«Indonesia Raya, merdeka merdeka
Darahku negriku yang kucinta
Indonesia Raya, merdeka merdeka
Tanahku Indonesia Raya».
Grande Indonesia, libertà libertà
Sangue mio mio paese adorato
Grande Indonesia, libertà libertà
La mia terra è la grande Indonesia
(Inno nazionale della Repubblica d’Indonesia)
4 gennaio 2015
Trenggalek, Hotel Hayam Wuruk
Alle sette di mattina un camion sgasa a tutta birra nel parcheggio dell’hotel fuori la nostra finestra e ci affumica dandoci il buongiorno.
Attraversando lo stesso parcheggio raggiungiamo la ruang makan (‘sala mensa’) deserta e facciamo colazione. Fermiamo in tempo la cuoca armata fino ai denti di olio e aglio, pronta a friggere tonnellate di nasi goreng, e gli chiediamo del roti (che abbiamo capito implica comunque dei farinacei il più delle volte dolci). Ci arrivano delle fette di pane chimico ripiene di cioccolato. Bingo.
Dopo il caffè, lasciamo i bagagli in custodia alla reception fino a “terserah” (“come/quando vi pare”) e ci dirigiamo subito a Lodoyo, per vedere la famosa cerimonia del gong. Arriviamo in pochissimo tempo, il sito è a poco più di otto chilometri da Blitar. Alla fine aveva ragione Google. Lungo il tragitto incappiamo in un ippodromo nel quale si stanno tenendo delle corse di cavalli. Rimaniamo imbottigliati per un bel tratto nel marasma di venditori ambulanti, scommettitori e sbandieratori.
Niente comunque, rispetto a quello che troviamo dopo a Lodoyo. Il centro cittadino è un caos di persone che affollano la strada già intasata da carretti e banchetti di ogni sorta. Un turbinio di mani, teste, schiamazzi, fritti, dolci, batik, uccelli, pesci, mobili antichi, bibite… non so che girone sia ma finora è uno dei più impegnativi. Parcheggiamo il motorino e proseguiamo a piedi. Le ragazze del parcheggio, tra una risatina e l’altra, segnano sulla ricevuta il nome Nurenso.
Ci addentriamo nella selva della fiera cittadina. Ci infiliamo sotto uno stretto e lungo capannone pieno di stand che porta dritto, dritto al pendopo principale dell’Alun Alun. Sfiliamo tra utensili, giocattoli, attrezzi da lavoro (tra cui i tipici falcetti maduresi), abiti da casa per signore (i mitici duster, pronunciati con tripla ‘r’, all’indonesiana). Spiccano gadget elettronici che producono musichette agghiaccianti, maschere del reog di Ponorogo, polli meccanici, barbie muslimah, e via dicendo.
La nostra preoccupazione principale è muoverci in modo più intelligente possibile, misurando piccoli passi, tentando di non essere calpestati dai fiumi umani. Dopo una lunga e sofferta processione sbuchiamo finalmente all’Alun Alun… a cerimonia finita. Lo scheletro del gunungan (l’albero della cuccagna giavanese che viene assaltato a fine cerimonia per accaparrarsi qualche vegetale come buon auspicio) giace spoglio e vandalizzato al centro della piazza. Un gamelan muto ci guarda dalla nostra sinistra. Musicisti e cantanti sono sparsi qua e là tra gli stand di cibo e le telecamere dei quotidiani locali.
I poliziotti fanno cordone attorno ai reporter delle testate importanti, alcune ragazzine si fanno le foto sullo sfondo dei pannelli intarsiati del pendopo in un tripudio di gelsomini. Dopo aver fatto qualche foto, sconsolati, ci infiliamo di nuovo nel marasma dei venditori. Dai banchi dei CD piratati esplodono i decibel gracchianti delle ultime hit di dangdut koplo, l’ultima frontiera del trash. I venditori di quadri offrono due opzioni che accontentano comunisti nostalgici e islamici progressisti: ritratti di Sukarno semplici e austeri e preghiere in arabo in teche rilucenti e ornate.
Il venditore di banane offre di tutto: dalle crepes alla banana, alle banane fritte ai mini coni gelato alla banana dai colori poco naturali. Ci risparmiamo un es cincau (gelatine verdi a mollo in liquidi colorati con ghiaccio e altre amenità) che mi attira tantissimo. Passiamo davanti al banco di sosis (salsicce color fuxia acceso) e ai classici paguri e pulcini vivi tinti con colori fluo presenti in ogni pasar che si rispetti. Poi troviamo lui: il banditore.
Ad un lato dell’infernale capannone attrae la nostra attenzione un uomo microfonato che urla a gran voce per richiamare i clienti. La sua mercanzia consiste in borse di plastica colorate pratiche e multiuso. Le borse possono infatti essere ripiegate in varie maniere, divenendo marsupi, zainetti e anche cappelli, all’occorrenza (mi chiedo se non sia lo stesso delle banane). Rimaniamo imbambolati per un po’ad osservare i suoi numeri mentre la gente accorre ad acquistare la sua merce mollandogli una fortuna a botte da quindicimila rupie.
Torniamo finalmente al parcheggio. Tutta la combriccola di mbak vuole foto con noi. Cioè più che altro con Mas Nurenso.
La prossima tappa è il Makam Bung Karno, il mausoleo dell’ex presidente Sukarno, a tre chilometri fuori dal centro di Blitar.
La strada per accedere al complesso è invasa da banchi colmi di articoli con la faccia dell’ex-presidente, strumenti musicali in bambù, maschere e marionette. Indonesia in a nutshell. Ovviamente il merchandising ufficiale della Repubblica Indonesiana è contorniato dai soliti ambulanti colmi di es kelapa muda (‘succo di cocco giovane’), jagung manis (‘pannocchie dolci’), bakso e via dicendo.
Parcheggiamo il motorino in uno dei soliti ammassi di veicoli tra un warung e l’altro e ci ritroviamo in un enorme piazzale. Il mausoleo ci si staglia subito d’innanzi in tutta la sua imponenza. Vi si accede da un lato del piazzale passando per una grande biblioteca, di fronte alla quale si erge un’enorme statua di Sukarno. Proseguiamo per un viale puntellato da colonne, sulle quali compaiono manifesti, foto e citazioni del presidente. Alla fine del viale, la riproduzione in cemento grigio dell’entrata di un tempio induista costituisce l’entrata alla tomba presidenziale.
Varcato l’accesso accediamo ad un cortile al centro del quale è situato un immenso pendopo con tripudi di fiori e ricchi intarsi in legno. Per accedere dobbiamo toglierci le scarpe. Sotto il pendopo tantissime persone sono sedute a terra o inginocchiate a pregare, altre ricoprono di fiori di ogni sorta la tomba dell’ex presidente. Ci facciamo largo tra i devoti e arriviamo alla tomba, una vasca rettangolare stracolma di gelsomini, tra cui spunta la lapide con le iscrizioni funebri. Un signore che indossa una bandana con la faccia di Sukarno ci fa spazio.
Ci mettiamo a prendere un po’ di fresco sui gradini del pendopo e ci godiamo qualche minuto di pace. Poi tentiamo di guadagnare l’uscita e ci ritroviamo nel solito ingorgo di persone che ci incastrano in foto di famiglia. È una reazione a catena: come i primi si accorgono che siamo stranieri, cominciano ad accorrerne altri ed altri ancora, fino ad attirare l’attenzione di persone più lontane che ci indicano col dito e si accingono a mettersi in coda.
Riusciamo a dileguarci e ci infiliamo in un lungo tunnel claustrofobico in cui sono ammassati altri venditori di souvenirs. Questi richiamano i clienti a suon di rumorosissime traccole. Quando sono in procinto di perdere i sensi per mancanza di ossigeno, troviamo uno sbocco laterale e ci fermiamo a rifiatare. Chiediamo ad una ibu se ci sia un’uscita alternativa, perché non credo di arrivare viva alla fine del tunnel. Ci indica una retrovia dal piazzale.
Mentre siamo ancora lì intenti a rinfrescarci, un carretto ambulante ci passa davanti. Tra le varie delizie, spiccano delle chips di noodles (mie, in indonesiano) al gusto pollo, sponsorizzate da un gioioso Doraemon in plastica che esclama MARRY MIE! Ci infiliamo subito in un vicolo laterale e in men che non si dica siamo di nuovo alla strada del parcheggio.
In una botta di patriottismo, decido di comprare la maglietta di Sukarno. Il primo venditore mi chiede 75.000 rupie, la seconda me ne chiede 30.000, per la stessa maglietta: Sukarno incita carismaticamente una folla ideale davanti ad un fascio di microfoni, su uno sfondo infuocato. Dalla maglietta dipenderà il resto del nostro viaggio.
La nostra giornata continua presso il tempio di Penataran, a dieci chilometri dal Bung Karno, secondo un cartello stradale, diciassette secondo la Lonely Planet, quattro secondo il primo informatore casuale.
Il tempio sorge in un’area verde abbastanza estesa, dopo il solito tunnel delle meraviglie di venditori. Pare sia l’unico tempio dell’era Majapahit ancora quasi interamente sano ed è anche il più grande. Si articola in diversi templi e tempietti fino al tempio centrale.
Attraversiamo il tempio dei naga, i serpenti mitologici, e ci dirigiamo verso il tempio madre, dove ci aspetta una bella scarpinata per salire ai vari livelli. Neanche qui riusciamo a scampare alle foto con estranei. Un gruppo di adolescenti in hijab blu e gialli ci ronza attorno tra gridolini e risatine. Temiamo il peggio. È inevitabile: alla fine si fanno coraggio e chiedono una foto. Dopo diversi tentativi di comunicare in un inglese stentato, taglio corto e gli parlo in indonesiano. La situazione degenera, non ci sono più barriere che tengano, sono eccitatissime.
Gli chiedo se hanno una macchinetta fotografica. Non ce l’hanno. Uno smartphone? Neanche. Finiamo a farci foto con i nostri cellulari senza la possibilità di inviarle a loro, chiedendoci l’utilità di ciò. Ma loro sembrano soddisfatte. Andiamo a nasconderci per un po’ sulla facciata posteriore del secondo livello, protetti da garuda con ali spiegate e fauci digrignate. Seguono pochi attimi di pace.
Quando riscendiamo ricomincia la centrifuga di “foto mister!”. Due graziose bimbe con lunghissimi capelli raccolti in due code di cavallo decidono di pedinarci. Ci seguono fino ai bagni reali, in un punto isolato alle spalle del tempio madre. Poi per fortuna mollano la presa trovando qualcosa di meglio: un uomo che raccoglie con un retino le varie monete lanciate dai turisti nelle vasche monumentali. È proprio un’abitudine diffusa in tutto il mondo.
Sulla strada di ritorno a Blitar ci fermiamo a mangiare nasi rawon con krupuk, frittelle di verdure, crackers alle noccioline dolci e un tè al jeruk (l’agrume locale). Il jeruk lo abbiamo spremuto personalmente perché la ibu non accettava il concetto di “tè al limone” con gocce spremute senza l’intero frutto pestato, macinato e bollito dentro.
Torniamo in hotel a impacchettare i bagagli per l’ennesima volta. La situazione si fa più critica ad ogni ripartenza. Gli zaini compatti si sono sfaldati in una serie di buste penzolanti piene di panni sporchi, bottiglie vuote, cibi avanzati, oggetti infangati, conchiglie (quelle salvate dall’attacco delle scimmie volanti di Pulau Sepu). Il motorino è ormai una carovana gitana.
Non sappiamo quale sarà la prossima tappa. Vorremmo cominciare a tornare verso Giava centrale, possibilmente passando per la famosa località costiera di Pacitan, che però è troppo distante per essere raggiunta in un’unica tirata. Vorremmo anche fare un salto a Ponorogo, la mitica località del reog. Non che speriamo di essere così fortunati da beccare una performance, ma almeno ci proviamo.
Per spezzare questi duecento chilometri dovremmo trovare almeno un Pertamina sulla Jalan Nasional, ripercorrendo a ritroso il tragitto dell’andata.
Cominciamo a seguire le indicazioni per Tulungagung e superiamo dei piccoli centri urbani in direzione di Trenggalek, unico grande centro abitato prima dell’immensa serie di monti e foreste tra Ponorogo e Pacitan.
Mentre siamo spensierati a goderci il tragitto, succede: “Sento dell’acqua”. “No, la pompa, di nuovo!”.
Ci fermiamo tra un nulla e l’altro sperando di essere così fortunati come lo siamo stati a Madura e trovare un tambal ban, un bengkel, anche un vecchietto armato di ferri sfusi, qualsiasi cosa. Dato che ci siamo appena lasciati le ultime tracce di vita umana alle spalle, cominciamo a spingere il motorino procedendo a ritroso. Comincia un chilometro di processione a bordo strada mentre i camion sfrecciano alla velocità della luce sulle scie di dangdut e il sole comincia a calare minacciosamente dietro le fronde degli alberi.
Arriviamo al tambal ban, chiuso. La ibu che gestisce la bottega a fianco ci informa che il marito “sudah pulang” (“è già rincasato”). Sono già le sei passate e tutto comincia a morire lentamente. “Makan, sholat, makan, tidur” (“mangiare, pregare, mangiare, dormire”), specifica la ibu come se non fosse già fin troppo chiaro. Il cerchio della vita. “Besok pagi” (“domani mattina”).
In un moto di pietà, ci consiglia di provare al Pertamina un chilometro più avanti, che per noi è un altro chilometro indietro. Arrivati al piazzale del distributore, lascio Lorenzo al motorino e vado ad informarmi circa la presenza di un’officina riparazioni o qualsiasi cosa gli somigli. C’è, ma ora è chiusa. “Sudah malam” (“è già notte”). Sono le 18.30.
Gli spiego meglio il nostro problema. Si consulta con un tizio a fianco a lui. Dopo qualche minuto a rimuginare, mi dice di portagli il motorino. Lorenzo arranca verso di noi con tutto l’armamentario. I due danno una rapida occhiata e ci confermano che il problema è sempre la pompa. Ci dicono di attendere di fronte l’ufficio, proveranno a chiamare l’uomo del bengkel e a farlo venire d’urgenza.
Rimaniamo in attesa, accasciati e rassegnati sotto la pompa di benzina, circondati da pacchi, borse e buste, mentre sono in atto le ricerche del meccanico. Cominciamo a fare piani per una notte abusiva la Pertamina. Io mi sento già a casa, quasi mi metto a spolverare e montare le tende sui distributori. Le poltrone fuori l’ufficio sembrano niente male.
Lorenzo, nel frattempo, va a fare scorte di cibo al minimarket, unica attività ancora aperta. Torna armato di acqua, biscotti, crackers sigarette e foglietto con il numero del meccanico. Proprio in quell’istante, arriva il meccanico.
Il nostro uomo si mette subito al lavoro. Appartato in un angolo buio del piazzale, smonta il motorino in quattro e quattr’otto con i pochi ferri che si è portato e una torcia sulla fronte. Il problema pare sia il tubicino che collega la pompa al motore tramite una pinza che si allenta con le vibrazioni (e ci credo, calcolando che continuiamo a solcare crateri e sassaie). Quindi la benzina invece di arrivare al motore, arriva sul mio piede.
Lorenzo osserva attentamente le mosse del meccanico, in caso dovesse risuccedere. Le magie dell’apprendimento orale. L’uomo finisce il lavoro in pochi minuti. Gli siamo così grati che gli lasciamo una mancia spropositata. Già che ci siamo rimettiamo un po’ di benzina e ripartiamo sulla benedizione del meccanico. “Selamat jalan”.
Duecento metri dopo, la pompa si rompe di nuovo. Ritorniamo indietro, richiamiamo il meccanico, ripetiamo la scena. Bis.
Mentre l’uomo è intento a stringere la pinza con tutte le ultime forze rimastegli in corpo, gli chiediamo se per caso sulla strada verso Ponorogo ci sia qualche posto in cui fermarsi. “Hutan” (“foresta”). Nella mia testa comincio ad aprire un mutuo al Pertamina.
“Forse c’è un hotel… a dodici chilometri da qui”. Confidiamo nello spirito di Sukarno. Seguiamo i consigli dell’uomo e una volta rimontati in sella andiamo alla volta dell’hotel “Ayam qualcosa…”. “Pollo?”. “Eh”.
Dodici chilometri dopo, percepiti come quaranta, entriamo nella ridente Trenggalek e troviamo subito l’Hayam Wuruk, che appare come un hotel a più stelle di quante ci aspettassimo in un posto simile.
Eravamo partiti per dormire al Pertamina con area ristoro della Jalan Nasional. Ci eravamo quasi rassegnati a dormire ad un Pertamina qualsiasi buttati tra un distributore e l’altro. Ci ritroviamo in una reggia. Per 300 rupie abbiamo una stanza che fa invida all’Hilton. C’è anche la sala meeting e il karaoke bar.
È pulitissima, bene ammobiliata, con aria condizionata, acqua calda, prese elettriche nei posti giusti, ciabattine batik, lavandino situato in bagno con bicchieri di plastica e kit di saponi, listino prezzi della lavanderia e, soprattutto, lenzuola sotto le coperte e non sopra.
La signorina della reception stampa la ricevuta su cui ha registrato i miei dati. Nazionalità: indonesiana. Sono quasi commossa. Mentre mettiamo su uno sketch da stand-up comedy terrorizzati dalla domanda sulla colazione, lei ci rassicura: “toast”. Che nella mia mente da neo-cittadina indonesiana si traduce automaticamente con roti. Andata.
Nessuno ci busserà alle sei del mattino per rifilarci del riso fritto.
Ancora non ci è chiaro il meccanismo per cui se cerchiamo un posto confortevole finiamo a dormire all’addiaccio a rischio omicidio, ma quando ci mettiamo in testa di dormire all’avventura imbocchiamo nel lusso.
Mentre poggiamo le nostre cose sul comodino leggiamo l’indirizzo dell’hotel sulla targhetta: Jalan Soekarno-Hatta. Da domani andrò in giro conciata peggio del reduce della resistenza di Blitar. Grazie presidente.