«Immagina che tutto ciò sia vero. Immagina di parlare
di te mentre parli di loro, di ciò che è estraneo, del superfluo».
(Iosif Brodskij, La nuova vita, in E Così Via)
26 dicembre 2014
Giorno di Santo Stefano
Suemenep, Isola di Madura
Ore 20.30
Parcheggiamo sotto una pensilina assistiti dal solito ‘operatore del parcheggio’ (il tukang parkir, una figura cardine nelle città indonesiane) e andiamo ad acquistare i biglietti per visitare il palazzo reale in quello che dovrebbe essere il museo delle carrozze. Una donna che parla inglese comincia spontaneamente a farci da guida. Quando realizza che parlo indonesiano ci rimane un po’ male, chissà da quanto non vede stranieri.
Nel museo non c’è granché: un gamelan centro-giavanese mezzo sderenato che giace in un angolo, un Corano gigantesco che pare sia stato scritto in sei mesi da uno dei sultani, foto di vari sultani appese alle pareti e suggestive carrozze alate (su questo decisamente batte Piacenza). La donna, a cui ho concesso comunque di farci da guida fingendo di parlare solo inglese per compassione, ci accompagna all’ingresso del palazzo.
Una delle prime cose che saltano all’attenzione è la collezione di oggetti appartenuti ad una delle principesse del passato: gioielli, porcellane, contenitori di jamu (rimedi erboristici tradizionali), unguenti di bellezza. In alcuni alti armadi sono custodite delle lance, vi sono anche un kayon (albero della vita) e dei personaggi del teatro delle ombre, sempre centro-giavanese. Nell’ala opposta vi sono gli appartamenti reali e la sala comune delle udienze, che ora sono nient’altro che stanze disabitate se non per scopi turistici o eventi ufficiali di rappresentanza.
Mentre siamo ancora nel lungo corridoio dalle pareti gialle che separa gli ambienti principali, ricomincia a diluviare. La guida ci consiglia giustamente di aspettare all’asciutto prima di procedere per il taman sare, le piscine reali (la versione madurese del taman sari di Yogyakarta). Dato che dopo mezz’ora il muro d’acqua ancora non accenna minimamente a diminuire d’intensità, la signora ci lascia con le indicazioni per uscire e una pacca sulla spalla.
Dopo altri interminabili minuti di umida pioggia sonora riusciamo a vedere di fretta le piscine (anche se di acqua non ne vorrei proprio sentir parlare) ed uscire prima che chiuda tutto. L’uomo del parcheggio è ancora lì ad aspettarci. Quando gli chiedo quanto gli devo lui risponde: “Just cigarettes”. Lorenzo tira fuori il pacchetto intonso di kretek ma l’uomo rettifica: “No, money for cigarettes”, il che significa almeno 13.000 rupie, di contro alle 2.000 di un parcheggio standard. Ci conveniva venire in taxi.
Evitando prudentemente un tizio che tenta di abbordarci per ‘accompagnarci’ (diantar), ce ne andiamo verso l’Asta Tinggi, il cimitero reale, a 3 Km dal centro cittadino (che per la nostra guida era: “So far”). Ci perdiamo quelle due o tre volte di repertorio tanto per non perdere l’abitudine e finiamo dritti, dritti davanti l’ingresso. Prima di poter accedere al camposanto, veniamo giustamente indirizzati verso il banco delle mance, non ne manchiamo una. Notiamo dal registro che le cifre si aggirano attorno alle 10.000-30.000 rupie. Gli lasciamo 20.000 per non fare torto a nessuno.
Lasciamo le scarpe sui gradini d’ingresso, come vuole l’usanza, in una selva di sandali e ciabatte, sperando di non dover tornare scalzi. Cominciamo a camminare a piedi nudi lungo i viali lastricati che percorrono il terreno cosparso di coloratissime tombe e attraversiamo i crocicchi di preghiera tra mille occhiate curiose. Dopo un po’ ci sentiamo di troppo e torniamo taciturni dall’uomo del parcheggio di turno. Torniamo quindi in città alla volta della quarta tappa: la moschea Masjid Jamik.
Stavolta sono preparata. Indosso una maglia lunga e un foulard che mi arrotolo in testa a forma di hijab alla meno peggio. Entriamo senza problemi, ovviamente ognuno dal rispettivo ingresso. Mi dirigo verso il lavatoio delle donne quasi inosservata, non c’è molta gente, ancora non è ora di preghiera. Mi lavo sette volte la faccia e i piedi, che poi sono le uniche parti non coperte del corpo, agli appositi rubinetti. Entro nell’ala delle donne e rimango abbastanza delusa: una brulla moquette beige, un mobiletto per stuoie e abiti di preghiera e uno scaffale di libri di preghiera. Tutto qui. Grazie alle foto di Lorenzo ho modo di ammirare invece la parte degli uomini, bella, ampia e ben decorata. Come al solito va meglio a lui.
Due ragazze alla mia sinistra si sistemano i veli e armeggiano con i cellulari. Altre signore cominciano lentamente a stendere i tappeti per la preghiera e ad indossare l’abito integrale, per poi intonare le preghiere. Dopo aver terminato la sequenza di genuflessioni si mettono a leggere in silenzio i libri scritti in alfabeto arabo. Ne arrivano sempre di più, segno che sta per iniziare la preghiera. In effetti il richiamo dell’imam erompe dagli altoparlanti in men che non si dica ed il grande tamburo batte i tre colpi. Intuisco presto che non ho un velo integrale e non ho idea di come si preghi.
La donna alla mia destra rompe il ghiaccio chiedendomi da dove vengo e se sono qui da sola. Dico che ‘mio marito’ è nella parte degli uomini e realizzo che ho appena detto una bugia in un luogo sacro. Mi chiede se sono musulmana. Non me la sento di mentire di nuovo e balbetto qualcosa di confuso che suona come una negazione. In quel momento intravedo Lorenzo uscire nel cortile principale e mi defilo nel modo più educato che riesco a raffazzonare.
Mentre usciamo incrociamo un enorme flusso di fedeli controcorrente che si appresta a prendere parte alla preghiera. Per la maggior parte sono coppie in motorino o a piedi, gli uomini in sarung a scacchi, camicia che ricorda un caffetano arabo e copricapo islamico, le donne con lunghi vestiti velati dai colori pastello. Una donna si ferma per stringermi la mano e farmi un augurio: “Selamat, enjoy!”.
All’ora del tramonto, dopo la preghiera pomeridiana, l’Alun Alun (la piazza principale), inizia a riempirsi di giostrine colorate a forma di Teletubbies, pittoresche riproduzioni a pedali delle carrozze alate del kraton piene di lucine e scrosci acustici di Julia Perez e Juwita Bahar. In cerca di un posto dove consumare la cena, ci ritroviamo alla Rumah Makan Augustus 17 (un omaggio all’anniversario dell’indipendenza indonesiana). Ordiniamo un riso fritto con carne di capra e una zuppa di riso con carne e patate. Metà del locale è adibita alla vendita di krupuk (crackers fritti) di ogni tipo. Chiedo al proprietario quali siano i migliori per accompagnare la zuppa, ma dato che mi sembra di averlo messo non poco in difficoltà li scelgo da sola. Ne prendo un pacco all’aglio che scoprirò a mie spese sapere solo di aglio.
Un anziano signore che ha tutta l’aria di essere un cliente abituale entra nella taverna, prende una bottiglietta d’acqua e si mette a sedere tutto solo ad un tavolo. Poco dopo la ibu gli porta un piatto di nasi campur (‘riso misto’, che è sempre una sorpresa). Lui si mette a mangiare a testa bassa senza scambiare una sola parola. Altre persone cominciano ad affluire, è evidentemente terminata la preghiera. Una famiglia di quattro persone – padre, madre e due figlie – siede poco distante da noi. La madre e le figlie hanno hijab coordinati ai vestiti in colori sgargianti dal blu al fuxia. È un po’ come andare alla messa della domenica, penso, ma ogni giorno.
Dopo mangiato torniamo a riposarci in vista della ripartenza del giorno successivo. Chiediamo al receptionist se sappia qualcosa circa le corse dei tori. Pare le abbiano già fatte la settimana scorsa e non sa quando le rifaranno. Noi arriviamo sempre con un tempismo perfetto. Chiedo se gentilmente, domani mattina alle 6.00, invece di portarci il solito riso fritto piccante con pollo e l’apocalisse dentro può portarci semplicemente un po’ di riso bianco con la salsa manis (soia dolce e noccioline) per venire incontro ai nostri stomaci italiani. Mi dice di sì, non senza farsi una risata, e mi chiede il numero della camera. “La 11”, rispondo. Lo vedo perplesso: “Ma è occupata…”. Mi prende un colpo. Mi sporgo dal bancone per gettare un’occhiata al registro e lo guardo con faccia perplessa: “Si… da noi”. E buonanotte ai suona-tori.