Jalan Jalan

Capitolo 17 – Tahun Baru

«Tutti ci guardano: siamo alieni, idioti che vengono a cercare a est invece di starsene al caldo a ovest ».

(Paolo Rumiz, Trans Europa Express)

31 dicembre 2014/ 1° gennaio 2015
Malang

Verso le 18.30 usciamo a fare un giro verso la piazza del monumento cittadino (che dove vai vai si chiama tugu), anche per smaltire il martabak che pesa sui nostri stomaci quanto sulle nostre coscienze. I preparativi per capodanno sono già iniziati: metà della rotonda è chiusa al traffico, ci sono già motorini che scorrazzano qua e là con assordanti trombette e clacson. Il parco attorno al tugu è già circondato da angkringan che vendono jagung manis (pannocchie dolci), tofu fritto ripieno, noccioline, sate, bakso e altre tra le più famose leccornie favorite dagli indonesiani.

Davanti al municipio (balai kota) c’è un palco allestito. Sembra ci sia davvero un concerto. Tutto intorno è pieno zeppo di polizia. Facciamo una passeggiata per i viali del parco, fino al laghetto di ninfee al centro del quale sorge la piattaforma del tugu. Anche nei dintorni del lago cominciano gli allestimenti e si intravedono i preparativi per i fuochi di mezzanotte.

Ogni minuto che passa il parco sembra più gremito. La maggior parte delle persone indossano abiti musulmani, come fossero appena usciti dalla moschea. Le donne hanno lunghi veli coprenti e gli uomini bianchi pastrani e copricapi neri.

Per levarci momentaneamente dalla folla andiamo a curiosare nell’Hotel Tugu, a cinque stelle, il cui edificio fa concorrenza al palazzo governativo adiacente.

Un cartello attrare la nostra attenzione: PHANTOM OF THE OPERA JAWA. Sarei proprio curiosa di vedere la versione giavanese. Seguendo poster e cartelli arriviamo all’ingresso di quella che sembra essere una collezione privata. Ci accoglie una receptionist: “Italiano?”. “Si”. “Piacere”. Benissimo. Chiediamo se possiamo fare un giro ma non è possibile visto che sta iniziando ora lo spettacolo, riservato ai clienti dell’hotel. Uscendo buttiamo un’occhiata al menu: cucina italo-giavanese, solo il pollo costa un milione e mezzo di rupie, uno stipendio di un insegnante.

Corriamo al nostro prezioso, modesto, Inggil, alla cara Jalan Elefante. L’atmosfera del posto e tutte le facce delle maschere e le marionette che ci guardano dalle pareti ci fanno sentire subito a nostro agio. Siamo immersi nel tempo doeloe e nei suoi cimeli. Vecchie targhe scolorite invogliano ad acquistare prodotti locali: birra keris, sigarette kretek! Gli apparecchi radiofonici di qualche decennio fa decorano ogni angolo del locale vastissimo, coi suoi soffitti altissimi in bambù intrecciato alla maniera tradizionale.

Statue in legno di personaggi del wayang separano le diverse aree del locale: le lunghe file di tavoli con le sedie nella navata centrale, la cucina in una delle navate laterali e in quella opposta una fila di tavolini rialzati con stuoie di bambù, per sedersi a terra, all’indonesiana. Optiamo per uno di quei tavolini aggiungendo un ulteriore tocco indonesiano: l’attacco del carica batterie del cellulare ad una delle prese. Ordiniamo calamaretti fritti, calamari in salsa piccante col tempe, melanzane arrosto, verdure, riso bianco e due succhi di frutta fresca.

Il cameriere insiste per portarci porzioni di riso che basterebbero per quattro persone, ogni tentativo di resistenza è vano. Il riso è proprio una cosa di cui non puoi fare a meno di rimpinzarti, lo prendono quasi come un fatto personale. I nostri stomaci già vessati dal martabak portano a casa l’ennesimo ricco pasto. Del resto, è l’ultimo dell’anno. Ci complimentiamo con il cameriere. Lui per tutta risposta ci rifila sorridente una serie di luoghi comuni: Venezia, Totti, AC Milan, e via dicendo.

Nel ristorante non siamo gli unici stranieri. C’è un gruppo di turisti a forma di turisti, soprattutto ragazze, i cui shorts e canottierine fanno passare momenti difficili alle donne velate con rispettivi mariti. Il cameriere per poco non si fa venire il torcicollo.

Ad un certo punto inizia il numero di danza, come ci era stato promesso. Sul palco in fondo alla sala una danzatrice in abiti giavanesi tradizionali fa il suo ingresso con le tipiche movenze della danza gambyong, meno lenta del solito. Del resto, ha quindici minuti, con i ritmi consueti non riuscirebbe nemmeno a fare l’inchino iniziale. Finito il numero esce dal palco e ripercorre la sala nascosta da pannelli di bambù finché non sbuca vicino l’entrata principale ancora intenta a levarsi i vari orpelli. Quando finisce di levarsi l’acconciatura realizzo che è la cassiera.

Prima di andarcene ci fermiamo ad ammirare ancora una volta tutti i cimeli appesi alle pareti. Io non riesco a scollarmi da una teca di antiche marionette di Giava orientale, datate un centinaio di anni. Lasciamo il locale sulle note di un pericolosissimo karaoke inaugurato da una cover indonesiana di Besame Mucho.

Wayang
La cena è servita
Inggil

Tentiamo di andare a posare il motorino in albergo evitando la piazza del tugu come la peste ma rimaniamo comunque bloccati in un ingorgo micidiale attorno l’Alun Alun: un imbuto di macchine, becak, angkringan e motorini strombazzanti senza apparente soluzione. Quando finalmente riusciamo a raggiungere l’albergo a passo d’uomo segreghiamo il motorino nel cancelletto e non ci pensiamo più. Posiamo tutti i beni di valore e riempiamo le borse solo di birre e snack.

Uscendo troviamo la sala comune gremita di gente. Il tappeto è imbandito con ogni ben di Dio. Il receptionist ci informa: “Keluarga besar hotel!”. La grande famiglia dell’hotel riunita ad attendere l’inizio del nuovo anno.

Ci avviamo a piedi nel crescente tripudio di ingorghi e strombazzamenti. Raggiungiamo il piazzale del tugu già gremito di famiglie e coppie sedute a terra con cibi e bevande. L’occhio mi cade subito sulle stuoie distribuite dai venditori ambulanti, sulle quali intere famiglie bivaccano felici: graziosi collage di pacchetti di bevande, patatine e saponi segnano un punto nella storia del riciclaggio indonesiano.

Sul palco ci sono file di uomini in pastrani bianchi assorti ad ascoltare prediche dei leader religiosi che si alternano al microfono. Credendo che si tratti di una sorta di introduzione al concerto, ci sediamo anche noi. Su un maxi schermo vengono proiettate immagini della città di Malang. Un venditore di tofu fa lo slalom tra le stuoie gridando: “Tahu dua ribu!” (tofu per sole duemila rupie!) sovrapponendosi con effetto straniante alla voce narrante dello schermo che ci introduce negli anni duemila (“dua ribu…”).

Quando vediamo che la faccenda va per le lunghe, e comincia anche a piovere, decidiamo di sgattaiolare via e andare verso l’Art Center, sperando nel famoso concerto metal. Uno dei leader nel frattempo si infervora su qualcosa circa il risveglio religioso e il prestigio morale di Malang e ripete forsennatamente la parola martabat (‘dignità’), la cui assonanza con martabak mi riporta inevitabilmente ai fasti del pranzo.

Scendiamo per Jalan Majapahit e ci imbattiamo in tutt’altra atmosfera. Un turbinio di giovani in motorino con felpe di gruppi metal sembrano in attesa di un evento. Forse stavolta ci siamo. Perlustriamo i dintorni ma non vediamo ombra di palcoscenici. L’Arts Center e il taman rekreasi sono bui e deserti. Ci fermiamo a chiedere ad un tipo losco ai margini del parco, che ci informa che il concerto è stato annullato. Chiedo se talvolta sia stato sostituito con qualche altro evento degno di nota. “Preghiamo il nostro Dio”, è la risposta. Improvvisamente il tipo diventa sospettoso e comincia a farci domande inquisitorie. Dopo aver appurato che siamo una coppia di musicisti medio-orientali sposati, ci concede il rilascio sulla parola.

Quando torniamo al parco del monumento cittadino il sermone è finito, la piazza si sta svuotando e le macchine della polizia cominciano a defluire su Jalan Majapahit. Ci fermiamo a chiacchierare con dei giovani seduti sul prato, che sono ancora convinti che ci sia un concerto. Dato che è ancora presto, decidiamo comunque di aspettare la mezzanotte in piazza. Ci accomodiamo su un muretto e tiriamo fuori snack e alcolici. Presto il cielo sopra il tugu si riempie di esplosioni colorate e tutti gli occhi si volgono verso l’alto. Allo scoccare del nuovo anno nessuno – tranne noi – si lancia in profusioni di affetto verso amici e congiunti. Tutti rimangono molto composti.

Tutti, tranne un gruppo di ragazzotti che comincia a tirarci bucce di noccioline, forse infastiditi dai nostri abbracci. Basta un’occhiataccia per farli battere in ritirata. I fuochi si fanno sempre più intensi accompagnati da un climax sonoro ascendente di clacson e trombette finché, raggiunto il culmine, tutto cessa in un silenzio assordante. Niente conto alla rovescia, il 2015 è entrato prepotentemente. Un orgasmo raggiunto da casti neo-sposi il cui dovere di procreazione è stato assolto e ora si affrettano a ricomporsi. Tutti si sbrigano a rincasare, e buonanotte ai suonatori.

In men che non si dica gli addetti hanno smontato il palco, la strada è riaperta al traffico, i venditori ambulanti si sono dissolti, come se nulla fosse mai accaduto. Pochi giovani rimangono appollaiati sui motorini a parlottare, senza musica, alcol o altri apparati celebrativi. Torniamo in albergo anche noi seguiti da occhiate curiose.

Ci svegliamo alle 10.00 di un afoso primo gennaio dell’anno 2015, senza traccia dei consueti hangover, ricordi lontani di una vita nei climi temperati, con la consapevolezza di aver trascorso l’ultimo dell’anno ad un raduno musulmano, unici occidentali corredati di alcolici e impudicizie, forse rischiando un linciaggio. La parola martabat non esce dalla mia testa, mentre il martabak ancora non accenna a voler mollare il mio stomaco. Non credo che scorderemo mai questo inizio, questo “risveglio”. Non si può dire che non sia stato un capodanno come Dio comanda.

Malang by night
Armati di krupuk fino ai denti