«Ma, e se per un incidente di natura spaziale o temporale noi ci fossimo smarriti nelle dimensioni del “continuo”, ritornando sulla Terra di trenta o quaranta anni fa?».
(Ray Bradbury, Cronache Marziane)
27 dicembre 2014
Spiaggia di Lumbang
L’uomo del nasi arriva puntuale alle 6.00. Dopo aver preso visione del vassoio, ci rimettiamo a dormire cullati dal rumore intermittente del condizionatore. Una ninna nanna noise, mettiamola così. Verso le 10.00 cominciamo a preparare i bagagli, mangiamo un tremendo riso colloso con salsa di soia dolce e uova. I nostri stomaci tengono per miracolo.
Dato il rumore preoccupante del motorino, ci fermiamo ad un’officina per strada, per evitare di ripetere numeri già visti. Come al solito i tipi ci mettono dieci minuti per capire il problema, smontare qua e là, stringere qualche bullone e rimetterci a nuovo il catorcio. Pare che stessimo perdendo la marmitta per strada, a posto. Non vogliono nulla in cambio, solo sapere dove andiamo e per quale assurdo motivo stia guidando una donna (io). Lorenzo li rassicura: “È brava”.
Continuiamo il tragitto che è più breve del previsto e abbastanza piacevole, tra palme, cocchi a volontà e pochissimi insediamenti umani. Quei pochi appaiono decisamente rurali: uomini dediti a lavori di taglio e trasporto delle noci di cocco in sarung a quadri e torso nudo; donne anziane in cappelli di paglia conici chine nei campi di riso. Veniamo superati da un camioncino che trasporta noci di cocco. Poco dopo i cocchi cominciano a rotolare fuori dal vano posteriore. Ci sbrighiamo a superarlo di nuovo in modalità videogioco.
Inaspettatamente, la spiaggia ha un pedaggio, quindicimila rupie parcheggio incluso. Che poi non è così strano, avrei dovuto farci l’abitudine. In Indonesia qualsiasi spiaggia conosciuta e frequentata comprende pedaggi, parcheggi e chioschi ambulanti, non esiste il concetto di spiaggia isolata, deserta, naturale. Neanche nella parte più remota di un’isola tutt’altro che turistica. Anzi, nella maggior parte dei casi, di naturale ci è rimasto ben poco.
Lasciamo il motorino ai soliti mas stupiti dal nostro viaggio e incuriositi circa le nostre sorti. Gli affidiamo lo zainone da viaggio e andiamo in spiaggia. Una ‘spiaggia a forma di spiaggia’ con distesa di sabbia chiara, granchietti, qualche barca colorata ormeggiata qua e là. Se non fosse per la gente che fa il bagno vestita sarebbe quasi da cartolina. Mi faccio lo scrupolo di chiedere al tizio del parcheggio se è necessario che tenga i vestiti. “Bebas” (‘Libera’), afferma. “Seperti Bali” (‘Come a Bali’). Mi rimane difficile pensarlo data la gente che esce dall’acqua in felpe e blue jeans zuppi, con tutta la cinta. L’acqua oltretutto è bassa e bollente, in pratica una sorgente termale.
Lorenzo non ha il costume, ergo fa il bagno in mutande, destando più attenzioni di me in costume. Dopo un po’ di tempo il bagnasciuga comincia a riempirsi del traffico di ogni specie: gente a cavallo, ragazzi in quad… non si sa più dove girarsi. Dato che è finita la pace decidiamo di andare a cercare una doccia e qualcosa da bere. La spiaggia è costellata di chioschi che vendono le stesse identiche cose: noci di cocco, bevande frizzanti e colorate, soto ayam (zuppa calda di pollo), pop mie (noodles istantanei). Troviamo i bagni pubblici. Con 4000 rupie riusciamo a tirarci qualche secchiata d’acqua addosso dal solito secchio in plastica scolorito. Ritrovo le stesse persone che uscivano dall’acqua vestite a farsi la ‘doccia’ vestite. Torna tutto.
Ci fermiamo a uno qualsiasi dei chioschi e prendiamo le uniche cose possibili: bevande di latte di cocco fresco appena spaccato e zuppe di pollo bollenti. La ibu si sincera che ci piacciano il tofu, le noccioline e qualcosa con la “r” che non capiamo ma nel dubbio diciamo si a tutto, ormai. Quando arrivano i piatti ci rendiamo conto che la cosa con la “r” non è un condimento ma una serie di altre pietanze mischiata alla zuppa. “Com’è?”, chiedo a Lorenzo. “È gado-gado in brodo”. La classica insalata indonesiana con fritti, uova, salsa di noccioline e crackers di granchio, ma calda. La classica cosa da spiaggia.
Ore 20.30
Terminato il lauto pasto a base di fritti in brodo di pollo alla spiaggia di Lumbang, ci mettiamo alla ricerca dell’omino dei gelati (“Il carretto passava e quell’uomo gridava…es krim!”). Notiamo un tipo che fa mosse stile dangdut vicino ad un cavallo, ripreso da un cameraman. Vicino a lui altri tre tipi in lunga tunica nera e cappellini bianchi attendono di entrare in scena. Non sto nella pelle: stiamo assistendo al making-of di un videoclip di musica pop madurese. Il tizio muove le labbra muovendosi a tempo mentre la musica viaggia a tutto volume.
Mentre siamo totalmente assorti nello spettacolo sentiamo una voce alle nostre spalle: “Boss!”. Ci giriamo. Tre ragazzetti in jeans e occhiali da sole ci vengono incontro: “Photo!”. Mi giro pensando che si rivolgano agli attori-cantanti. No, vogliono proprio noi. Non troviamo l’omino dei gelati, ma troviamo il cocomero. Ora si che è estate. Il 27 dicembre. Chiedo il prezzo alla signora che esclama un: “20.000” indicando il cocomero sano. Preciso che ne vogliamo solo due fette. Alla fine ce ne rifila comunque mezzo e ce lo mette in un piatto tagliato a fette. Poco dopo arriva un altro signore, forse il marito, che ci schiaffa altre fette nel piatto di sua iniziativa. “Tambah!” (‘Bis!’). Finisce che mangiamo quasi un cocomero sano. Paghiamo comunque 10.000 rupie alla ibu, nonostante il signore continui a suggerirle all’orecchio “20.000”, come se non capissimo.
Tornati al motorino troviamo l’amara sorpresa: è sparito il mio maglioncino. Un misero straccetto di H&M che però era l’unico capo di abbigliamento pesante che ho nel bagaglio. Per fortuna il resto delle nostre cose è ancora lì. Chiedo ad uno dei ragazzi. Fa finta di nulla. Continuo a chiedere, nessuno sa niente. Prima di innervosirmi indosso il sorriso giavanese più convincente che ho e la butto sulla pietà: “È l’unica cosa pesante che ho, devo tornarci almeno fino a Surabaya, non ci sono negozi di articoli invernali a Madura, e la notte fa freddo”. Una ragazza che mi sente dal motorino vicino si impietosisce e vuole cedermi la sua felpa. La ringrazio ma non posso accettare, la mia deve venire fuori, in qualche modo. Tiro fuori la carta del: “Non ci ricavate niente, non è costosa ed è vecchia”. Non funziona.
A quel punto mi viene un’idea, tiro fuori la macchinetta fotografica e comincio a far finta di fotografare uno ad uno i ragazzi e le targhe dei loro motorini. Come non detto, due di loro cercano di darsela a gambe. Ci diamo all’inseguimento come nei peggiori polizieschi di serie B, su dei motorini sgangherati sotto un sole cocente, e con bagagli accatastati alla meno peggio. Per quanto riesca ad andare veloce non riusciamo a stargli al passo e li perdiamo dopo uno svincolo in qualche vietta sperduta. Mi rassegno a morire di freddo.
Mentre ci reimmettiamo sulla strada principale incontriamo altri due ragazzi della banda del parcheggio sul motorino, che ci chiedono con espressione sconsolata se siamo riusciti ad acchiappare i ladri. Gli dico di no con espressione dura. Ci chiedono dove vogliamo andare e gli grido un: “Non lo sappiamo”, premendo sull’acceleratore. In effetti non abbiamo idea di quale sia la nostra prossima tappa. Il piano era di arrivare a Slopeng, un’altra spiaggia ad una trentina di chilometri, ma ovviamente sulla mappa non risultano posti in cui poter passare la notte.
Prendiamo una strada che non è palesemente quella principale, lungo la costa nord dell’isola, attraverso villaggetti e coltivazioni. È abbastanza aspra, spoglia e brulla, il litorale è per lo più roccioso e i campi a perdita d’occhio sono tutt’altro che ridenti e rigogliosi come a Giava. Siamo a Madura, quella vera. I locali sfoggiano espressioni attonite al nostro passaggio come avessero avvistato un UFO. Sarà anche per il fatto che alla guida ci sono io, con i pantaloncini corti per giunta.
Dato il caldo soffocante, la sabbia ovunque, e il morale ancora a terra per il furto subito, ho deciso di accantonare le maniere sopan (‘educate’) momentaneamente. Dopo un po’ il paesaggio diventa una via di mezzo tra il Salento e la luna. La strada comincia a sfaldarsi. Dall’asfalto un po’ rovinato con sporadici crateri ci ritroviamo su una specie di mulattiera composta da sassi e fango. Il motorino è ingovernabile. Lorenzo scende e continua a piedi per un tratto mentre io faccio il rally. Al primo edificio in cemento ci fermiamo a chiedere informazioni. Pare che manchino 25 chilometri a Slopeng. Ci prende un infarto. Venticinque chilometri di buche e sabbie mobili.
Per fortuna dopo poco più di un chilometro la strada migliora e poche palate di fango dopo torniamo al buon vecchio asfalto. Notiamo che in realtà lo strato di asfalto è stato palesemente colato sopra i sassi senza criterio ed è tutto a bozzi, ma è già qualcosa, posso evitare di frenare e puntare i piedi ogni tre secondi. Torniamo alla posizione rilassata di guida: le mie scarpe, glassate di fango, poggiano comodamente distese sullo zainone incastrato davanti al sedile.
Quando raggiungiamo un insediamento abbastanza significativo ci fermiamo a mettere un’altra ‘boccia’ di benzina (ormai abbiamo capito che la costa nord ce la facciamo tutta a bottiglie, non c’è ombra di distributori) e cogliamo l’occasione per chiedere informazioni su posti in cui poter passare la notte. La donna del chiosco di benzina afferma convinta: “Non ce ne sono”. “Tidur sini aja!” (‘Dormite qui!’) esclama indicando un’abitazione poco distante, che immagino sia la sua. Dice che il marito è un poliziotto, dunque siamo al sicuro.
Siamo un po’ confusi. Le diciamo che andiamo a dare un’occhiata ai dintorni della benedetta spiaggia di Slopeng e in caso torniamo da lei. Altre persone radunatesi nel frattempo seguono con interesse la conversazione. Alcuni uomini ci avvertono di stare attenti perché è sepi (‘deserto’) e rawan (‘con disordini’). Se non altro ormai sappiamo che significa. Speriamo non riesca fuori il dibunuh (le ‘uccisioni’ della costa sud).
La strada per la spiaggia promette bene: distese verdi puntellate da palme, altissime dune all’orizzonte, forse tutto questo viaggio non è stato vano. Le aspettative vengono immediatamente infrante all’arrivo. La spiaggia è davvero ‘deserta’, tanto che non è neanche segnalata. Intorno non c’è assolutamente nulla. C’è un misero parcheggetto per i motorini e un warung all’angolo con dei mas buttati lì a far scorrere le loro vite davanti a loro come al solito. Andiamo subito a chiedergli se ci sono hotel, guest house, ostelli, campeggi, qualsiasi cosa con un posto letto. Nulla, non c’è nulla. Ci consiglia di tornare a Sumenep. Gli diciamo che veniamo da lì e vorremmo continuare a circumnavigare l’isola. Dicono che l’unica altra alternativa è Bangkanal, la nostra prima tappa. Torniamo con la coda tra le gambe dalla moglie del poliziotto benedicendo per l’ennesima volta l’ospitalità indonesiana.
Pak Yoyo, il poliziotto, ci accoglie con un bimbo in braccio nella sua enorme e fastosa dimora. Gabbie per uccelli di ogni specie troneggiano nella veranda, al centro della quale vi è un grazioso tavolino in ferro battuto a motivi floreali con sedie per gli ospiti. Le vetrate sono anch’esse decorate con motivi floreali in stile madurese. I nostri gentilissimi ospiti ci indicano subito la kamar mandi, il bagno, dato che siamo coperti di sabbia e fango, e la nostra camera da letto, sorprendentemente con letto matrimoniale, senza chiederci nemmeno se siamo sposati o meno. Tutta questa ospitalità e apertura mentale ci spiazza abbastanza.
Nonostante l’ingresso della casa sia abbastanza lussuoso, indice che la famiglia è benestante, il retro è come quello di tutte le case indonesiane. La nostra stanza dalle pareti a strisce verde militare e verde fluo (un colore che va tantissimo non capirò mai perché) consiste, oltre che nel letto, in un armadio in plastica e cumuli di pupazzi e cuscini dalle varie forme e colori, altra mania tutta Indonesiana. Una delle pareti è di un verde giallognolo mentre il soffitto è di un verde bottiglia. L’impressione è più o meno quella di essersi fatti di LSD.
Il condizionatore, inserito in un buco della parete, sbuca a metà tra la nostra stanza e quella adiacente. Senz’altro una soluzione innovativa.
Mentre mi lavo strati di Madura dal viso e dai capelli usufruendo del bagno, Lorenzo si intrattiene in discorsi generici con l’allegra famigliola. Sento vagamente voci circa il clima italiano, le case italiane… e via dicendo. Da come Pak Yoyo si rivolge a Lorenzo intuisco che dia per scontato che io sia la moglie. Mentre sono intenta ad origliare da dentro la doccia, qualcuno bussa da fuori. Per un attimo mi sento colta sul fatto. “Sabun!” (‘Sapone!’). Apro uno spiraglio di porta. Una donna giovane (forse la figlia) mi porge un secchiello con tutto il necessario per lavarsi: sapone, shampoo, dentifricio, spazzolino, spugna… e maschera da snorkeling. Boh. Anzi che loro neanche hanno i pesci nella vasca dell’acqua. Molti li utilizzano per tenerla pulita da larve e insetti.
Finito il mandi (‘bagno’) esco anche io in veranda e mi siedo al tavolo del convivio. Poco dopo arriva tutto il resto della famiglia, sono più persone di quante credessi. Oltre a Pak Yoyo, la moglie, la figlia grande il bambino che teneva in braccio, facciamo la conoscenza dei nonni, della bisnonna e di altri tre figli. Ci portano due bicchieri di tè caldo dolcissimo con copri bicchieri in porcellana bianca, accompagnati da dei krupuk (‘crackers’) che sanno di frappe salate. Dopo aver risposto a domande random dei più giovani, ci dedichiamo totalmente al nostro membro della famiglia preferito: il nonno. L’uomo parla un misto di indonesiano e madurese il che significa che capiamo la metà di ciò che dice.
Non so perché ci imbattiamo in un faticoso e dettagliato confronto di patenti. Quella indonesiana è composta da diverse licenze, ognuna relativa ad un tipo diverso di patente, un po’ come le nostre A, B, C etc. ma l’una non comprende l’altra e sono consegnate in schede separate. Quindi se le hai tutte hai un intero mazzo da portarti appresso. Gli mostriamo la nostra patente internazionale e gli spieghiamo come funziona. Conviene che è più facile e paradossalmente costa anche meno, anche con la conversione di valute euro-rupia.
Finito il dibattito sulle patenti ci richiede a bruciapelo se siamo moglie e marito. Diciamo di si quasi convinti. Non ci crede. “Pacaran” (‘Fidanzamento’) rimarca sogghignando. Non demordiamo e aggiungiamo: “Da un anno”. La donna, che invece ci crede sulla fiducia, ci chiede se abbiamo figli. Questo è un po’ troppo, dico di no. Non riuscirei a metter su una famiglia immaginaria ora come ora. Ci chiede il motivo con non poco stupore. Butto lì che è per il fatto che viaggiamo molto. Spero che non indaghi oltre e non mi costringa a riscrivere l’intera storia della mia vita per l’ennesima volta. Per tutta risposta, la donna sfoggia orgogliosa i suoi cinque figli, glorificando il marito, “un uomo robusto”. Ride di gusto.
Finito il concilio, tutti si alzano e rientrano in casa, forse per preparare la cena. Rimaniamo col nonno e Pak Yoyo, che ci avverte che per cena c’è solo il pesce. Non che ci aspettassimo altro, dato il luogo. Pak Yoyo ci rivela che hanno, oltre alla pompa di benzina, due negozi di pesce, di cui uno a Surabaya. Decisamente una famiglia benestante. Ci dilettiamo un altro po’ intrattenuti dai racconti dell’uomo circa la sua carriera poliziesca. Pak Yoyo è giavanese, ma si è trasferito a Madura dopo il matrimonio. Viveva con la moglie in un villaggio poco distante da qui e solo da poco si sono traferiti in questa reggia con tutto il resto del parentame a seguito. Pare che tutti lo conoscano e lo rispettino da queste parti. Per una volta, il karma ci ha messo sulla strada buona.
Ci racconta dei disordini che è solito sedare nei dintorni. Pare che sia parecchio rawan, soprattutto nei dintorni della spiaggia di Slopeng (Assassin’s Creed la vendetta, lo sapevo). Gli chiediamo come mai non ci siano hotel su tutta la costa nord. “La gente ha paura”. Sempre meglio.
Ad un certo punto scrosci di pioggia torrenziale vengono giù dal cielo con una potenza tale che non riusciamo più a udire le nostre voci. Guardando il diluvio che si sta abbattendo sulla costa dalla graziosa veranda di Pak Yoyo pensiamo a quanto siamo stati fortunati e poco lungimiranti. Abbiamo fatto i turisti scemi a caccia di spiagge rischiando di perderci tutta l’umanità che c’è dietro. Oltre che di morire ammazzati o annegati molto probabilmente. Siamo capitati al momento giusto nella casa dell’uomo giusto, che neanche a farlo apposta è il tutore dell’ordine del villaggio. A quest’ora potevamo essere al buio sotto al diluvio a farci 100 Km su una strada dissestata in balìa degli assassini maduresi.
Mentre il monsone continua ad imperversare indisturbato, diamo inizio al terzo atto della commedia in interno, il trittico familiare. Pak Yoyo entra in casa e rifanno il loro ingresso in scena tutti gli altri familiari, nonno incluso. Nel bel mezzo di discorsi su limiti di anzianità, colore della pelle e lunghezza dei nasi degli italiani, fa il suo ingresso un ospite inaspettato: il fratello della moglie di Pak Yoyo (lo zio, un classico delle commedie borghesi). Un uomo elegante in perfetto completo islamico (lungo caffetano bianco con sobri ricami e copricapo nero) fa le presentazioni e si inserisce nella conversazione. Apprendiamo che lavora nella nursery dell’ospedale di Sumenep.
Il discorso sulla pelle va per la maggiore. Arriviamo ad un’impasse: loro si chiedono perché sentiamo il bisogno di abbronzarci per scurirci, noi ci chiediamo perché utilizzare prodotti per sbiancare la pelle. La moglie di Pak Yoyo continua a ripetere: “Putih cantik” (‘bianco è bello’). Il fratello mi dà ragione sul fatto che l’essere troppo bianchi spesso è indice di cattiva salute. La nonna indica il mio naso e dice qualcosa in madurese al nonno. “È lungo, le piace”. Scoppiano tutti a ridere. “I maduresi ce lo hanno così” – se lo preme – “schiacciato”. Poi il fratello si alza e si congeda, torna a Sumenep per lavoro, “nella city”, dice rivolto a noi con l’atteggiamento di un broker milanese.
Poi finalmente arriva il momento tanto aspettato: storia degli studi. È strano che abbiano aspettato tanto per chiedercelo, di solito esce fuori tra le prime cose. Quando riveliamo la nostra formazione in etnomusicologia e in karawitan giavanese non si scompongono più di tanto. Sembrano un po’ spaesati. Solo uno dei ragazzi azzarda una domanda sul kendhang (il tamburo). Quando Lorenzo gli canta il pattern di tamburo utilizzato nei lancaran (una tipologia di brani) si limitano a qualche risatina e finisce lì. A Giava sarebbe cominciato uno show, ma forse siamo anche un po’ grati di essercela cavata così. Quando dico che sono una sindhen (cantante femminile tradizionale) non suscito il minimo clamore. Solo la nonna butta lì un “contoh” (‘esempio’) a cui nessuno dà seguito. La mia esibizione muore sul nascere.
Li deludo abbastanza affermando che non so ballare. Questo gli interessa di gran lunga di più. Si mettono a discorrere di danze maduresi e topeng (‘danza in maschera’) balinese, che pare siano le specialità di Slopeng. Appurato che di danza ne capiamo quanto loro di musica, poniamo fine alla lunga conversazione e rimaniamo soli col nonno a contemplare la pioggia, mentre tutti gli altri entrano in casa. Dieci minuti dopo è pronta la cena.
Ci fanno accomodare in un’ampia cucina ad una grande tavola imbandita e ci lasciano soli. Ci guardiamo attorno. La cucina è davvero enorme e piena zeppa di utensili colorati che strabordano dagli scaffali. Sembra di essere nei grandi magazzini Progo. Hanno ben cinque bollitori elettrici di riso di diverse dimensioni. Le maioliche sono dipinte a tema marittimo, con pesci colorati e altri disegni che come la metti la metti ruotano attorno al mare e alla pesca. Anche il cibo ovviamente è perfettamente in tema: un vassoio colmo di pescetti fritti, un piatto di uova, una ciotola con melanzane e tempe in salsa di cocco piccante. In un piattino c’è del sambal (salsa piccante) di pesce ed in un altro piatto ci sono involtini in foglie di banano dal contenuto misterioso (ma immagino pesce, in qualche modo). A capotavola sono posizionati quattro bicchieri d’acqua e una abnorme ciotola di riso bianco.
Cominciamo a mangiare in compagnia della pioggia che batte sulle vetrate colorate. Scopriamo che l’involto di foglie di banano contiene un impasto di pesce macinato simile alle sardine ma piccantissimo. Dopo due morsi le nostre bocche vanno letteralmente a fuoco, non riusciamo a mangiarne di più. Prendiamo dei pesci fritti, uova, due porzioni di melanzane e tempe al cocco e due piccole porzioni di riso. Appena finiamo tutta la famiglia entra in cucina con un tempismo perfetto – ho come la sensazione che ci abbiano spiato – si siede a tavola e comincia ad esprimere commenti sulla cena appena consumata. Si preoccupano che non ci sia piaciuto. Assicuriamo che era tutto buonissimo, non siamo riusciti a finire l’involtino perché non reggiamo il piccante.
Si chiedono come mai abbiamo mangiato così poco. Li guardiamo basiti elencando tutto quello che ci siamo ingurgitati. Non abbiamo finito i piatti ma ce n’era per l’intera famiglia. “Questa è la cena per due persone”. Solo il riso sfamerebbe un villaggio intero. Dicono che lo zio è capace di finire quella ciotola da solo. Non ribadiamo oltre. Finisce che tentiamo di descrivere a fatica i principali piatti italiani, con stomaci pieni e assolutamente nessuna voglia di pensare anche solo lontanamente al cibo. Poi la nonna riparte con considerazioni sul mio naso e tutto torna alla normalità. Cerco di riciclare una battuta che mi sento fare spesso a Giava, dicendo che somiglio a Petruk (un personaggio comico del teatro delle ombre con un lungo naso) ma pare coglierla solo la nonna. La spiega in madurese e tutti si rassicurano abbozzando qualche sorriso più per cortesia che per divertimento.
Chiedo a che ora si svegliano di solito, per farmi un’idea ed evitare di disturbarli. Partono una serie di risposte improbabili: la moglie di Pak Yoyo si sveglia alle 4.00, la nonna alle 3.00, la bisnonna alle 2.00. Insomma dipende dalla generazione. Stando al trend generale, io e Lorenzo ci posizioneremmo intorno alle 5.00. “Mushollah”, spiega la nonna. Certo, devono pregare.
Mi chiede cosa mangiamo di solito a colazione e per un momento avverto un brivido freddo correre lungo la mia schiena. La colazione. Rispondo caffè, biscotti e in generale cose dolci, che riassumo in roti (‘pane’, che indica qualsiasi cosa a base farina). Leggendo la palese preoccupazione sulle loro facce mi affermo a specificare: “Ma il riso va comunque benissimo”. Si rilassano visibilmente. La nonna mi dice che per comprare il roti bisogna andare a Sumenep. Rassicuro ancora una volta che non ce n’è bisogno, hanno fatto più di quello che ci si aspetterebbe da sconosciuti a cui piombi in casa da un momento all’altro.
Dopo l’ultima confessione della nonna – nel tempe e nelle melanzane c’era poco latte di cocco perché alle persone anziane fa male – cominciano a partire gli “istirahat” (‘riposo’) e “tidur” (‘dormire’). Sono già le otto di sera, del resto. Prima di ritirarci nelle nostre stanze (letteralmente, visto che il condizionatore le collega) richiedo per sicurezza alla mamma, che mi pare la più pratica, a che ora preferiscono che ci alziamo. Azzardo un “8.00 pagi (‘mattina’)”. Mi dice che va bene ridendo, le 8.00 sono già siang (‘tarda mattinata’). Chiudiamo la porta con tattica ciabatta blu in plastica con lo stemma di Sumenep e ci stendiamo sul letto al quale, notiamo, sono state cambiate le lenzuola. Ci addormentiamo sul ronzio di una libellula che agonizza da qualche parte vicino ai nostri zaini.