«E quel male si chiamava “la solitudine”, perché quando vedevi la tua città natia rimpicciolirsi come il tuo pugno, e poi raggrinzirsi fino a non essere più grossa di un limone e finalmente, ridotta a una capocchia di spillo, svanire nella scia di fuoco del razzo, tu ti sentivi come se non fossi mai nato, e non ci fosse nessuna cittadina natia nell’infinito, ti sentivi nel nulla, con tutto quello spazio intorno a te e niente di familiare, soltanto un pugno di altri uomini sconosciuti».
(Ray Bradbury, Cronache Marziane)
È nell’istante in cui il ciclo naturale si trova al limite tra due fasi d’ interscambio che il cielo diurno indossa quel colore incerto, vivido e malinconico al tempo stesso, e si prepara ad uscire allo scoperto, schiavo del suo destino ciclico da tempo immemore.
Ed è così, in concomitanza con l’aprirsi del giorno nascente, che le palpebre si chiudono, adagiandosi nei solchi ormai profondi delle orbite oculari.
A questo punto, gli astanti recuperano i loro effetti personali dalle loro postazioni, si spengono le luci, il teatro chiude i battenti.
E buio.
Il trascorrere di un periodo indefinibile, compreso in un lasso di tempo anomalo, sottratto con violenza alla scansione convenzionale della giornata, consente di chiudere momentaneamente il sipario sul grande spettacolo di varietà che si consuma ogni giorno su quel palco racchiuso nel boccascena terracqueo.
Segue vuoto cosmico.
Improvvisamente, un’anacronistica melodia irrompe da una fonte terrena, indispettisce i sensi istigandoli a prender iniziativa, ma le membra si oppongono con fermezza. Così, le tenebre tornano vittoriose a consolidare la loro egemonia su zone remote della psiche, rovesciando ancora per poco le sorti. Ma una voce amica capovolge gli esiti del conflitto oblio/ragione, riportando in auge il regime della coscienza, e tutto torna ad assumere un certo significato.
Il soffitto, in quel momento, era l’unica certezza. Un flebile fascio di luce faceva capolino dalle persiane a fasi alterne, indeciso se fosse un bel giorno. Poi un afflusso di pensieri, ricordi, emozioni, sensazioni, gli ricordò il suo posto nell’universo. L’ambiente cominciò a riacquistare una dimensione sonora, una mano invisibile girò la manopola di una radio immaginaria, alzando al massimo il volume, e rendendo perfettamente percettibile l’ordinario soundscape di una domenica nei quartieri popolari.
Lei scelse il suo sorriso migliore, quello che le calzava meglio, e con un rapido movimento diede un colpetto al suo mondo, che immediatamente, riprese a girare.
Gennaio 2013
Cinque e mezza del mattino.
Entro in casa in quello che credo come al solito essere assoluto silenzio e che i miei come al solito danno per buono essendo una tacita convenzione. E sullo strascico dei miei tacchi che fanno eco a passi malmessi raggiungo la porta della mia stanza, un’Itaca variopinta dall’aspetto piacevolmente sicuro.
Luce.
La pellicola si riavvolge e immagini si susseguono a ritroso: me che cammino a passo rapido al centro di una strada deserta. Lampioni sfocati. Viali alberati della Roma bene, deserti.
Posso sfrecciare libera e solitaria nelle ore di vuoto, nelle quali la città momentaneamente muore. Non ho lo stereo, ma non importa. Il cellulare riproduce a ripetizione gli unici due brani salvati. E mentre supero l’ennesimo incrocio fantasma, sento di volere che quel momento non finisca mai. Il semaforo lampeggia mentre i Soho Dolls intonano per l’ennesima volta Don’t you want to be the one? Don’t you want to? Bang bang bang, bang bang bang bang.
Rottami di paesaggi incastonati nel buio come bassorilievi su rovine di templi distrutti e riassemblati dalla mano svelta di un artista di strada. Le immagini scorrono sul finestrino come vecchie diapositive manovrate da gesti tremanti e frettolosi di un anziano parente. Sagome di automi diretti verso un baratro di perdizione si intravedono attraverso gocce di pioggia asimmetriche e maldistribuite sulla superficie liscia che ci divide. Ma non mi sento poi così istante da loro.
Dall’alto della mia postazione comoda e aero-condizionata di mondo avverto una sensazione di cedimento. Mentre perdo i sensi, il mio sguardo cade sull’asfalto e le mie palpebre si chiudono lasciando impressa nella mente l’immagine della mia anima che giace lì, caduta e calpestata nel fango della capitale.
Il giorno dopo
Mi siedo vicino ad un tipo sul tram e tiro fuori il libro di Palahniuk. Il tipo mi guarda, mi sorride, e gira la copertina del suo libro per farmi vedere che è lo stesso.
Ora, se si fosse trattato di un film, probabilmente sarebbe nata una bellissima storia d’amore, per quel che vale. Perché questo è il classico preludio di una classica storia bellissima di quelle che nei film sfornano come cornetti caldi sull’Ostiense ad un ritmo quasi maniacale.
Per il resto, rimane uno sconosciuto incontrato sul tram con i miei stessi gusti letterari. I risvegli non sono sempre come te li immagini. Ma del resto l’importante è risvegliarsi, comunque, ogni giorno.