Jalan Jalan

Capitolo 15 – Malang

«Il monumento, come indica l’etimologia latina del termine, vuole essere l’espressione tangibile della permanenza o, per lo meno, della durata. Occorrono altari per gli déi, palazzi e troni per i sovrani perché questi non siano asserviti alle contingenze temporali. Essi permettono così di pensare la continuità delle generazioni».

(Marc Augé, Non Luoghi)

30 dicembre 2014
Malang

L’uomo del riso fritto questa volta non fa irruzione in camera prima del sorgere del sole, e quasi ci dispiace. Ci svegliamo troppo tardi per avere accesso alla sala ristorante e alla lavanderia. A Giava Orientale è già siang (‘metà mattinata’) dalle 9.30. Calcolando che a Madura iniziava alle 8.00 e a Giava Centrale inizia alle 10.00-10.30, torna tutto. Non credo di volermi spingere più ad est. Per qualche motivo alla fine ci ripensano sulla lavanderia: è aperta. Gli molliamo tutto e usciamo a fare colazione. Troviamo un angkringan (‘chiosco ambulante’) che fa succhi di frutta e frullati proprio di fronte all’hotel, adiacente alle rotaie. Prendiamo due frullati con del pane al cioccolato chimico mentre giovani ragazzi e ragazze ci elargiscono sorrisi dalla banchina.

Oggi è giornata di templi: Singosari e Sumber Awan al nord, Jago e Kidal al sud, nella località di Tumbang. Malang è uno dei centri nevralgici dell’impero Hindu-Buddhista del Majapahit (IX sec.) e per questo è pieno di fonti storiche e culturali. Nella sua area si possono ritrovare numerose rovine di templi e palazzi, anche se in buona parte distrutti.  Imbocchiamo la strada verso Singosari tra il solito ingorgo selvaggio di Tir, pullman, macchine, motorini, carretti, clacson assordanti e gas tossici. Il caldo e lo smog ci avvinghiano senza lasciarci scampo. Tra l’altro, la strada che entra ed esce da Malang è solo una, quella per Surabaya. Quindi ogni volta è come rivivere un incubo.

Ci fermiamo a chiedere informazioni al solito vecchietto raccattato per strada. Alla prima domanda non sembra aver compreso. Ripetiamo: “Candi Singosari”. “Cingosari?”. “No, Singosari”. Finisce che ci spedisce alla stazione di polizia di Singosari. Se non altro il tempio è proprio in una traversa poco distante. Decidiamo di vederlo al ritorno e di andare dritti verso il secondo tempio, Sumber Awan, che dista solo sei chilometri. Un cartello indica la direzione, ma solo fino ad un certo punto, poi le indicazioni svaniscono nel nulla e ci tocca richiedere. Un ragazzetto ci dice di girare a destra per il “rawan”, il che ci destabilizza non poco dati i fasti di Madura. Ormai per noi rawan è uguale a ‘ladri e assassini’. Comunque gli diamo retta e arriviamo al sito del tempio.

Qui il paesaggio muta radicalmente: è tutto immerso nel verde, nella pace e nella tranquillità della vita contadina. Non si direbbe che c’è una superstrada infernale a pochi metri, neanche si sente più il rumore dei clacson e dei motori. È come essere entrati in una bolla spazio-temporale. Distese di verdi campi di riso orlate da palme e da rigogliosa vegetazione rendono l’aria fresca e respirabile. Un ruscello di acqua limpida scorre lungo un sentiero che dovremmo percorrere a piedi. È la Giava che vorrei. Parcheggiamo quindi il motorino mentre un uomo con un secchio nero rovesciato sulla testa attraversa la strada e va a lavarsi nel ruscello.

Imbocchiamo quindi il sentiero godendoci l’immersione nella pace più totale. Gli unici suoni di spicco sono il gorgogliare dell’acqua e il concerto di cicale. Sciami di libellule nere con chiazze dai colori fluo svolazzano frenetici sulle rive del corso d’acqua. Qualche contadino arriva dalla direzione opposta alla nostra con falcetto in mano o trasportando enormi fasci di erba. Donne e bambine fanno il bagno nell’acqua limpida e si lavano a vicenda i lunghi capelli neri, senza curarsi dei passanti.

Candi Sumber Awan
Lungo il fiume
Sawah
Abluzioni
Attraversamenti
Candi Sumber Awan
Prospettive
Pausa
Stupa

Il sito del tempio è ampio è ben curato. Al centro di un rigoglioso giardino sorge lo stupa principale, letteralmente invaso di farfalle nere e viola che si posano spesso e volentieri anche su di noi. Rimaniamo per un po’ lì a goderci l’atmosfera per poi girare attorno al tempio in senso orario, come vuole l’usanza. Andiamo poi a curiosare sul lato posteriore, dove scorgiamo una continuazione del sentiero. Seguendolo scopriamo un piccolo luogo di culto nascosto. Aggirando una bassa parete e scendendo alcuni gradini si arriva ad una vasca rituale. Attorno alla vasca sono posizionate numerose nicchie e statue colme di offerte per gli dèi, per lo più incensi, fiori e sigarette. Una grande pietra a forma di tartaruga fa da ponticello per raggiungere la sorgente d’acqua. Ne approfittiamo per bagnarci il viso con l’acqua pura e con l’occasione porgiamo il nostro omaggio alle divinità del luogo.

Tornati al tempio principale, troviamo una nuova ciotola di incensi posizionata su un ammasso di rovine a lato. Aggiungiamo la nostra sigaretta kretek per non fare torto a nessuno. Riprendendo il sentiero in direzione del parcheggio, incappiamo in un gruppo di fanciulli locali appostati sotto un capanno che ci gridano una serie di: “F*** you” F*** you” probabilmente immaginando che sia una qualche forma di saluto all’occidentale. Passiamo oltre senza ribattere. Alla fine comunque cediamo anche noi al fascino del ruscello e ci immergiamo le gambe dentro. Poco più in là un signore anziano si spoglia completamente e comincia a lavarsi. Sull’altra sponda dei bambini si apprestano a fare lo stesso. Abbiamo capito che il ruscello è il bagno pubblico del villaggio.

Una vecchina in sarung e reggiseno ci guarda accigliata, forse chiedendosi se siamo anche noi in procinto di lavarci. Un tipo con cesti colmi di verdura sulle spalle ci grida qualcosa nel dialetto di Giava orientale. Tornati al parcheggio scopriamo che il capanno del parcheggiatore si è trasformato in bisca. Sulla strada del ritorno passiamo al Candi Singosari. Questo è un tempio induista e si estende tutto in altezza. È meno suggestivo dell’altro, forse anche per la location poco amena, in una strada piena di chioschi ambulanti a poche centinaia di metri dal traffico di Malang.

Tentiamo di fare comunque qualche foto ma ci sono gruppi di persone arroccate ovunque intente a fare lo stesso. Saliamo sul primo livello e cominciamo ad esplorare le varie nicchie che custodiscono le statue delle diverse divinità. Nell’ultima c’è la statua del reggente defunto, patrono del tempio. L’uomo del parcheggio ci spiega che tutti i templi qua attorno sono makam raja (‘cimiteri reali’), tombe dedicate a qualche ex-sovrano dell’impero Majapahit.

Rovine
Etnomusicologi
Etnomusicologi (ritratto di famiglia)
Offerte
Giava meets Bomarzo
Sulla via del ritorno
Bagnanti
L’uomo che portava su di sé il peso di Giava

Ci dirigiamo verso Tumpang, verso l’altro complesso di templi, non senza l’ennesimo tuffo nell’inferno stradale di Malang (è come Monopoly solo che invece che passare dal Via passi dalla superstrada per Surabaya). Riusciti a svoltare in una strada più tranquilla a una quindicina di chilometri da Tumpang, ci fermiamo per assaggiare il famoso nasi rawon, una pietanza a base di riso e carne tipica di Giva orientale (che comunque richiama pericolosamente il rawan per assonanza, e via a ladri, assassini etc.). Il posto si chiama warung alami (letteralmente ‘taverna naturale’) ed è gestito dalla solita ibu tuttofare con casa nel retrobottega.

Il nasi rawon è una zuppa di riso con carne di manzo, cipolla e fagioli di soia. Servito con aggiunta opzionale di sambal (salsa piccante), farina di cocco e fritti misti (tofu, tempe, verdure). Secondo Lorenzo è il pasto più buono e completo mai mangiato a Giava. Ci chiediamo perché non lo abbiamo mai preso prima d’ora.

Arriviamo a Tumpang, una tranquilla cittadina dai verdeggianti sobborghi collinari in cui non mancano le solite distese di palme e campi di riso. Dà l’impressione di essere un posto in cui si conduce una vita tranquilla. Raggiungiamo il mercato centrale e chiediamo informazioni per il tempio di Jago. Pare sia esattamente dietro il mercato, nel bel mezzo del cuore cittadino. Contenuto in impalcature in ferro ed inserito anch’esso in un giardino curato e rigoglioso, ha più l’aspetto di un parco pubblico che di un sito templare. Ci arrampichiamo fino in cima salendo i gradini semi-crollati e massi cedevoli.

L’impresa da Zahi Awass vale la pena, la vista dall’alto è magnifica. Si ha una bella visuale sopra i tetti di Tumpang e una panoramica sul parco. La luce del tardo pomeriggio rende il tutto ancora più suggestivo. Ce ne andiamo appena in tempo, nell’istante in cui una truppa di giovani indonesiani armati di selfie-stick parcheggia la jeep fuori il cancello del parco, porgendo omaggio alla statua della dea della morte a sei braccia.

Tumpang
Altro giro, altro tempio
Jago
Panoramica
Zahi Awass
Zahi Awass 1
Zahi Awass 2

L’ultima meta programmata è il Candi Kidal, che un cartello informa essere a 7.5 chilometri. Per sicurezza chiediamo. Un signore ci conferma che il tempio è a sette chilometri verso sud. Dopo poco più di un chilometro – oltre a rischiare un incidente con un pick-up che si immette senza alcun criterio – ci troviamo ad un bivio. L’informatore di turno ci indica una direzione affermando: “Quattro chilometri, da quella parte”. Ricominciamo col terno al lotto. Se non altro la strada è piacevole, ci sono distese di palme e campi di riso a non finire con colline di un verde brillante sullo sfondo e la luce rosea del tramonto. Ci perdiamo letteralmente nel paesaggio finché non capiamo più dove stiamo andando. Un altro informatore afferma: “Due chilometri”. Quando entriamo palesemente in un altro villaggio smettiamo di credere a chiunque e cominciamo a farci due domande.

Delle ibu sedute sotto una veranda ci dicono di tornare indietro di un chilometro. Dopo più di un chilometro, la venditrice ad un chiosco disperso nella giungla ci dice di proseguire per altri 500 metri. Dei bambini che non avranno più di dieci anni ci sfrecciano a fianco con dei motorini migliori del mio. Uno di loro traina un compagno in bici. Poi riusciamo ad arrivare al benedetto tempio che è talmente immerso nel nulla che sembra uscito da un romanzo di Kipling. Troviamo il vialetto d’ingresso, incastrato tra poche case e mucchi di vegetazione e raggiungiamo il tempio induista di Kidal. Dei bambini giocano a pallone su un lato del tempio mentre una donna dà da mangiare alla sua bambina seduta sull’ultimo gradino della sua veranda, che dà proprio sul tempio.

Un signore anziano ci ferma: “Da dove venite?” (quasi mi aspetto: “Un fiorino!”). “Dall’Italia”. “Perché parlate indonesiano?”. “Viviamo a Yogyakarta da un bel po’”. Ci pensa. “Quando avete finito di fare le foto fate un’offerta per le pulizie del tempio” (“un fiorino!”). Cominciamo l’ascesa dei vari livelli osservando le sculture man mano che procediamo. Il tempio è alto dodici metri. Il signore ci raggiunge poco dopo fornendoci pillole di mitologia locale, dopo di che si mette seduto a canticchiare per fatti suoi.

Candi Kidal
L’entrata
Kala
Homus Etnomusicologus
Divinità per un giorno

Al ritorno proviamo una strada nuova, scovata grazie ad un cartello nascosto nella giungla. Le ultime parole prima di imboccare la stradina sono: “La benzina è quasi finita, mettiamo una bottiglia?” che trovano risposta in un: “Ma no, vedrai che ci sarà un Pertamina”. Seguono chilometri di intensa vegetazione senza anima viva. Finalmente sbuchiamo tra la civiltà in un tripudio di angkringan e abitazioni in cemento e leggiamo “MALANG”. Ci sembra strano, dovrebbero mancare ancora la metà dei chilometri dell’andata. Chiedo ad un vecchino sotto a un chiosco che mi brontola una rispostaccia. Richiedo con più cortesia e ottengo una specie di ramanzina sul fatto che se vogliamo chiedere informazioni dobbiamo scendere dal motorino e spiegare bene dove vogliamo andare. Ripeto “Malang” il più chiaramente possibile ignorando il resto. Alla fine ci fa svoltare a destra.

Non ci fidiamo del tutto e chiediamo ad altri ragazzi appollaiati su dei motorini che difatti ci fanno tornare indietro. Dopo altri due giri avanti e indietro forse troviamo la traversa giusta e veniamo accolti dal cartello KOTA MALANG (CITTÁ DI MALANG). Ci fermiamo ad un Pertamina gigantesco con una fila di veicoli lunghissima. Nell’attesa facciamo scorta di cioccolata Van Houten al Supermarket della stazione di benzina. Per ritrovare il nostro albergo basta seguire le indicazioni per la stazione ferroviaria, che praticamente ne fa parte.

I paesaggi di Malang
La vastità
Tracce
Servizi trasporto pannocchie

Ritiriamo la lavanderia per un prezzo esagerato, 49.000 rupie, a Yogya ci avremmo lavato un tappeto. Del resto è la prima vera lavanderia che si possa definire tale, senza scambi di colore, scambi di indumenti (con altre persone) e profumi chimici spruzzati in modo selvaggio. La TV in camera ci allieta con i soliti programmi trash: video musicali di band pop-rock indonesiane che vertono per il 90% su tragedie amorose; concerti dangdut; concorsi culinari in cui i concorrenti sono cantanti famosi e cucinano solo roba fritta; un gruppo pop dal nome terong (‘melanzana’) i cui microfoni sono a forma di melanzana e il Ramayana (dallo stesso regista del Mahabaratha, e obiettivamente anche lo stesso curatore di effetti speciali).

Dato che quando usciamo sono le nove e mezza passate e tutte le attività locali sono chiuse da almeno un’ora, ci riduciamo ad andare da McDonald’s. Mentre addentiamo i nostri hamburger ci accorgiamo di essere circondati da famiglie musulmane che consumano menu di riso e pollo fritto con salsa piccante. Poi ci accorgiamo che in effetti esiste un menu di riso e pollo fritto al McDonald’s. Anche quando pensi di stare facendo cose ‘troppo occidentali’, trovi sempre qualcuno o qualcosa che te lo smentisca.