto ciò che c’è sopra, inclusa la fotocamera, e in meno di tre minuti la fa funzionare. I mas della porta a fianco sono esterrefatti. Ibu 10: Patriarcato 0.
Lei esce di scena con la solita battuta sarcastica e ci lascia ai nostri programmi. Il mas torna da compagni e consorte in un tripudio di risate e snack chimici. Noi ci mettiamo comodi pronti ad imbarcarci in qualche maratona di trash. Ed è lì che torna il blackout.