«The Madurese have a reputation for ferocity. No one would rent me a motorbike when I visited Madura, because a few days earlier an itinerant ‘toy-seller’ (‘an outsider, like you’ – from West Java, it turned out) had been killed and its motorbike stolen. ‘Imagine if it happened to you’, said a Maduran woman with a posse of three Hondas, which I was eyeing hopefully. ‘You’d be dead, but me, I’d lose the bike’».
(Elizabeth Pisani, Indonesia etc.)
24 dicembre 2014
Notte della vigilia
Isola di Madura
Bangkanal, Faro
Ci dirigiamo verso il faro alle quattro del pomeriggio. Il tragitto è piuttosto breve dall’hotel, sono solo sette chilometri. Sulla strada veniamo attratti da un’enorme e maestosa moschea che svetta tra natura paludosa e gruppi di angkrinigan (carretti di sfizi culinari) coperti da ombrelloni colorati. Vendono per lo più nasi bebek (riso all’anatra) e i soliti fritti misti. Stavolta mi ficco subito in testa un foulard, per sicurezza, e ci addentriamo nel complesso. Dopo pochissimo, compre prevedibile, cominciano le richieste di foto collettive. I primi ‘fans’ sono un gruppo di ragazzi da Sumenep accompagnati da compagne velate. Ci godiamo una visita solo al perimetro esterno senza entrare, abbiamo capito che le moschee indonesiane all’interno si somigliano più o meno tutte e non vale la pena disturbare la preghiera.
Continuiamo il tragitto immergendoci in un paesaggio lugubre, fitto di vegetazione e bacini d’acqua. Ci fermiamo a chiedere indicazioni ad un gruppo di mas (giovani ragazzi) intenti a bivaccare davanti ad un tambal ban (sorta di meccanico). Non so perché gli provochiamo scrosci di risate a crepapelle, ma ci confermano che la strada è giusta, è quello l’essenziale.
Cinquecento metri più avanti avverto la sensazione di qualcosa che mi bagna il piede. Lo faccio presente a Lorenzo alla guida: “Sarà un’impressione”. Qualche altro centinaio di metri dopo riavverto la stessa sensazione di bagnato, stavolta sono sicura, decidiamo di fermarci. Scendiamo dal motorino e la prima cosa che ci viene in mente è controllare le buste di provviste che ci portiamo appresso, pensando si siano rotte le bottiglie di birra. Ma una volta posati gli occhi sulla carena del motorino viene fuori l’amara verità: stiamo perdendo benzina. Sotto il motorino c’è una chiazza enorme che si allarga a vista d’occhio e la lancetta del carburante è già scesa a metà. Ci affrettiamo a fare retro-front e a tornare dai mas del tambal ban.
Dopo pochi metri il motorino si spegne definitivamente. Ci diamo a quasi un chilometro di spinte a mano. Già capiamo l’andazzo da qui a Capodanno.
I mas ci accolgono con acclamazioni e sorrisi. Spieghiamo in breve il problema e loro si mettono subito a lavorare alacremente. Nel frattempo ci dilettiamo nel solito interrogatorio e ci lanciamo in resoconti di vita personale con i ragazzi rapiti e affascinati. Se a Giava la nostra origine ci rendeva dei VIP, qua rasentiamo il livello di divinità. È chiaro che Madura non sia un’isola turistica.
Al solo nominare l’Italia parte un coro da stadio inneggiante a Totti degno dei migliori ultras da curva sud. In meno di un quarto d’ora capiscono il problema (la pompa), lo risolvono e non ci chiedono nulla in cambio. Mettiamo una bottiglia di benzina, dato che ne abbiamo persa parecchia, e gli lasciamo il resto. Quando diciamo che vogliamo andare al faro ce lo sconsigliano vivamente: “A quest’ora è deserto”. Non vediamo dove sia il problema. Ci consigliano di tornare l’indomani mattina. Non c’è argomentazione che tenga, sembrano seriamente preoccupati.
Alla fine riusciamo comunque a fare di testa nostra e ripartiamo imperterriti verso la nostra meta. La costa non è esattamente come ce la aspettavamo. È praticamente una palude, sporca, con un sacco di piccoli moli che sbucano qua e là tra la vegetazione palustre. Seguendo una fangosa stradina di calce bianca arriviamo al benedetto faro Mercusuar, chiuso. A quanto pare i mas avevano ragione. Becchiamo il guardiano che sta scendendo giù e lo supplichiamo di farci fare una visita veloce. Niente da fare: “È già sera”. Ci mettiamo l’anima in pace e ci incamminiamo lungo la stradina di calce sconsolati, ripromettendoci di tornare l’indomani.
Dopo pochi passi il guardiano mi richiama: “Miss!”. Mi giro. Mi fa cenno di avvicinarmi con aria grave. “Volete salire?”. Era quello per cui l’avevamo appena supplicato, ma lui ci ha detto che non c’era tempo, gli faccio presente. “Forse c’è, se salite velocemente…”, e aggiunge: “…potreste fare una piccola offerta per la manutenzione”. La mancia, ovvio. Siamo nell’ennesima roccaforte della fine del mondo ma siamo comunque in Indonesia. Ringraziamo e diciamo che torneremo in mattinata, con tutto il tempo a disposizione, ore di luce e niente obblighi doganali. Vuole accertarsi che torneremo davvero: “Sicuri?”. “Si”. “A che ora?”. “Dipende da che ora ci svegliamo”. “Alle sei?”. “Beh, è un po’ presto”. “Alle sette?”. Ci schiodiamo prima che ci chieda anche i documenti e andiamo in cerca di un posto in cui fare la cena della vigilia a base di pesce, almeno quella non dovrebbe essere un’impresa difficile.
Dopo varie ricerche, quasi convinti ormai che l’opzione migliore fosse l’albergo o la taverna padang della signora di stamattina, troviamo una enorme rumah makan sperduta in chilometri di desolazione. Entriamo a chiedere se sia ancora aperto. Un gruppo di giovani ragazze ci accoglie ridendo e sghignazzando. È aperto. Ci accomodiamo sotto uno dei padiglioni in legno ricoperti di tappeti che circondano il giardino interno, pieno di gatti.
Comodamente seduti a gambe incrociate su materassini di bambù ordiniamo un granchio in salsa piccante (sambal), dei calamari fritti e un pesce arrosto al burro con riso bianco e tè freddo. Consumiamo il nostro cenone natalizio con soundtrack di risatine delle cameriere dalle cucine e preghiere islamiche sia in versione cantillata che rap da qualche altoparlante più sporadiche canzoni campursari (pop locale) in versione karaoke. Qualche gatto passa di tanto in tanto a riscuotere avanzi. Un piccolo gattino conquista il piatto con i resti del granchio e rimane a fianco a noi a festeggiare il suo lauto Natale.
Verso le sette, finite tutte le preghiere, cominciamo ad avvertire del movimento. Capisco che vogliono chiudere il locale ma non colgo il senso di gruppi di personale accalcati fuori al nostro padiglione in preda ad urletti e risatine. Poi colgo: vogliono le foto ricordo. Accontentiamo tutti e proseguiamo il nostro programma della notte di Natale: festeggiamenti al faro.
Ripercorriamo la strada a ritroso e ci fermiamo al primo molo che sembra abbastanza panoramico da non rivelare quel che è: un cubo di cemento in un nulla paludoso. Lasciamo il motorino sotto un capanno lungo il ciglio della strada, di fronte ad un warung kopi (la versione locale della ‘caffetteria’) e ci incamminiamo nel buio totale. Giunti circa a metà della lunga passerella, subito prima degli scogli, ci sediamo e cominciamo a bere le nostre Bintang, ammirando il faro e le luci della città che si intravedono dalla costa.
Poco dopo, un vecchino in sarung a quadri copricapo islamico si avvicina a noi facendo luce con una torcia. Facciamo finta di non capire l’indonesiano per evitare seccature ma lui sembra non demordere, ha qualcosa evidentemente importante da dirci. Alla fine cedo e lo ascolto introducendo i convenevoli. Lui appare sorpreso: “Sai la lingua nazionale?”. Si riferisce all’indonesiano standard, non avevo ancora mai sentito definirlo ‘lingua nazionale’, un tuffo nelle lotte al colonialismo.
“Il vostro motorino ha la targa AB, venite da Yogyakarta?”. Non mi ero resa conto del dettaglio della targa, ma neanche avevo pensato costituisse un problema. Gli dico di sì. Anche lui viene da Yogyakarta, risponde. E siamo arrivati agli strascichi della decentralizzazione operata dal presidente Suharto, per cui è pieno di giavanesi in tutto l’arcipelago. Sorrido e annuisco credendo che sia l’ennesimo tentativo di socializzazione. “È meglio che portiate il motorino qui, lì è rawan”. Non capiamo cosa voglia dire rawan, ma nel dubbio gli diamo retta. Dopo altre poche domande sulla nostra provenienza e attività, che sembrano più di controllo che di curiosità, continua con il suo giro di perlustrazione. Apprendiamo rincuorati che è l’uomo della ronda, una consuetudine nelle comunità di quartiere e di villaggio.
Una mezz’oretta dopo si avvicina un altro signore con lo stesso abbigliamento e le stesse modalità di interazione. Questo sembra un po’ più rude. Punta la torcia sulle bottiglie di birra: “Avete portato da bere?”. “Si, oggi per noi è festa, è la notte di Natale”. Gli spiego brevemente in modo cordiale le nostre usanze ma non sembrano interessargli molto. Annuisce e continua anche lui il suo giro. E il secondo uomo della ronda è andato.
Al terzo uomo capisco che c’è qualcosa che non va. Le ronde ci sono anche a Yogyakarta ma non così insistenti, nessuno fermerebbe due ragazzi che bivaccano tranquilli. Dopo le canoniche domande e informazioni questo comincia a dire con fare ammonitorio che è tardi per essere in questo posto. Anche lui continua a ripetere rawan. Basta, prendo il traduttore. Rawan significa letteralmente ‘agitato’. Mi viene un dubbio: “Pak, è sicuro qui?”.
“Qui è sicuro, perché ci sono io… ma lì…” indica un punto vicino al faro “lì c’è chi dibunuh”.
Un’altra parola che manca al mio vocabolario.
“Dibu…?”
“Dibunuh!”
Riprendo il traduttore.
Anche Lorenzo appare preoccupato. Vedendo la mia faccia raggelata illuminata dalla luce del cellulare, si premura di chiedermi: “Che significa dibunuh?”.
“Ucciso”.
Mi rivolgo di nuovo all’uomo della ronda:
“Pak, che significa che uccidono?”
“Per rubare i motorini”
Mi spiega che questa parte della costa è parecchio travagliata perché, a parte Bangkanal, non ci sono grandi centri e sono per lo più villaggi sperduti in cui c’è molta povertà. Inoltre, la costa su cui sorge il faro è un istmo che ripiega su sé stesso ed è molto isolato, per questo di notte avvengono ‘scorribande’ (il senso esatto di rawan). Ora è tutto chiaro. La situazione appare più o meno così: noi, due ‘bianchi’ con motorino targato Yogyakarta (prospera città di Giava centrale), stiamo trascorrendo una romantica notte di Natale su un molo paludoso a due passi da ladri e assassini, protetti solo da vecchini in copricapo islamico armati di torce elettriche. Conveniamo che l’albergo è la soluzione migliore.
Mentre sfrecciamo sul lungomare udiamo in lontananza le parole di uno dei vecchini della ronda seduto al warung kopi portate dal vento: “Bevetevi prima un caffè con noi…”. Al noi siamo già sulla strada principale.
Alle 23.30, mezz’ora prima della nascita di Gesù (che sta facendo salti mortali ancor prima di nascere per toglierci dai guai) siamo al centro della cara Bangkanal. Dato che la mezzanotte in una camera diroccata non sembra proprio il massimo, decidiamo di farci un giretto in sicurezza nel parco della moschea.
Parcheggiamo il motorino davanti ad un angkringan in chiusura ma notiamo con rammarico che la proprietaria è comunque contrariata perché gli intralciamo le operazioni di carico nel furgoncino. Chiediamo dove poter parcheggiare. Lei lancia una voce al marito e ricominciamo l’ennesimo teatrino. La nostra benedetta targa AB ci crea problemi persino nel centro cittadino. Sono tentata di comprare della vernice e modificarla. Il marito ci rimane quasi secco quando gli diciamo che con quel motorino ci siamo venuti da Yogyakarta. Riparte il racconto delle gesta eroiche. Poi assume un’aria grave e dice in tono preoccupato: “Se proprio volete andare al parco, portatevi appresso il motorino…”. Andiamo a barricarci in albergo.
Mentre passiamo davanti al parco in sella al motorino a tutta velocità, Lorenzo nota: “Vabè, abbiamo capito che a Madura te fanno il motorino, come a Nettuno”.
Tornati in albergo ci posizioniamo in un bel pendopo (padiglione tradizionale) con poltroncine e triclini – con i resti delle birre strozzate di fretta tra un rischio di furto e un probabile assassinio – e, rinunciando ad ogni altro tentativo di festeggiamento natalizio, ci mettiamo a fare piani di viaggio per i prossimi giorni. È evidente che venire a Madura senza informarci un minimo su usi e costumi locali (inclusi tassi di criminalità) non è stata un’idea geniale. Nel frattempo i due sorveglianti fanno compagnia al receptionist davanti a programmi TV trash farciti di musica dangdut.
Quando entriamo in camera ci accorgiamo di due dettagli apparentemente trascurabili ma che in realtà contribuiscono a completare il quadro horror della serata:
- Le pareti sono di carta velina. Ogni volta che il vicino apre anche solo il rubinetto dell’acqua sembra che stia arrivando un esercito di demoni raksasa.
- Le uniche prese di corrente sono occultate da un enorme armadio.
Selamat Natal
Buon Natale