Consigli per acquisti da etnoviaggiatori Vol. 1: 15 album di musiche tradizionali dall’Asia

Quante volte, prima di un viaggio, vi è capitato di pensare: vorrei leggermi dei libri sulla Thailandia, sul Giappone o sulla Cina? Quante volte vi è capitato di cercare dei video su YouTube o dei brevi documentari, per carpire suggestioni ed informazioni utili sulla vita e sulla cultura locale? Quello che forse capita in misura minore è fare lo stesso ragionamento con la musica. E se invece di leggere e vedere, provassimo ad ‘ascoltare’ i paesi in cui intendiamo recarci per viaggi di ricerca scientifica o personale? In questo modo potremmo introdurci preliminarmente all’interno del paesaggio sonoro locale ed acquisire una prima impressione di linguaggi, sonorità, strumenti e contesti tipici. Potremmo capire quali suoni ci sveglieranno all’alba, quali accompagneranno i nostri sonni (o le nostre notti insonni), cosa potremmo aspettarci di ascoltare mentre prendiamo un caffè in un bar, durante un’escursione in qualche villaggio remoto o mentre facciamo acquisti in una strada di un trafficato centro urbano.

Il tema dell’ascolto di musiche extra-nazionali è un argomento molto delicato, soprattutto in Italia. Ciò che si trova in commercio e che viene sponsorizzato dalle industrie discografiche è purtroppo molto limitato e limitante per ciò che riguarda le musiche tradizionali al di fuori del contesto italiano ed ancor più europeo. Nei negozi di dischi questa categoria musicale è spesso relegata all’ultimo angolino dei sottoscala, in uno stand dimenticato che va sotto il nome di ‘Etnica’ o ‘World’. Molto spesso è difficile anche per gli addetti ai lavori (musicisti, etnomusicologi, critici) capire ad un primo sguardo quale casa discografica possa essere attendibile e se il CD o il vinile che abbiamo tra le mani sia effettivamente una raccolta di musiche tradizionali o un mash-up di folk-revival e ibridazioni con generi occidentali e contemporanei (senza nulla togliere a queste due categorie).

Ricordo ancora i miei pomeriggi da liceale, persa nei negozi della allora Ricordi (ora Feltrinelli) e Messaggerie Musicali o alla Discoteca Laziale a frugare tra quegli scaffali dimenticati in cerca di qualche musica ‘esotica’ (quando ancora non avevo la minima idea dell’esistenza dell’etnomusicologia). Da totale profana con una semplice curiosità amatoriale non sapevo davvero dove orientarmi. Mi ritrovavo ad uscire con CD di Enya, Loreena McKennit, Goran Bregović, Noa, musiche sefardite, tarantelle partenopee e molta confusione. Qualche anno dopo ho capito che l’internet avrebbe dato una svolta alle mie estenuanti ricerche. Nel 2014 acquistavo il mio primo CD della OCORA su Discogs (una meravigliosa piattaforma per compravendita di CD e vinili), precisamente un CD sul gagaku, la musica di corte giapponese, che era stato anche l’oggetto di uno dei miei primi esami di etnomusicologia.

Col tempo ho imparato (e ancora sto imparando) a riconoscere le case principali e le raccolte più ‘attendibili’ (senza nulla togliere al folk-revival e alla musica transculturale). Esse accompagnano ogni giorno i miei viaggi musicali, quando non posso prendere un aereo e andare ad immergermi nell’ascolto diretto. In questo articolo ho selezionato tre delle case discografiche più note tra quelle che producono raccolte di musiche tradizionali. Vorrei precisare che non sono delle uniche o delle ‘migliori’ (anche se io le ritengo tali ma è una mia opinione personale). Si tratta semplicemente di quelle che offrono forse una gamma più ampia e completa.

Le case in questione sono:

  1. INEDIT (Maison des Cultures du Monde)

https://www.maisondesculturesdumonde.org/label-inedit

Una casa discografica francese che opera dal 1985 nella raccolta e divulgazione di musiche dal mondo. I repertori musicali sono presentati in forma di field recordings (registrazioni sul campo), concerti live e antologie di patrimoni culturali.

  • OCORA RADIO FRANCE

https://www.radiofrance.com/les-editions/collections/ocora

Un’altra casa discografica francese fondata negli anni ‘50 dal compositore, musicista e musicologo Charles Duvelle ed il musicista Pierre Schaffer. Inizialmente acronimo di ‘office de coopération radiophonique’ è divenuta parte della Radio France nel 1964. È anch’essa specializzata in raccolte di musiche tradizionali dal mondo registrate sul campo da esperti del settore.

  • SMITHSONIAN FOLKWAYS RECORDINGS (Music of the people, by the people, for the people).

https://folkways.si.edu/

La Smithsonian Folkways Recordings è forse la più conosciuta tra le tre e quella che vanta una maggiore diffusione. Nata nel 1948 come Folkway Records essa è ora parte dello Smithsnonian Institutions che ne controlla la distribuzione. Si tratta di una casa discografica che nasce per produrre musica folk, blues, jug e world. Uno sguardo particolare è riservato al revival della musica folk statunitense. Sul sito ufficiale è possibile selezionare le diverse voci a seconda del genere d’interesse. Alcuni esempi: African American Music, Bluegrass, Caribbean, Celtic, Central Asia, Country, Gospel, India, Islamica, Judaica, Sacred, World). Essa produce anche interessanti raccolte, come la Music of Indonesia in 19 volumi (curata da Philip Yampolski) o Music of Central Asia, e collaborazioni con altre etichette, tra cui la collana UNESCO.

Gli album sono acquistabili dai siti ufficiali o su altre piattaforme come il già menzionato Discogs, su Amazon e altri rivenditori online.

In questo articolo vorrei proporvi alcuni tra gli album che amo e ascolto di più tra il repertorio di musiche tradizionali dall’Asia. Ovviamente, i generi ed i repertori seguono le mie personali inclinazioni. Chi ha letto i resoconti di viaggio pubblicati nella sezione Diari, avrà intuito la mia predilezione per la musica vocale femminile, musica cortese ed i generi di danza e teatro. Potete però cominciare a farvi un’idea, curiosare e seguire il vostro personale gusto musicale. Potete andare sui siti consigliati e ricercare il paese o la tradizione che più vi interessa. Un’altra soluzione è quella di partire dagli esempi che vi propongo andando per gradi e cercando risultati affini. Ad esempio potreste individuare uno strumento che vi colpisce, un’area geografica o un genere in particolare.

Da brava accumulatrice compulsiva ho optato per il formato CD. Potete ovviamente trovarne alcuni anche su YouTube (gratuiti), Spotify (io li ascolto tutti tranquillamente con il profilo premium) o Amazon Music (sempre a pagamento ma decisamente più economici del CD). Si è trattato di un’ardua selezione ma mi sono imposta il limite massimo di quindici album per una prima infarinatura.

Accompagno la lista con brevi descrizioni (che trovate integrali nei libretti allegati agli album in caso decidiate di acquistarli o in articoli e libri etnomusicologici che avrò senz’altro il piacere di indicarvi nei prossimi post o tramite contatto privato). L’ordine non è pensato secondo un criterio particolare, se non quello della mia personale discoteca e in base alle case discografiche (ho messo per primi quelli della INEDIT, poi la OCORA e infine la SMITHSONIAN, sempre a gusto personale). Prendetela come una guida all’ascolto molto personale da etnomusicologo sentimentale, un po’ come la guida turistica che vi indica i ristoranti più buoni in cui ha mangiato. In fondo, come ci insegna Lévi-Strauss (Il crudo e il cotto), antropologia e arte culinaria non sono poi così distanti.

  1. India – Le chant du Mohini Attam. Danse classique du Kerala (INEDIT)

L’album propone l’ascolto di una serie di canti che accompagnano il mohini attam, la ‘danza delle incantatrici’. È una prassi che raggiunge il massimo splendore nel diciannovesimo secolo ed è oggi considerata tra le danze classiche indiane più diffuse. Durante gli anni del colonialismo britannico il carattere erotico della danza venne condannato e la danza venne bandita per alcuni anni. Il mohini attam rappresenta lo stile femminile e grazioso (lasya) i cui movimenti lenti e circolari sono connessi alla natura (l’oscillare delle palme, i campi di riso mossi dal vento e il ciclo delle onde).

La musica che accompagna la danza può essere eseguita in due stili: lo stile ‘carnatico’ del sud dell’India e lo stile sopana, specifico dell’area del Kerala. Nell’album è possibile ascoltare entrambi gli stili, ai quali sono dedicati tre brani ciascuno. Il canto è l’elemento fondamentale ed è eseguito in Sanscrito, Malayâlam (la lingua ufficiale del Kerala) e Manipravâlam (una forma letteraria più antica) secondo modi musicali (râga) e ritmi (tâla) specifici per ogni brano. Il canto è accompagnato da un ensemble composto da: murali o flauto di bambù, vîna o violino, tampura e diverse percussioni (mrdangam, itakka) e cimbali.

La forma dei brani è quella della canzone ma si compone di diversi elementi: troviamo testi poetici, intonazione delle note musicali (sa, ri, ga, ma, pa, da, ni, sa) e sillabe ritmiche. Il testo può essere ripetuto più volte secondo delle variazioni e con largo spazio all’interpretazione. L’importante è che il cantante segua i movimenti della danza e le dia enfasi. Canto e danza sono strettamente correlati. Il nome delle note e le sillabe ritmiche hanno una funzione che va oltre quella dell’accompagnamento e richiama la danza astratta.

Il repertorio presentato in quest’album è variegato e si divide in due sezioni (ovvero i due stili ‘carnatico’ e sopana). Si apre con una invocazione (Ganapa stuti), seguita da un varnam (Sumasâyaka) ovvero un brano per danza strutturato in due parti, ed in ultimo un tillâna ovvero un brano dal ritmo vivace (Guededuni) che chiude la prima parte. La seconda parte si apre con un jatisvaram (Todi) o composizione in tempo lento e continua con due padam (Kantanotu chennu e Ilatalir shayané), delle composizioni in tempo lento caratterizzate dall’espressività del testo poetico. La durata totale è di 73.12 min.

2. Giava Occidentale – Tembang Sunda. Ida Widawati et l’ensemble L. S. Malati Ida (INEDIT)

Questo album è una raccolta dei brani che vanno sotto il nome di tembang sunda, ovvero componimenti poetici intonati a voce sola secondo la tradizione di Giava occidentale (nello specifico della regione di Sunda, che si estende nell’area del monte Priangan). Si tratta di uno dei molteplici esempi di musica tradizionale dell’Indonesia, la cui ricchezza di lingue, culture e prassi musicali presenti sul territorio nazionale rende difficile abbracciare un panorama complessivo. Per questo è molto difficile trovare album di ‘musica indonesiana’ tout court, ma più verosimile trovare una serie di raccolte (come quella della Smithsonian) o album che abbraccino singole tradizioni locali e regionali.

La tradizione sundanese è una delle più diffuse e apprezzate anche dagli occidentali per il suo sistema scalare e le sue sonorità. I tembang sono eseguiti sia da professionisti che da amatori e vengono spesso intonati durante occasioni conviviali (come le malam tembang o ‘notti cantanti’). Si tratta di eventi informali, in cui si mangia, si beve e si canta a turno le melodie sui testi poetici, accompagnati da un piccolo ensemble di musicisti. Oggigiorno i tembang sunda sono utilizzati anche in feste, matrimoni ed in occasione di festival musicali in cui divengono vere e proprie performance. Essi hanno raggiunto le vette dell’industria discografica locale e vengono spesso riarrangiati in chiave pop.

Le voci dei tembang sono soprattutto voci femminili, mentre le orchestre di accompagnamento prevedono musicisti di sesso maschile. L’ensemble strumentale è composto da: una cetra ‘madre’ o principale (kacapi indung), un flauto di bambù (suling), una o due cetre più piccole (kacapi rincik). La cetra o kacapi è lo strumento simbolo della musica sundanese che rievoca un passato leggendario. Questo strumento accompagna il canto secondo diversi stili: dal metro libero eterofonico ad un ostinato ribattuto che funge da drone ad uno stile sincopato.

I tembang sono eseguiti secondo una struttura fissa che prevede la sequenza di tre o quattro brani in cui si passa dai primi in ritmo libero ad un ultimo in 4/4. La declamazione può essere epica (più sillabica) o lirica (con molte ornamentazioni) ed i temi vanno dall’amore, alla natura a temi più nostalgici. Il sentimento generale è quello di una velata malinconia, enfatizzato dalle scale pentatoniche utilizzate (pelog e sorog). La durata totale è di 61.24 min.

3. Nord Viêt Nam – Le Ca Trù. Ensemble Ca Trù Thái Hà de Hànoi (INEDIT)

Questa raccolta si basa sulla tradizione del Ca trù del Nord del Vietnam, in cui Ca significa ‘canzone’ e trù si riferisce a delle tavolette di bambù segnate da ideogrammi che indicavano la remunerazione delle cantanti femminili. L’usanza prevedeva infatti che, dopo passaggi vocali bene eseguiti, le cantanti ricevessero una di queste tavolette che potevano poi cambiare in denaro contante. Le origini di questa prassi sono incerte, talvolta datate attorno all’XI secolo ma più probabilmente attorno al XV.

Si tratta di una prassi prevalentemente vocale eseguita per un audiotrio ristretto in momenti privati e di svago, come una sorta di musica da camera. Le esecutrici sono solo cantanti donne accompagnate dal ritmo del phnách, un piccolo blocco in legno o bambù di trenta centimetri colpito con bacchette in legno. L’accompagnamento melodico è invece eseguito con un liuto (đàn đày) e il tamburo (trông châu) evidenzia il fraseggio e marca i passaggi vocali bene eseguiti. I brani Ca trù in passato erano di tre tipi: canzoni d’intrattenimento eseguite in case private (hát choi); canzoni eseguite nei templi degli spiriti protettori dei villaggi (hát cua đinh) e canzoni da presentare a competizioni musicali.

In questo album sono presentati brani della prima tipologia (hát choi) eseguite da un trio costituito da una cantante, un suonatore di liuto e un percussionista. La cantante detiene il ruolo principale nell’ensemble. L’usanza prevede che sia una cantante riconosciuta o di ‘prima classe’, o una ragazza proveniente da una generazione di cantanti. Dopo due o tre anni di apprendimento essa può cominciare a cantare accompagnandosi con il phnách. Dopo cinque anni può quindi chiedere di partecipare a performance di gruppi di amici o conoscenti indossando abiti tradizionali. Questo passaggio costituisce un vero e proprio rito di passaggio in cui essa è riconosciuta ufficialmente come cantante.

La tecnica vocale è molto particolare e prevede una respirazione peculiare: l’aria, trattenuta nel basso addome, va lentamente rilasciata in modo da ottenere un vibrato specifico, definito đo hôt (letteralmente: ‘riversare fili di perle’). La dizione deve essere perfettamente scandita. La postura è seduta a terra o su un divanetto di bambù ricoperto di tappeti floreali. Il suonatore di liuto deve essere esperto nell’accompagnare il canto con formule melodiche che non seguono la melodia principale ma un principio di variazione che aggiunge ‘fiori’ e ‘foglie’ all’esecuzione principale, ovvero ornamentazioni che abbelliscono determinati passaggi. Il suonatore di tamburo deve essere un esperto conoscitore del Ca trù e della poesia dei testi cantanti. Egli deve saper indicare respiri e pause esaltando il canto e non coprendolo.

L’ensemble presentato in questo album è composto da musicisti esperti di Hanoi, appartenenti allo stesso nucleo familiare e presenta brani da intrattenimento (eccetto il primo che è un brano per i templi). La durata totale è di 61.55 min.

4. Cina – Le Pavillion aux Pivoines. Opéra classique chinois Kunqu Hua Wen-yi, Kao Hui-lan et Troupe Lan Ting (INEDIT)

L’album si presenta in un cofanetto di due CD in cui vi è registrata un’intera performance di Opera classica cinese kunqu. Tra i diversi filoni operistici in Cina, essa è quella che rimane simbolo dell’arte ‘alta’ apprezzata dalle classi colte per la sua raffinatezza letteraria e gestuale. Nelle storie non vi è humor picaresco, violenza o scene di battaglia come nell’Opera di Pechino ma solo l’espressione di sentimenti alti e nobili ispirati dall’arte e una natura simbolica e disciplinata. Durante il diciannovesimo secolo è caduta in disuso per via della sua natura elitaria (preclusa al vasto pubblico) ed è oggi eseguita occasionalmente a Pechino, Shanghai e Taiwan.

 Questa registrazione in particolare (dal titolo Il Padignione delle Peonie) è stata effettuata nel 1994 dalla Maison des Cultures du Monde in occasione della visita di Hua Wen-yi, ex direttrice dell’Opera di Shanghai e ‘First Lady’ dell’Opera Kun, e della Lan Ting troupe da Taiwan. A differenza degli altri generi operistici in Cina, nell’opera kunqu il canto e la musica hanno una posizione di rilievo, come anche avviene nell’Opera eurocolta. Le canzoni, spesso scritte in versi, consentono un’espressione dettagliata e accurata dei caratteri dei personaggi. Nell’opera qui presentata ciò è particolarmente evidente, soprattutto nei tre atti principali.

Il canto, a seconda delle esigenze sceniche, può essere solista o in duetto e può essere inframezzato da brevi recitativi e dialoghi. Le tecniche vocali prevedono falsetto per giovani donne e giovani uomini, e voce naturale per uomini e donne più anziani. La recitazione è regolata da quattro principi fondamentali (le cinque tipologie di suono prodotte con il tratto vocale, i quattro tipi di respirazione, il rispetto per i toni della lingua cinese e l’articolazione scandita delle parole). Il canto è articolato su sette modi musicali che corrispondono all’espressione di determinati sentimenti secondo un sistema ben definito.

L’orchestra che accompagna è divisa in tre classi: percussioni, fiati e strumenti a corda. Le percussioni hanno un ruolo fondamentale nello scandire il ritmo, le voci dei cantanti e i gesti degli attori, oltre che ad enfatizzare le emozioni più forti. Il Padiglione delle Peonie è un’opera composta nel 1598 dal poeta Tang Xianzu (1550-1617) il quale conferiva molto rilievo alla musica, oltre che al testo, a differenza di molti suoi contemporanei. L’opera è considerata uno dei capolavori della letteratura cinese ed uno degli esempi più alti di vicenda amorosa. La durata totale è di 60.45 min.

5. Uzbekistan – Farhôd Qôri Halimov. Chant Classique Tadjiks (OCORA RADIO FRANCE)

Iniziamo con la rassegna della OCORA e passiamo all’Asia Centrale. Anche qui troviamo una grande tradizione vocale di canto classico. L’album in questione si focalizza sulla musica di Farhôd Halimov, un cantante e strumentista specializzato nel Shashmaqôm (sei maqâm), un genere aristocratico e sofisticato che risale alla grande tradizione cortese che si sviluppa su complessi sistemi ritmici e scalari e richiede una grande abilità vocale.

Uzbekistan e Tajikistan condividono una grande tradizione musicale cristallizzatasi alla corte dell’Emiro di Bukhara e del Khan di Khiva e Qoqand. A Bukhara, centro del potere, il Shashmaqôm si è consolidato in un vasto repertorio composto di diversi sotto-generi, alcuni dei quali sono sfociati in una tradizione al di fuori delle mura cortesi, meno elitaria, definita khalqi (‘per il popolo’). Tutt’oggi alcuni musicisti esperti nel Shashmaqôm si cimentano anche nel khalqi (ma non viceversa, data la complessità del primo) e Farhôd Halimov è uno di questi.

Il suo stile di canto è considerato ‘top-class’ in quanto derivato dalla tradizione non privo di un approccio personale che è considerato un grande traguardo e lo pone a fianco di grandi figure di musicisti del passato. Come i grandi maestri antichi, Farhôd canta sempre e solo accompagnato dal tanbur, un grande liuto, che egli sa suonare con grande intensità e libertà nel fraseggio. Questo artista ha accumulato negli anni un vasto repertorio in due lingue (Tajik-Persiano e Uzbeco-Chagatay) e ha prodotto diverse composizioni sui versi classici. È particolarmente abile anche nell’improvvisazione strumentale, una prassi estremamente rara nella sua regione culturale.

Farhôd Halimov nasce nel 1963 ed è afflitto da cecità parziale che presto si tramuta in cecità totale. Questo è considerato uno dei fattori che può averlo avvicinato alla musica, dal momento che la sua non è una famiglia di musicisti. Raggiunta la fama, l’epiteto Qôri, conferito ai grandi artisti ciechi, fu aggiunto al suo nome. È un termine utilizzato nell’ambito della memorizzazione del Corano. Farhôd è presto divenuto uno dei maestri di maqôm in Uzbekistan e un musicista discretamente conosciuto anche in Tajikistan. Nonostante la sua abilità non ha avuto una vasta fama per via dei diversi generi musicali promossi nella sua area (meno elitari e complessi) e per la scarsa pubblicità mediatica. Un altro motivo è il sempre più crescente interesse per generi di influsso occidentale, meno conservativi e tradizionali.

L’album propone diversi brani eseguiti da Farhôd accompagnato da diversi strumenti: l’onnipresente tanbur, il dutôr (un altro grande liuto), il rabôb (liuto a corde pizzicate) e il dyôra (un tamburo a cornice). L’accompagnamento strumentale di ogni brano è scelto in base all’origine del brano stesso sotto l’attenta supervisione di Farhôd. La durata totale è di 73.39 min.

6. Giappone – Gagaku (OCORA RADIO FRANCE)

Il secondo album che vi propongo della OCORA è in realtà il mio primissimo acquisto e uno dei CD al quale sono più legata e che ascolto con più frequenza. Il gagaku è la musica di corte giapponese suonata su un largo ensemble orchestrale eterofonico (simile per molti versi al gamelan giavanese). Questo genere di musica è datato circa attorno al II sec. d.C. e ha subito diverse trasformazioni nel corso dei secoli preservandosi fino al giorno d’oggi. Il gagaku è un tipo di musica strumentale colta al quale talvolta si accompagna il canto o la danza. Esso è considerato la più antica forma di musica armonica esistente al mondo al giorno d’oggi. Il termine gagaku significa ‘musica raffinata, nobile e giusta’, in contrasto con la musica ‘popolare’ considerata più volgare e primitiva.

Questo genere musicale esiste in realtà in tre paesi: Cina (in cui si chiama Yà Yuè), Corea (in cui si chiama a-ak) e Giappone (gagaku) ed in ognuno ha diverse connotazioni estetiche. I generi si sono tuttavia evoluti a tal punto che l’origine comune non è più individuabile. In Giappone, il gagaku si suddivide in realtà in due sottocategorie: musica shintoista (Mikagura) e musica colta profana che a sua volta si divide in tre sottogruppi: musica strumentale (kangen), musica per danza (bugaku) e musica vocale (uta-mono). Normalmente in un concerto si eseguono brani rappresentativi di ogni sottogruppo. Tuttavia, in questa registrazione troviamo solamente brani strumentali e per danza.

L’orchestra gagaku è solitamente composta da sedici musicisti: 3 flauti (ryûteki o komabue), 3 oboe (hichiriki), 3 organi a bocca (shô), 2 liuti a quattro corde (biwa), 2 cetre a 13 corde (koto), un piccolo gong (shôko), un grande tamburo (taiko) e un tamburo suonato con bacchette utilizzato dal leader dell’orchestra. Ogni strumento ha una funzione precisa (simile a quella che è la ‘colotomia’ nella musica giavanese ovvero una determinata gerarchia di suoni). I gong e i tamburi assicurano la periodicità e marcano quella che nella musica occidentale corrisponde alla ‘misura’, i flauti suonano la melodia principale e le cetre e i liuti eseguono le variazioni melodiche.

I musicisti di questa registrazione appartengono alla Ono Gagaku Kaï Society fondata nel 1887 e costituisce una delle migliori orchestre gagaku private. La durata totale è di 52.43 min.

7. Cambogia – Musiques du Palais Royal (Années soixante…) (OCORA RADIO FRANCE)

L’album propone un esempio di musica di corte cambogiana degli anni ’60. Il Royal Palace, sede della monarchia Khmer ha ospitato numerosi musicisti e danzatori che sono stati motivo di prestigio del palazzo. Il suono dell’orchestra pinpeat risuonava dal viale d’ingresso principale ogni mattina, per quattro ore di fila, mentre i danzatori si esercitavano per qualche cerimonia. Al tempo non vi era un mese in cui i rituali di corte non richiedevano la presenza dei musicisti di palazzo e di ballerini e ballerine. La fama di questi artisti era conosciuta in tutto il mondo. Lo scultore Rodin, che ebbe l’occasione di ammirarli in Francia nel 1960 ed esclamò: “È impossibile vedere la natura umana portata a tanta perfezione […]. Molti dichiarano di avere la bellezza, ma non la rendono. Ma il re di Cambogia ce la dona. Anche i bambini sono grandi artisti. Questo è assolutamente inimmaginabile!”.

Il mestiere di musicista veniva spesso tramandato di padre in figlio. L’eccellenza era mantenuta pretendendo un certo rigore verso il patrimonio musicale degli antenati la cui memoria veniva tramandata alle generazioni successive. Si tratta di una tradizione orale che ha tramandato più di trecento composizioni. Ognuna di essere era connessa ad un preciso momento del rituale o ad una sequenza di danza. A fianco all’orchestra un gruppo composto dalle otto alle venti cantanti donne aggiungeva spessore emotivo all’esecuzione. Oggigiorno, tuttavia, molto è andato perduto per via degli anni bui sotto i Khmer Rossi.

La tradizione ha origini molto antiche, come testimoniano i rilievi dei templi di Angkor, uno dei siti templari più spettacolari dell’Asia. Testimonianze di musiche e danze risalgono all’XI secolo e si susseguono attraverso le diverse epoche e dinastie, andando incontro ad influenze straniere (come quella thailandese), revival e momenti di restaurazione (come quella avvenuta all’epoca della regina Sisowath Kossamak negli anni ’40) fino a raggiungere un nuovo splendore negli anni ’60. L’orchestra pinpeat, grande protagonista delle arti di corte, parente del phiphat thailandese e affine ad altre tipologie di ensemble sudest asiatiche, è l’ensemble tradizionale più noto e utilizzato in Cambogia, nelle arti e nelle cerimonie tradizionali. Esso è composto da famiglie di strumenti che includono: xilofoni, set di gong, fiati (flauti e oboi) e percussioni.

Il mohori è un’altra tipologia di ensemble che si può ascoltare in questa registrazione. È utilizzata in molti concerti ed eventi a scopo di intrattenimento. È anche parte integrante di alcuni rituali come il Water Festival. L’ensemble si compone di uno xilofono leader (il roneat ek), tre strumenti a corda tra cui due vielle, due tamburi e talvolta un paio di cimbali.

Un altro interessante elemento incluso in questo CD è il coro sakrava, composto da antichi canti rituali eseguiti secondo tecniche tramandate fino agli anni ’60. Oggi è molto raro udire questi canti che sono quasi sconosciuti alle nuove generazioni.

Le tracce contenute in questo album sono state registrate tra il 1966 e il 1968 tra le mura del palazzo reale, quando la prassi musicale era al suo apogeo. Altre registrazioni incluse sono state realizzate nel 1970 con il Royal Ballet durante alcune esercitazioni. Queste registrazioni costituiscono un’importante testimonianza di un passato in gran parte cancellato dagli anni bui della dittatura e dal genocidio. La durata totale è di 73.30 min.

8. Cina – Musique Ouigure. Muqam Nava (OCORA RADIO FRANCE)

Questo album si presenta in una doppia edizione in custodia di plastica o sottoforma di libretto cartonato (come anche altri della stessa casa discografica). Quella che viene presentata è l’antica tradizione musicale dell’Uyghur, una regione autonoma dello Xianjiang, nella Cina occidentale. Quest’area, storicamente chiamata Turkestan, è stata sede di diversi gruppi etnici (uzbechi, kirghisi, kazachi) tra i quali gli uiguri si distinguono per la loro raffinata cultura e il loro sistema linguistico derivato dal Sogdian, un idioma iranico. Gli uiguri sono di religione islamica, anche se originariamente erano manicheisti e il loro insediamento originario era in Mongolia. La questione identitaria del gruppo etnico degli uiguri e della regione dell’ex Turkestan è molto delicata ed ha attraversato momenti controversi sino al giorno d’oggi.

La musica rispecchia appieno queste questioni identitarie e costituisce un elemento di coesione tra i diversi elementi culturali e linguistici presenti in questa regione, che è divenuta parte della Cina nel 1884. Il genere del muqam (termine che deriva dal maqam arabo) racchiude diversi stili a seconda dei centri culturali di diffusione (Turfan, Qumul, Dolans e Ili). Tra tutti il più prestigioso è il repertorio di Kashagar e Yarken, del sud dello Xianjiang, che si compone di 12 muqam ed è stato dichiarato patrimonio UNESCO del 2006.

I dodici muqam (onikki muqam) sono dodici suites composte dalle 240 alle 300 melodie. Ad ogni muqam è attribuito un nome che affonda le radici negli antichi sistemi arabi e persiani, anche se i contenuti sono differenti. Tra i dodici, il muqam Nava (letteralmente ‘melodia’ in persiano) presentato in questo album, è suonato su scala pentatonica nel modo musicale in Si o Mi, con poche modulazioni. Tra i musicisti che lo eseguono vi è Abdukerim Osman, la cui competenza è rinomata e che ha curato personalmente le modalità di esecuzione.

La struttura del muqam, come quella di una suite, si articola in più movimenti: un’introduzione (o sezione di ‘lunghe melodie’), una seconda sezione di ‘arie narrative’ e una terza sezione di ‘melodie festive’. La prima parte è quella più classica e l’intera suite può durare anche più di un’ora e mezza. In questa registrazione alcuni brani sono stati omessi per questo motivo, senza cambiarne l’ordine. Gli strumenti musicali che accompagnano il canto sono: satar (liuto ad arco), dutar (liuto a due corde), il ravab (liuto con cassa armonica in pergamena), ghijäk (viella), chang (cembalo), dap (percussione). La durata totale è di 67.10 min.

9. Pakistan – Faquirs du Sindh (OCORA RADIO FRANCE)

La raccolta di brani di questo album proviene da una rinomata tradizione musicale sufi del sub-continente indiano: quella del Shah-jo-Raag, il canto del santo Shah Abdul Latif Bhittai, un riverito maestro, poeta e musicista sufi definito come: “un genio che scorre come un fiume cristallino, brillante come la luce stessa, limpido come il vento”. La sua memoria è rimasta impressa tra la popolazione Sindhi, che risiede in una delle quattro province del Pakistan. Vi sono sette gruppi di fachiri che praticano il Shah-jo-Raag. Ognuno di essi esegue celebrazioni una notte alla settimana nel loro santuario, il mausoleo dedicato al grande maestro. Esso rimane il centro della devozione verso il maestro, meta di pellegrinaggi e nottate all’insegna della musica e della preghiera.

Nel libretto esplicativo che accompagna il CD vi è narrata la lunga ed interessante storia di Shah Latif Bhittai. Nato nell’anno che nel calendario gregoriano corrisponde al 1689, da una famiglia illustre discendete del profeta Muhammad, è dipartito all’età di sessantatré anni. Nonostante la sua evidente erudizione letteraria e una profonda conoscenza della lingua araba e persiana, non sembra aver ricevuto un’educazione formale. Sin da giovane età dimostra una naturale inclinazione per la meditazione, la contemplazione e il nomadismo. All’età di vent’anni ha già attratto un vasto numero di seguaci con i quali forma una comunità nel deserto chiamata Bhit Shah (Monte Shah). È lì che il corpo principale delle sue composizioni poetiche e musicali prende forma.

Il suo messaggio ricalca la grande tradizione Sufi, fiorita secoli addietro nel Sindh (la prima regione del sub-continente indiano a convertirsi all’Islam). L’area del Sindh è stata in realtà crocevia di varie filosofie e culture, dalle culture pre-ariane, alla persia, alla Grecia e ai culti hindu-buddhisti e all’islam, oltre agli influssi delle culture centro-asiatiche. Ogni periodo ha lasciato il suo marchio nella stratificazione linguistica, religiosa e culturale della regione, in cui gli insegnamenti di ogni corrente si sono cristallizzati in quella successiva. Anche Shah Latif stesso è stato influenzato nel suo pensiero da diverse correnti di pensiero filosofico e religioso, soprattutto dal buddhismo e dall’induismo vendita.

Il sufismo ha ancora un’influenza vitale nel Sindh, come si evince dalla corposa quantità di fedeli che si recano ogni anno in pellegrinaggio ai diversi santuari locali dedicati ai santi Sufi. Il sufismo Sindh trascende dalla semplice conoscenza di Dio e ricerca un’intima esperienza della divinità nell’individuo stesso, esperienza che passa attraverso pratiche ascetiche ed estatiche volte all’illuminazione, simbolo di unione totale col divino. La musica è parte integrante e necessaria di questo processo: “Music is not a goal, it is a vehicle. Singing is not an end, it is a transport, a way to the Divine”.

Shah Latif Bhittai contribuì notevolmente alla tradizione poetica e musicale Sindhi. I suoi poemi spesso germogliavano da leggende e ballate care al popolo Sindhi. Questa registrazione in particolare ne evoca diversi elementi principali. Si tratta di una sorta di evocazioni in stile trobadorico, tratte da menestrelli di villaggio, che cullano l’animo umano ma al tempo stesso instillano l’ineffabile ricerca del Divino e ne indicano la ricerca all’interno di sé stessi, sollevando il velo dell’ego. In questo modo egli unisce la cultura del suo popolo agli insegnamenti filosofici.

Egli avviò una nuova era musicale nel sub-continente, continuando la tradizione dei raga (modi musicali associati momenti del giorno e stati d’animo) e facendola confluire in quella della musica tematica sur, in cui confluiscono la tradizione classica e quella popolare. Nella tradizione Sufi del sub-continente indiano, dove il testo poetico è generalmente cantato, la musica opera come un ponte di collegamento tra poesia ed esperienza mistica. La melodia scelta ricopre un ruolo essenziale in questo processo. Quelle scelte da Shah Latif hanno in parte contribuito alla sua popolarità. Delle circa trenta melodie da lui sviluppate ve ne sono di provenienti dal mondo classico e da quello popolare in un continuum della tradizione.

Egli creò anche un nuovo strumento per accompagnare il canto, il damboor. Si tratta di un liuto a quattro corde proveniente dall’Egitto ed in seguito adottato nel Vicino Oriente ed in Persia. A questo strumento Shah Latif aggiunse una quinta corda, a simboleggiare metaforicamente il cuore

umano con le vene pulsanti di vita. Questa quinta corda prese il nome di zuban, letteralmente ‘lingua’, in quanto essa permetteva al nuovo damboor di esporre la melodia più chiaramente e ad un registro più acuto, contribuendo a tramandare la tradizione del canto acuto arabo-persiano. Un’ulteriore innovazione di Shah Latif fu di concepire il damboor anche come strumento ritmico oltre che melodico. Prediligendo il canto corale a quello solista, il maestro creò per il suo damboor una forma vocale unica, lo Shah-jo-Raag, unendo la voce grave (sanhoon) a quella acuta (graham) col risultato di un canto a più voci su diverse ottave, in un’armonia unica in quell’area geografica.

Lo Shah-j-Raag si articola nel modo seguente: vi è un’introduzione strumentale sul damboor, poi un’esposizione della scala musicale da parte del cantante leader sul primo verso della prima stanza, quindi la ripresa del verso intonato dal cantante alla sua destra ad una diversa ottava. Il cantante leader espone quindi il secondo verso ripreso nello stesso modo dal secondo cantore, e così via fino alla fine della stanza. Un dialogo simile è instaurato tra cantante leader e un terzo cantore sulla seconda stanza. Il ciclo si ripete secondo una progressione ascendente che vede la melodia raggiungere un registro sempre più acuto. Il sur viene ripetuto quindi più volte in registro sempre più acuto ed in un’enfasi crescente che esplode in una sezione improvvisata in ritmo più veloce, in una spirale canora che accompagna metaforicamente l’ascesa verso l’estasi e l’illuminazione.

L’album riporta la registrazione del Sur Sasui, diviso in quattro parti e composto da Shah Latif e basato sulla leggenda dei due amanti separati Sasui e Punhun, metafora dell’amore divino. La durata totale è di 68:28 min.

10. Iran – Mozafar Shafii et l’Ensemble Râst (OCORA RADIO FRANCE)

Si tratta di un altro album della OCORA disponibile in doppia versione (io ho prediletto quella in cartone). Ci spostiamo in Iran e incontriamo la grande tradizione letteraria persiana. Definire la musica iraniana ‘tradizionale’ può essere complesso in quanto in Iran si riscontrano diverse culture musicali a livello regionale. La tradizione alla quale fa riferimento questa raccolta è quella praticata nelle città in cui è parlata la lingua persiana, anche se non è precisamente localizzata. In realtà parlare di ‘tradizione’ in questo caso è limitante in quanto molte sono le trasformazioni delle musiche antiche avvenute dal ventesimo secolo. Spesso gli etnomusicologi si trovano di fronte a questa difficolta di demarcare i rigidi limiti di una ‘tradizione’ quando essa è vivente ed in continuo fermento, al passo con i tempi seppure testimone di un passato antico.

La sfida che gli autori di questo CD propongono è proprio quella di proporre un ascolto che appare nuovo in confronto alle altre registrazioni di musica ‘classica’ persiana, anche se ne condivide le radici. Si tratta di una sorta di ‘classico moderno iraniano’. Sin dagli anni’40, con l’introduzione della Radio Iraniana, molti cambiamenti hanno investito le orecchie degli ascoltatori abituali, generando anche qualche protesta. Tuttavia, le trasformazioni non hanno scalfito ciò che è il cuore di questa musica: l’arte vocale, legata alla poesia. Lo stile vocale è quello che è rimasto più immutato rispetto ai grandi cantori dei secoli passati. Al contrario, l’accompagnamento strumentale è sempre più volto al virtuosismo, anche se sempre sottomesso al canto, servo della parola poetica. Si tratta, del resto, di un’arte che deriva dagli alti e intimi circoli letterari e non dalle sale da concerto.

I musicisti che si esibiscono in questa registrazione sono un gruppo di esperti che hanno lavorato per il maestro Mozafir Shafii ed hanno selezionato i due modi musicali (dastgâh) da interpretare, organizzato le sezioni e lavorato su testi e parti strumentali. Gli strumenti dell’ensemble sono: târ (liuto), santur (cetra), ney (flauto) ‘ud (liuto), setâr (liuto) e kamânche (viella). Nella prima parte troviamo dei brani in stile Shur (il più importante dei dodici modi musicali) brillante e maestoso, mentre nella seconda parte vi sono brani in stile Râst (un modo sofisticato che pochi sanno suonare) dolci e soavi. La durata totale è di 76.28 min.

11. Arabia Saudita – Mohammed Amân. La tradition du Hejâz (OCORA RADIO FRANCE)

Quest’altra raccolta della OCORA ci presenta una tradizione musicale dell’Arabia Saudita, precisamente dell’Hejâz (letteralmente ‘barriera’) ovvero la lunga catena montuosa che, correndo parallela al Mar Rosso, separa le pianure costiere dalle piane desertiche del Nejd. Nel 1925, la regione dell’Hejâz divenne parte del regno dell’Arabia Saudita, dopo il collasso dell’Impero Ottomano. Ma la storia dell’Hejâz è ben più antica: essa la regione che ha dato i natali alla cultura araba. Le sue città più note, La Mecca e Medina, sono tutt’oggi meta di pellegrinaggi da tutto il mondo oltre che centri di rinascita artistica e letteraria.

Anche prima dell’avvento dell’Islam, l’Hejâz è stato un centro di poesia e musica. La fiera annuale di Ukâz vedeva tribù provenienti da tutta l’Arabia per prendere parte alle competizioni poetiche. D’altro canto, non mancavano anche arti meno nobili, come la musica dei cabaret e le canzoni delle qayna (‘schiave cantanti’) conosciute più per le loro doti musicali che erotiche.

Durante la dinastia degli Omayyadi (VII-VIII sec.) Mecca e Medina divennero rivali culturali. In quegli anni, numerosi musicisti di origini africane, persiane e bizantine furono liberati dalla schiavitù e divennero immensamente popolari e molte cantanti femminili raggiunsero picchi di celebrità. Tuttavia, quando la dinastia degli Abbàsidi spostò la corte a Baghdad (circa metà dell’VIII sec.) l’Hejâz perse la sua supremazia culturale, pur mantenendo quella economica e religiosa. Inoltre, per via dell’invasione mongola del XIII sec. e la successiva espansione dell’Impero Ottomano, poco è rimasto noto circa queste antiche tradizioni musicali.

Qualcosa della tradizione dell’Hejâz è riuscito comunque a sopravvivere e ad essere riscoperto nel ventesimo secolo. Nel 1904 al consolato olandese di Jedda fu registrato per la prima volta un anonimo musicista che utilizzava lo stile di Hejâz in alcune canzoni. Anche altri musicisti lasciarono il segno in alcune registrazioni di anni successivi e resero chiaro come la tradizione dell’Hejâz era stata evidentemente influenzata dal Vicino Oriente, ad esempio la Siria.

Lo stile musicale dell’Hejâz è costituito da alcune caratteristiche principali: un preludio vocale in ritmo libero (majass o mâqam), un sistema modale, specifiche formazioni ritmiche, peculiari e raffinate tecniche esecutive delle percussioni. L’introduzione vocale in stile della Mecca ha la maestosità del mawâl del Vicino Oriente, la sobrietà del mutawwal yemenita e la delicatezza melodica dell’istikhbâr del Maghreb. È spesso intonato in formule onomatopeiche come “Yalalâ yalalan”. Il sistema modale, preso in prestito dal Vicino Oriente, è ibridato a quello della penisola arabica, unito a tratti e terminologie derivanti dall’Iraq (di origini persiane) e dal Maghreb. Alcune forme rimangono tuttavia specifiche dell’Hejâz ed hanno formule ritmiche definite.

Mohammed Amân, l’artista presentato in questo album, è l’ultimo esponente di una lunga linea di musicisti di stile Hejâz. Egli è solito intonare il canto a cappella o accompagnato dall’’ûd (liuto). Appassionato di musica sin da bambino, divenne un cantore in giovane età ed in seguito muezzin alla Moschea del Nobile Santuario della Pietra Nera, al-Harâm al-Sharîf. Attualmente lavora per la televisione ed è primo premio al Festival Internazionale di Samarcanda. Mohammed Amân è un maestro di arte vocale e strumentale della tradizione, specialmente nel preludio (majass).

Nella musica dell’Hejâz, oltre all’ ‘ud (liuto), il violino e il qânûn (cetra), la caratteristica delle orchestre è la varietà di percussioni come il naqqârât o nagrazân, due timpani di diverse dimensioni legati assieme e percossi con bacchette, e il masga’, un’altra tipologia di timpano. La tecnica percussiva dell’Hejâz è peculiare: il darbuka (un tamburo a calice) è tenuto sul ginocchio sinistro, tenuto tra gli avambracci, mentre la mano sinistra tiene il târ (un largo tamburo a cornice), lasciando la mano destra libera di colpire entrambi alternativamente. In questo modo si ottiene una grande varietà timbrica.

Il repertorio poetico scelto per questa registrazione da Mohammad Amân trasporta l’ascoltatore in un altro tempo (fino all’VIII). Non mancano comunque elementi più moderni, anche poemi contemporanei e influenze Siriane, Egiziane e yemenite. È come compiere un enorme viaggio attraverso il Maghreb, il Vicino Oriente e la penisola arabica senza bisogno di passaporto. La durata totale è di 71.21 min.

12. Myanmar – Mahagitá: Harp and Vocal Music of Burma (SMITHSNONIAN FOLKWAYS RECORDINGS)

Passiamo all’ultima delle tre case discografiche proposte e rifacciamo un salto nel sudest asiatico, stavolta in Myanmar, una terra compresa tra i giganti India e Cina di cui poco si parla (se non per notizie di cronaca non sempre felici purtroppo). Nonostante i confini con i due colossi (e con la Thailandia, un’altra terra ‘mainstream’ soprattutto per viaggi e turismo) la tradizione dei birmani, il gruppo multietnico predominante nell’attuale Myanmar, mantiene le sue caratteristiche peculiari. Anche qui riscopriamo un’altra grande tradizione vocale e strumentale cha affonda le sue radici in una cultura antica e raffinata, quella del thachìn gyì (‘grande canzone’). Si tratta di musica vocale accompagnata dal suono dell’arpa birmana tramandata dai grandi maestri della tradizione.

Come altre grandi tradizioni classiche del mondo (alcune delle quali elencate in questo articolo) il genere non attrae il vasto pubblico. Questo è dovuto agli elementi distintivi della musica, che la rendono poco immediata all’ascolto: ad esempio, la linea melodica non lineare e ripetitiva, la difficoltà linguistica dei testi e l’estetica che rimanda ad un controllo delle emozioni (che è il contrario di quanto avviene nella musica pop).

Il repertorio del thachìn gyì si è sviluppato nell’arco di secoli, patrocinato dalle corti della Birmania centrale. Esso include alcune centinaia di testi poetici, ognuno con le sue caratteristiche musicali. Il declino delle corti, unito alla caduta di Mandalay sotto i britannici nel 1885, ha sancito la fine della lunga e continuativa linea di trasmissione per mezzo dei centri di potere e un rapido declino dell’arte stessa. Il ritorno ad un nazionalismo culturale in anni più recenti ha incoraggiato la popolazione a riscoprire il patrimonio culturale del passato, di cui il thachìn gyì è parte essenziale.

I brani sono intonati accompagnati dall’arpa a sedici corde (saùn gau’) sospese su un manico in legno ricurvo, e la cui elegante cassa armonica è laccata (una delle altre arti birmane) e ricoperta di pelle di cervo. Le corde, originariamente in seta, sono ora in nylon o plastica. Gli ornamenti dell’arpa possono essere molto preziosi e dettagliati, il che la rende un vero e proprio oggetto d’arte. La sommità dell’arco in legno su cui sono tese le corde deve terminare nella forma della foglia dell’albero sotto il quale il Buddha ottenne l’illuminazione. L’arpista (uomo o donna) posiziona l’arpa sul proprio grembo e siede a terra a gambe incrociate, con l’arco ligneo sulla parte sinistra. La tecnica classica prevede che pollice e indice della mano destra pizzichino le corde ma alcuni musicisti utilizzano tecniche più innovative.

L’arpista deve accompagnare il canto con grande virtuosismo, eseguendo lunghe introduzioni soliste, interludi strumentali tra le strofe cantate, brillanti frasi cadenzali e passaggi in ritmo libero che dimostrano la maestria dell’esecutore. Per i birmani l’arpa è uno strumento degno di rispetto, il più nobile della loro tradizione. Il cantante o la cantante tengono in mano altri due strumenti: due campanelle tenute assieme da un filo () e un piccolo battacchio di bambù (). Il/la cantante stabilisce il tempo del brano o di alcune sezioni di esso suonando questi due strumenti secondo pattern prestabiliti. Nonostante le loro ridotte dimensioni, il e il ricoprono la stessa funzione che hanno i gong e i tamburi negli ensemble sudest asiatici.

Gli interpreti di questa registrazione sono U Myint Maung e la cantante Daw Yi Yi Thant. Il libretto allegato al disco fornisce dettagliate biografie sul gruppo musicale. Sono artisti esperti che erano soliti esibirsi per puro piacere conviviale in case private, durante nottate all’insegna della musica (come avviene in molti paesi sudest asiatici), tra gli anni ’50 e i primi anni ’70. Oggi questa musica è udibile per lo più in radio e in TV. Si assiste ancora raramente a eventi privati, anche se i musicisti rimasti sono ben pochi. La durata totale è di 60.16 min.

13. Giava Orientale – Songs Before Dawn: Gandrung Banyuwangi, Music of Indonesia vol. 1 (SMITHSONIAN FOLKWAYS RECORDINGS)

Da Giava Occidentale (presentata con la INEDIT) passiamo all’altra estremità dell’isola. Si tratta di Banyuwangi, ultimo lembo di terra di Giava prima della traversata per la più nota Bali (di cui vi sono interessanti dischi ma ho deciso di tralasciare per ora in quanto più ‘mainstream’). Questo CD è anche il primo volume della lunga e a mio avviso meravigliosa serie curata da Yampolski, Music of Indonesia. Tra i vari CD della collana che ho acquistato finora (ancora non tutti ahimé), ho trovato questo tra i più suggestivi, ma forse sono influenzata dalle mie personali ricerche. Un altro album degno di nota è senz’altro quello della musica Betawi, Giava nord-occidentale (Vol. 5).

Questo album è forse una delle uniche registrazioni ufficiali del repertorio di Banyuwangi. Le ‘canzoni prima dell’alba’ ovvero il repertorio della danza gandrung (lett. ‘amore’). Si tratta di una danza cerimoniale che si articola nell’arco di una nottata, fino allo spuntare dell’alba (da qui il titolo della raccolta). La protagonista è una giovane ragazza nubile che canta e balla accompagnata da un piccolo ensemble e intrattiene un pubblico (solitamente di uomini). Generi simili sono diffusi in tutta Giava e parte dell’Indonesia vanno sotto vari nomi (tayub, ronggeng, etc.). Queste pratiche derivano da antichi rituali in onore di Dewi Sri, la dea madre, per assicurare prosperità nei raccolti e benessere nei villaggi.

Il gandrung di Banyuwangi si distingue dalle altre prassi di cantanti-danzatrici non solo per repertori e strumenti dell’ensemble ma anche per le sue origini, a metà tra Giava (isola a prevalenza musulmana) e Bali (isola a maggioranza induista). Il gandrung deriva dalla più antica prassi del Seblang di cui conserva alcuni tratti, come i brani del repertorio musicale. Non a caso la playlist di questo album si intitola Seblang Subuh, appunto ‘Seblang dell’alba’. Si tratta di un particolare repertorio eseguito dalla sola danzatrice. Si esegue solo in caso gli ospiti siano già stanchi per continuare a danzare ma vi sia ancora tempo prima del sorgere del sole.

Oggi il gandrung è eseguito in occasione di matrimoni, circoncisioni, feste di villaggio e festività nazionali. Solitamente si inizia con una esibizione solista della giovane cantante-danzatrice. Si prosegue poi con la danza sociale, regolata dal maestro di cerimonie che distribuisce scialli colorati ai partecipanti (ovvero coloro che danzeranno con la giovane). La danza conserva ancora il suo significato erotico anche se oggigiorno la prassi in questo senso è leggermente cambiata. Vi è ancora la richiesta di brani da parte del pubblico, che vengono ricompensati con mance in denaro elargiti alla cantante-danzatrice direttamente dal beneficiario. Il leader dell’orchestra e i musicisti partecipano con humor spesso intriso di erotismo e incitazioni verso la cantante e il suo partner di danza. Questa sequenza continua finché l’atmosfera cala di tono. In quel caso, se non è ancora giunta l’alba si esegue il Seblang Subuh.

Questa sequenza di brani può durare all’incirca un’ora. Essi sono eseguiti secondo un ordine prefissato (rispettato in questa registrazione) ma non è necessario eseguirlo tutti. L’ensemble musicale è costituito da: la gandrung (cantante-danzatrice), due violini uno dei quali è leader melodico, due piccoli gong ‘seduti’, un gong appeso, un triangolo e due tamburi. Si tratta ovviamente della conformazione moderna, influenzata dai traffici portoghesi che hanno determinato l’introduzione di strumenti occidentali. La scala musicale utilizzata è lo slendro (pentatonica) giavanese ma con influssi balinesi, cinesi e occidentali. Il canto è eseguito in stile melismatico e si basa su versi poetici spesso pieni di allusioni. La durata totale è di 63.13 min.

14. Bengala – Bengal Traditional Folk Music (SMITHSONIAN FOLKWAYS ARCHIVAL, UNESCO COLLECTION)

Passiamo qui ad un altro formato che è quello dei CD della collana UNESCO. Il packaging in cartone è molto sottile. Non è tra i miei preferiti anche perché a differenza di altri non è corredato di libretto esplicativo (che è però disponibile in versione PDF sul sito della Smithsonian), ma la qualità della registrazione è buona e questo album in particolare è molto bello.

La regione del Bengala è situata nella parte nord-orientale del sub-continente indiano. Essa è divisa tra lo stato del Bangladesh (Bengala Orientale) e Bengala Occidentale. Altri territori che prima facevano parte del Regno del Bengala (di Vanga o Banga) sono confluiti in paesi limitrofi durante il colonialismo britannico. Si tratta di un’altra regione asiatica abbastanza controversa dal punto di vista culturale e religioso. Essa vede infatti un’ampia stratificazione dovuta ai domini e alle influenzi succedutesi nelle epoche storiche. Alcune delle influenze principali sono state il movimento tantrico Vishnava e l’Islam dei Moghul.

La popolazione bengalese vanta una lunga e ricca tradizione letteraria ed una vivace tradizione di folk music. Cantanti, suonatori di flauti e di tamburi si trovano in ogni villaggio. Anche la tradizione poetica ha la sua rilevanza e le canzoni Baul (contenuto in questo disco) ne sono un esempio. Il termine Baul significa letteralmente ‘matto’.

I Baul sono cantori e musici erranti che vanno di villaggio in villaggio intonando inni devozionali e canti accompagnati da diversi strumenti musicali. Cimbali, campanelle, percussioni (tabla e dholak), liuti (ekatara e dotara), flauti e tanpura (che fa da bordone) sono tra i più utilizzati. La ricchezza della tradizione Baul è il sincretismo religioso. Nei canti si trovano infatti elementi induisti e islamici, soprattutto d’ispirazione sufi. Il celebre poeta Tagore è stato autore di molti testi scritti su musiche Baul. Alcuni Baul seguono correnti di buddhismo e tantrismo e divengono monaci erranti (Udasi Baul o Sanyasi). Altri sono stanziali e risiedono in un solo luogo (Sujuan Baul). La durata totale è di 57.32 min.

15. Tajikistan – Badakhshan Ensemble – Song and Dance from the Pamir Mountains, Music of Central Asia vol. 5 (SMITHSONIAN FOLKWAYS RECORDINGS)

Passiamo ad un’altra bellissima raccolta della Smithsonian. Questa si intitola Music of Central Asia, in 10 volumi, e prevede il doppio disco CD e DVD (convenientissimo per il prezzo). Un altro bellissimo disco di questa collana, che ho recentemente acquistato dal sito, è Bardic Divas – Women’s Voices of Central Asia. Ho scelto tuttavia di presentare questo volume in quanto ho avuto occasione di udire dal vivo il Badakhshan Ensemble nel 2016, alla Fondazione Giorgio Cini di Venezia.

L’ensemble prende il suo nome dall’omonima regione montuosa, conosciuta poeticamente come ‘il tetto del mondo’ (dal persiano Bam-i Dunya), che si espande tra Afghanistan e Tajikistan. Qui, in una serie di fiumi e valli che discendono dal Pamir, si rovano piccoli insediamenti in cui gli abitanti hanno coltivato vivaci tradizioni di canti devozionali, danze e musica contemplativa. Le musiche e le danze del Badakshan costituiscono una pratica culturale distinta e peculiare tra la moltitudine di prassi dell’Asia Centrale (alcune delle quali suggerite in questa rassegna di ascolti).

L’isolamento geografico dell’area ha contribuito alla conservazione del linguaggio Pamir che continua ad essere utilizzato nelle folksong, anche se per i brani a carattere più spirituale si predilige il persiano antico o moderno. La poesia orale e scritta si sono fuse per molti versi e alcuni dei poeti più noti sono spesso trasmessi in forme orali.

Il Badakhshan Ensemble è sorto grazie a Soheba Davlatshoeva, una vivace cantante e danzatrice cresciuta in un piccolo villaggio del Badakhshan. L’ensemble sorto autonomamente e non finanziato da fondi statali. I musicisti erano studenti dell’Institute of Arts di Dushanbe (la capitale del Tajikistan). Essi sono tornati nel loro paese d’origine dopo la chiusura dell’istituto nel 1990, a causa della guerra civile. Soheba e altri artisti si riunirono nel teatro della regione di Khoroq e iniziarono a tenere concerti ed accompagnare performance. È qui che si unì Jonboz Dushanbiev, un altro membro del gruppo, suonatore di ghijak (viella) ed esperto conoscitore di musica e poesia locale, oltre che costruttore di strumenti.

Il repertorio di questo ensemble abbraccia una varietà di stili e generi musicali, che rispecchia la varietà di occasioni sociali in cui esso si esibisce per la comunità. Tra le varie occasioni vi è quella delle celebrazioni di matrimoni. Qui il gruppo non si esibisce nel repertorio folkloristico ma in quello pop, generalmente più apprezzato dagli ospiti. Il genere di pop da loro eseguito è in realtà una varietà locale che combina intervalli, timbri vocali e ritmi tradizionali del Badakhshan ad un accompagnamento su sintetizzatore, basso e chitarra elettrica e alcuni strumenti del Pamir elettrificati (nel DVD vi è un esempio). Questo genere ibrido di pop è diffuso in molte aree dell’ex URSS e ha radici in canti popolari diffusi in era sovietica.

Un’altra tipologia di brani è quella dei canti devozionali, eseguiti ad eventi cerimoniali e rituali. Ne sono esempi i ritrovamenti notturni per le commemorazioni di defunti, i raduni religiosi del giovedì e venerdì, il Ramadan e alcune feste locali come il Nawruz (capodanno tradizionale). Molti abitanti del Badakshan sono musulmani ismailiti (della corrente sciita dell’Islam), una cultura presente da secoli nelle montagne del Pamir. È una tradizione esoterica affine a quella Sufi che trova larga espressione in forme culturali tra cui la musica ricopre un ruolo fondamentale. I concerti spirituali di poesia intonata accompagnata da strumenti a corda e tamburi a cornice sono considerati un mezzo per raggiungere la via dell’illuminazione e della verità interiore. Questo tipo di performance è in genere definito maddoh e i cantanti (maddohkhon) sono altamente stimati. Aqnazar Alovatov, che presta la sua voce all’ensemble, viene dalla tradizione del maddoh.

Un altro genere musicale frequente nel repertorio del Badakhshan Ensemble è il falak. Sono canti in forma di lamento ritenuti avere proprietà curative e che affrontano spesso temi filosofici. Uno dei temi ricorrenti è il ‘fato’ e la limitazione dell’umano arbitrio. Il falak è cantano sia da uomini che da donne e può essere eseguito a voce sola, in un ritmo veloce (come nella prima traccia di quest’album) o con accompagnamento strumentale e metro regolare (come nella traccia 5).

Infine, il repertorio di questo gruppo include una varietà di musica strumentale dal forte valore identitario. Arcaiche melodie per danza mescolano il timbro metallico della viella ghijak al suono secco del tanbur del Pamir – una variante dello strumento diffusa in molte parti dell’Asia Centrale – alla risonanza del daf (tamburo a cornice). Le danze sono caratterizzate da movimenti aggraziati che simboleggiano il volo degli uccelli (elemento che rimanda a forme di animismo pre-islamico). Un esempio di questo repertorio è la traccia 8. Qui si odono i suoni del liuto setâr la cui funzione di drone ricorda quella del sitar indiano, quelli della viella rubab e i ritmi distintivi della musica del Badakhshan.

La speranza di Soheba Davlatshoeva è quella che questa musica, esistita per centinaia di anni, continui ad essere tramandata alle nuove generazioni che potranno eseguirla con anima e cuore. La durata complessiva del CD è di 62.01 min.

Qui si conclude la prima lunga (forse troppo) rassegna di ascolti. Ho voluto dare un primo assaggio sulle musiche dell’Asia, con una introduzione sulle case discografiche e qualche informazione sommaria sulle tradizioni in questione.

Non ho parlato di prezzi dato che in realtà oscillano abbastanza. In media, un CD di musica tradizionale ben fatto, di una buona casa discografica come quelle sopraelencate può costare dai 10 ai 20 euro. Ci sono tuttavia picchi di 30 o 40 euro per album o formati rati (come il vinile, che si trova spesso su Discogs). Ci sono però spesso offerte su Amazon e altre piattaforme online che fanno scendere il prezzo anche di molto. Io, ad esempio, ho recentemente acquistato un album di musiche dal Messico della OCORA per soli 3 euro. Come ho già accennato, molti album si trovano anche su Spotify Premium o Amazon Music. Quindi potete semplicemente cercarli e ascoltarli all’infinito, anche se purtroppo in quel caso non beneficiate del libretto e della soddisfazione del collezionista compulsivo. Non mi rimane che augurarvi buon ascolto!