«C’entra l’autunno e c’entra il tempo in sé,
come quando smetti di fumare, e ancora allorché
gli alberi sembrano rotaie che si sono liberate dalle ruote,
binari
che arrugginiscono ai bordi di silvestri snodi ferroviari».
(Iosif Brodskij, E così via, 1987)
Ottobre 2020
L’odore dei camini.
Valli bianche di muri di nebbia.
Le prime cime innevate mentre nel ‘resto del mondo’
È fine estate.
È aperta la caccia.
Le more appassiscono.
La raccolta dei funghi,
Cesti ricolmi, cappelli bianco-rosati
Sbucano sul terreno come pepite d’oro nel Klondike
Sono vietati, come tanto altro
Come tutt’altro.
I sottoboschi pullulano di castagne
Vietate.
È tutto vietato, quello che un tempo
Era per l’uomo sussistenza.
È tutto schedato, bollato, l’odore del muschio.
Come cambia la vita di paese mese
Dopo mese,
Specialmente se tu hai sempre e comunque,
La prospettiva da fuori.
Che per quanto ti sforzi, per quanto
La sedentarietà non è fatta per te
Ti ci adatti, come farebbe ogni buon nomade
Fino alla prossima
Eterna
Ripartenza.
Novembre 2020
Allora è questa, la deliziosa melanconia dei paesi in autunno. Foglie morte accantonate su sentieri di pietra sul retro di abitazioni dimenticate tra ciuffi di erba incolta, come dei giardini segreti in attesa di essere riscoperti dai primi aliti di primavera. L’odore di fumo dai camini e l’avvolgente aroma della cera liquida che dalle numerose edicole pervade l’aria. Due madonnine, un vasetto di fiori dai colori autunnali, spenti e melanconici, un santo, una croce di ferro, lumini, preghiere.
Sedersi su una panchina in legno pericolante davanti ad un edificio storico, lì dove termina la strada ed è di nuovo campagna, è un posto in poltronissima nel teatro del silenzio. La mia voce rimbomba tra le mattonelle levigate del lastricato che si inerpica tra le facciate colme di ninnoli, tendine, vasi di fiori ormai fuori stagione, fino alla piazza di Sant’Attanasio. Un omino basso e tarchiato, accompagnato dal suo grasso gatto alter-ego, si appoggia su un bastone per percorrere il tragitto da una panchina alla porta della sua abitazione. Saranno solo trenta metri ma sembra di guardare un’intera maratona in slow motion. Scansa la tendina di pizzo bianco fuori la porta, su cui svetta un campanello a forma di gallo dipinto, richiama il suo gatto alter-ego, e scompare anche lui. Tutto ripiomba nel silenzio, come nessuno avesse mai abitato qui.
Siamo lontani dai giorni della frenesia estiva, dai bar aperti, dal viavai in piazza, dalle grida dei bambini, dai mercatini ambulanti e dagli escursionisti di passaggio. I raggi del sole pomeridiano rompono momentaneamente il continuum di brezza autunnale, fresca, che porta costantemente con sé aromi di sottobosco, di brace, di terriccio e di focolai attivi. I rintocchi metallici della campana infreddolita, i suoi battimenti irrigiditi, giungono dalla chiesa. Ma non vi sono fedeli. Sono tutti nelle loro case ad attendere l’inverno, abituandosi all’idea.
Sul familiare sentiero di ritorno, che ormai percorro quasi ogni giorno da due mesi a questa parte, comincio a scorgere lievi mutamenti del paesaggio. Punti di rosso, giallo e marrone cominciano a colorare le distese dalle mille tonalità di verde, come un pittore indeciso che voglia dare carattere alla sua tela ma ancora non osa troppo.
Torno con una bustina piena di more, rosmarino, menta e camomilla. Il Mausoleo Frascati 2 Hollywood ha aggiunto una voce – calcata a mano nel gesso sul bordo inferiore della targa – ‘I magnifici 4’. Se chiedi il significato, ricevi un rimando ai Beatles e a nuclei familiari ampliati. Ogni nominativo aggiunto si fa più complesso, come lo scorrere delle stagioni, dall’estroversione dei mesi caldi all’ermetismo dei mesi freddi.
Non so cosa riserverà l’inverno, la verità è che dopo tanti anni ai tropici forse neanche me lo ricordo davvero, sarà come un ritiro spirituale, un viaggio interiore lungo e arduo, da cui forse ne usciremo freschi e rigogliosi come i primi germogli di marzo, o forse solo un po’ più freddi e distaccati, coi nostri significati intrinseci e i nostri alter-ego moltiplicati.
Non fai in tempo a scrivere due pensieri fuggevoli che la nebbia di novembre è già lì ad attorniarti. Quattro mesi sono passati dal ritorno dall’ennesimo viaggio e già la frenesia del viaggiatore si fa sentire, bussa alla porta, toc toc, ma tu non puoi aprire, per decreto parlamentare, uno dei tanti.
Assieme all’ondata di nebbia e freddo umido a titillare i condotti lacrimali è arrivata, inesorabile, la seconda ondata di pandemia. Per me è la prima in Italia. È il secondo lockdown nel secondo paese, in meno di un anno. Ripenso alla quarantena indonesiana (vedi Karantina) quasi con nostalgia. Ma so che è solo nostalgia di un tempo ciclico e sempre uguale, dove non hai la sensazione che le settimane e i giorni ti sfuggano di mano. Perché qui non c’è ciclicità, è tutto un divenire che ha una direzione ben precisa, è fatta di morti e rinascite graduali e questo fa molta più paura, specialmente quando ti ritrovi nel pieno delle transizioni a guardarti attorno senza poterci fare nulla.
Qui, in tutti gli agi e il calore familiare (che tanto agognavo lì ai tropici, sola e in balìa di sciami di locuste e della doccia con il secchiello) il pegno lo pago comunque, e lo pago così, con lo scorrere inesorabile del tempo. Tic toc. Ogni foglia che imbrunisca, ogni castagna che si faccia tonda e pesante fino a sopperire al senso di gravità, ogni mora intirizzita dal gelo, ogni legno bruciato, mi ricordano crudelmente che il tempo passa e, ciò che è peggio, noi non possiamo gettarci nella solita corsa forsennata per inseguirlo, perché siamo bloccati, in stallo.
E mentre i cacciatori sono sguinzagliati là fuori e senti qualche sparo qua e là, tra i latrati dei loro cani in lontananza, mi trovo a non poter più uscire dal triangolo di santi Stefani e Marie su questi colli. Le sporadiche fughe a Roma – illusioni di un movimento bidimensionale città-campagna – sono ormai un ricordo. È vietato uscire dal proprio comune di residenza e dalla propria illusione di nomadismo.
Passo le mattinate nebbiose a metter da parte legna per l’inverno. Vado avanti e indietro, ripetutamente, ciclicamente (sempre per perpetrare l’inganno) sul sentiero in terra battuta cosparso di ghiande e mozziconi di sigaretta. Da dietro i vetri della mia mansarda guardo il bianco spettrale che cola sui boschi multicolore, un tempo verdi e ridenti cartoline di “Bentornato”. Ma presto cambierà ancora, la cortina lattea si dipanerà e si andrà a raggrumare sulle cime sottoforma di nevischio, lasciandosi dietro un cimitero di rami spogli e camini fumanti. La prossima diapositiva del mio instabile mondo stabile mostrerà quindi lieti e freddi paesaggi invernali, sotto un cielo severo dal sorriso un po’ spento ma tutto sommato cordiale.
L’inesorabile scorrere del tempo dei climi temperati è forse meglio dell’immutabile, ciclico, rincorrersi temporale dei tropici?
Ora come ora, non saprei proprio dirlo. Se avessi saputo fare una scelta, non avrei passato gli ultimi sette anni ad attraversare continenti e fusi orari. Ma il mondo ora la scelta la pone, un momento che ho sempre temuto arrivasse prima o poi ma non credevo che potesse arrivare davvero. Le pandemie sono nemiche degli animi inquieti.
Forse, dopotutto, questi sono i momenti migliori per venire a patti con sé stessi e fare lunghi viaggi interiori, illuminati dal focolare domestico, tra pensieri erranti come braci fumanti sfuggiti a strati di cenere, pronti a riprendere fiamma viva da un momento all’altro.
Dicembre 2020
«Nella stagione astratta la vita sembra più reale che in qualsiasi altra, persino sull’Adriatico, perché in inverno tutto è più sodo, più netto».
(Iosif Brodskij, Fondamenta degli incurabili)
I mesi freddi sulle montagne abruzzesi sono intimi e oscuri. Gli un tempo verdeggianti paesaggi – poi multicolore su una palette arancio-ocra-bordeaux – sono occultati da questa fitta coltre di nebbia bianco latte che isola ognuno nelle proprie esistenze come in un film di fantascienza. Quest’anno, a contribuire all’isolamento ci pensa il lockdown, che è divenuto totale. Dai peregrinaggi limitati a santi e Marie della ‘zona arancione’, siamo passati al rosso vivo e inesorabile. Letteralmente chiusi in casa. I colori delle restrizioni governative sembrano seguire un po’ quelli delle stagioni: il verde delle scorribande estive in libertà, l’arancio del lento ritiro autunnale e un rosso natalizio che il Natale lo cancellerà quasi del tutto.
Le strade, rese già semi-vuote dal romantico silenzio post-settembrino, che era rotto solo da passi di vecchini casuali, gatti raminghi e residui di escursionisti della domenica, sono ora totalmente deserte, come un set abbandonato dello stesso film di fantascienza di cui fa parte la nebbia che bussa alla tua finestra ogni mattina. Uscire fuori (per quel che è consentito) è come infrangere il tempo mitico di uno spazio sacro. Sono passata dalla ciclicità alla lineare discesa, alla stasi, in soli quattro mesi. È troppo persino per un viaggiatore cronico.
Ma lo spazio sacro vero e proprio è la casa e il suo centro il focolare. Il camino è uno di quei beni di lusso che rende la quarantena di tutti migliore. Sono nella mia mansarda all’ultimo piano, conscia di avere le solite familiari distese di boschi e valli ai miei piedi, ma intimorita dall’aspetto surreale che hanno assunto. Per questo ormai mi affaccio poco o niente. Il sole non penetra più dalle finestre fino a tarda sera ma comincia ad imbrunirsi già dal primo pomeriggio. È un’altra sensazione che non provo mai a tropici, questa delle giornate che si accorciano e si irrigidiscono man mano che si penetra a fondo di una certa porzione dell’anno.
Le giornate buie, fredde e isolate sono quelle ideali per accendere il camino e posizionarci davanti tappeti, cuscini e coperte, un candelabro gotico, una candela all’aroma di cannella, un incenso, prepararsi un tè caldo e qualche snack e circondarsi d libri, scritture, film, musica…
È un tempo da trascorrere tutto con sé stessi e con i nostri personalissimi modi di farci compagnia, creando il giusto ‘environment’, il giusto ‘mood’. Recita i tuoi mantra, chiudi il tuo circolo, fai le tue provviste, allestisci il tuo personale altare esistenziale, e portaci dentro tutto quello che ti servirà per preservarti al meglio in vista della prossima rinascita. Come un animale che si fa la tana e va in letargo, pronto a riprendere vita allo sciogliersi della prima neve.
Giorni dell’avvento
Una mattina brinosa monto in macchina col mio foglio di autocertificazione. C’è della legna per il camino da prendere e qualche altra scusa per ‘riveder le stelle’. Alla seconda curva già mi sento Armstrong sulla luna (è quasi un mese che non esco di casa). E stop: un branco di possenti bardotti guidati da un uomo con trattore (‘andiamo a comandare’ direbbe qualche saltimbanco moderno) mi blocca la via. Lascio che sfilino uno ad uno, belli, selvaggi, i forti musi a un palmo di naso (letteralmente) dal mio finestrino coperto di condensa. Bianco, grigio, pezzato, nero e via. Trattore incluso, di un bel rosso natalizio o ‘rosso Abruzzo’, una nuance a collezione limitata, speciale edizione pandemia. ‘Andiamo a comandare’.
Le chiome degli alberi hanno assunto una tinta antica, un rosa salotto di una vecchia signora in un cottage della Provenza, mentre le strade si sfaldano sempre di più sotto gli sgarbi del gelo.
Sono davanti al mio camino acceso mentre laggiù, nell’altra vita, le mie amiche indonesiane sgombrano la mia casa dall’affitto annuale giunto al termine, mentre il mio permesso di soggiorno inizia il conto alla rovescia verso la prossima (non-rinnovabile-dall’estero) scadenza. Un pezzo di carta che giace in un cassetto a dissolversi in un mucchio di altre scartoffie che presto perderanno ogni significato, mentre una parte di me, come gli alberi rosa antico salotto di una vecchia signora di Provenza, lentamente, muore.
Alla vigilia dell’ultimo giorno prima dello sgombero totale della mia casa a Yogyakarta ritrovo un’illusoria e momentanea libertà. Attraverso il rosa antico dei salotti di alberi decadenti e vado giù fino a Tagliacozzo, città d’arte, che ricordo come una delle punte di turismo e movida da Avezzano all’Aquila. Deserta, muta, spettrale. Sento le mie suole scollate fare attrito con l’asfalto ad ogni passo.
Il bar giace in disparte come un vestito da festa smesso. Un cartello verde indica che è possibile consumare solo da asporto, tramite una piccola finestrella laterale. Continuo su verso il Chiostro di San Francesco e mi siedo sulla pietra fredda ad ascoltare il mio respiro sotto la mascherina, mentre un musicista mezzo scrostato mi guarda da un affresco col suo liuto in mano. Vorrei dirgli che lo capisco. Faccio un giro del chiostro e giro un video che sembra messo in muto. Un cartello con scritto ‘ingresso spettacolo’ giace sconfitto addosso al cardine del portone.
Entro in chiesa, per quel che può valere, per una che crede in tutto e niente e accede incensi a sette divinità di diverse religioni ogni giorno. Mi benedico col sanitizer, una cosa che sembra quasi fatta di proposito, e mi fermo a contemplare la reliquia di Thomas da Celano in una teca, chiedendomi se mai davvero esistano i santi e, in caso, cosa ne pensino di tutta questa faccenda.
Mi rimmergo nei vicoli vuoti del borgo vecchio. Il paese sembra un presepe che si sono scordati di allestire, in una bella casa che qualcuno ha lasciato in fretta e furia.
Decido di provare il brivido dell’asporto. Il barista mi spara uno degli: “Eh purtroppo…” di repertorio mentre gli chiedo se posso sedermi sulle sedie fuori o c’è un’ordinanza restrittiva anche per quello. Vado a prendermi un po’ di freddo in piazza in onore della vita di prima, una recita di Natale a corto di cast. Mentre fisso la famosa fontana ad obelisco che sembra quasi incompleta senza le orde di turisti abbarbicati sopra e accendo una sigaretta con le mani congelate, guardo il pacchetto con su scritto Djarum Kretek e sorrido pensando che l’Indonesia non mi molla neanche qui e che probabilmente non lo farà mai, in qualsiasi angolo sperduto di mondo io vada a parare durante le prossime pandemie.
Non so se credo ai santi e non so se credo ai colpi di fulmine, non so esattamente in cosa credo, ma a una cosa ci credo, all’amore. Quello indissolubile che non si estinguerà mai anche a distanze siderali. Quando mi chiedono se sono impegnata rispondo di sì, ho una ragazza. Di dov’è? A quel punto do le coordinate dell’Indonesia, ma tutta, da Sabang a Merauke. È un amore tossico e impossibile, ma vive in me e mi dà vita, ogni singolo giorno, ovunque io sia, anche dispersa in antichi salotti rosa antico cottage di una signora provenzale tra i monti abruzzesi.
Vigilia
La vigilia di Natale 2020 è me che vado in giro per Santo Stefano di Sante Marie (cinquanta abitanti, due chiese e un bar con tutti i cinquanta presenti) con una tazza termica piena di tè gusto garofano e cannella. Unica donna sotto i cinquant’anni in un vestito da festa, parlo ad una videocamera e mostro le bellezze del presepe ‘non vivente’ attorno a me ad un interlocutore virtuale. E non sono neanche abbastanza ubriaca per poterlo giustificare.
Secondo un’ordinanza governativa il bar dovrebbe essere chiuso, in realtà, ma chi vuoi che venga a dirci niente quassù.
L’aria è secca e promette neve da un momento all’altro. È quel tipo di freddo a cui ti abitui volentieri e che non ti entra mai prepotentemente nelle ossa. Non viola il tuo ardore interiore ma ti isola da qualsiasi interscambio con fonti di calore, umane e non.
Nella desolazione generale s’intravede qualche tentativo natalizio: qualche lucina intermittente a forma di stella, un presepe avvolto in una grotta di iuta a fianco ad una patriottica panchina tricolore. Il presepe gigante davanti la chiesa grande con grottesche pecore dalla faccia in cartapesta. La chiesa è buia e fredda, lasciata nelle mani di una provvidenza cieca a cui nessuno, ormai, dà più credito. È una delle poche differenze dai tempi della peste manzoniana.
La gente – quella arroccata attorno al bar, che comunque è un buon ottanta percento della popolazione locale – è cordiale e di buon umore. Se ci pensi, a loro non cambia un granché, pandemia o non pandemia.
Gli antichi salotti di una signora provenzale sono ormai ridotti ad ispida lanuggine, in attesa di venir rimpolpati da una bella imbottitura bianca.
Alle sette di sera, un’ora prima di quella che quest’anno è fissata come l’ora di nascita ufficiale di Nostro Signore, il cielo si colora di fuochi scoppiettanti. Qualcuno è salito fin sopra la montagna per regalarci qualche barlume di speranza. Mentre qualcun altro non ha pensato che è inutile stare a discutere su orari di nascita quando Gesù è presumibilmente nato a due fusi orari di distanza. La croce illuminata nelle tenebre veglia sul paese e conferma un atto di volontà e altruismo. Non ci sarà rimasta la provvidenza, ma l’umanità ancora se la cava.
Giorno di Santo Stefano
Oggi, il giorno del santo patrono locale, finalmente cade fitta la neve. I salotti vengono sepolti sotto un bianco rilucente mentre fiocchi soffici cadono lenti e incessanti in un loop temporale. Finalmente un po’ di statica ciclicità, anche qui. Un’impasse di finta calma mentre nell’arco di quelli che sembrano dieci minuti è passato un intero pomeriggio e il presente è giù sepolto sotto centimetri di gelo.
Ora, il presepe ricomincia a prender vita, una vita mistica, vibrante e sottile.
Capodanno
Un arcobaleno abbraccia Scanzano tra intermittenze di pioggia. Una rosa solitaria sfida l’inesorabile divenire dei climi temperati puntando come un dardo infuocato verso lo scudo metallico del cielo.
Stanotte ho fatto volare una lanterna secondo il rito buddhista (sempre per ribadire la mia coerenza religiosa). Si è volta in cerca di fortuna tra Valdevarri e Castelvecchio, carica delle mie ansie e aspettative. Il desiderio non l’ho espresso, credo che tutti i santi qui attorno ne abbiano già sentite abbastanza, che facciano loro, una cosa vale l’altra, basta che accada ‘qualcosa’. Credo non possa esserci desiderio migliore per un viaggiatore in tempo di pandemia.
Primo gennaio
La neve cade costante e consistente, senza compromessi o mezzi termini. Ha atteso quattro stagioni per poter venire allo scoperto, è il suo momento.
Inizio l’anno 2021 affacciandomi su strade buie e fredde, vuote, illuminate da lampioni irrigiditi e da un tè corretto al liquore di genziana. Uno dei tanti regali del posto.
Passeggio per i vicoli del presepe ora quasi-vivente fluttuando su strati di mousse di ghiaccio in cui i miei doposci affondano come in un letto di nuvole rapprese. La piazza della chiesa sembra il set di un musical di Broadway. La neve decora tutto, dai corrimano alle inferriate in ferro battuto, sovrasta i tetti e occulta le panchine, glassa piante e orpelli rendendo il più banale ammennicolo un oggetto da museo. Corre accuratamente sugli spigoli e non lascia niente al caso, forse neanche il caso stesso.
La finestrella appannata della mia stanza oggi regala una vista invidiabile. I monti e le vallate sono branchi di dalmata maculati assopiti tra pandori ricoperti di zucchero a velo. La nebbia si è dissolta in flebili e docili nuvole sferzate dai raggi del sole che vogliono uscire ad ogni costo a vedere che si dice qui fuori, come paesani curiosi. E tra le cime bianche spunta Sante Marie, coi suoi i quadratini rossi, gialli, rosa e arancio delle casette dai tetti innevati, arroccati tra un’erta, un dirupo e un pendio.
Un nuovo inizio
Mi sveglio al suono delle campane di Sante Marie (o di qualche altro santo qua attorno, vai a capire quale) ed esco sul mio balconcino in cima al mondo in pigiama e doposci, senza un apparente motivo, forse per una sorta di risposta automatica a qualsiasi richiamo la mia psiche percepisca come segno divino. Dopo tre giorni di cielo color Fabriano A4 sporcato di polvere di matita e cortine di nebbia più consistenti della mia determinazione ad immortalare ogni minimo mutamento di paesaggio, il sole riesce a dire la sua e a mettere in risalto ogni dettaglio. Ora la foto cartolina è definitiva, il pittore ha dato l’ultimo tocco di pennello ed il presepe è tornato alla vita.
Mi vesto in fretta ed esco di casa. Mentre mi fermo ad osservare mio padre intento ad ammucchiare legna asciutta davanti all’uscio di casa, un signore si ferma ad osservare noi, a sua volta. Nell’attimo perfetto in cui avviene la triangolazione visiva, si verifica quelli che io registro come avvenimento chiave di volta della giornata. “Una benedizione a voi”, o qualcosa che suona così ma pronunciato in dialetto stretto, prorompe dalle labbra dell’uomo.
Rimaniamo interdetti per qualche istante, non capendo immediatamente le sue parole. Poi la mia fulminea e innata tendenza a comprendere lingue non mie fa il suo lavoro e capisco come colta dalla solita epifania joyciana che non mi spiego mai. “Grazie, anche a lei”, rispondo in un imbarazzante perbenismo cittadino. Lui lo coglie, o forse lo sa già. “Da quanto siete qui?” (lo dice sempre in dialetto ma io ormai sono entrata appieno nel codice linguistico altro, è come se avessi il traduttore simultaneo). Gli dico che papà ci vive da mesi, io… lo sapessi. È contento che il paese si ripopoli, come il resto degli abitanti.
Forte del primo incontro quasi simbolico del nuovo anno continuo la mia passeggiata su per il paese. Alla piazza della chiesa incontro Frascati 2 Hollywood intento a spalare neve mentre un grosso gatto roscio si fa i fatti suoi tra cumuli bianchi. Mi dice che deve spalare neve dalla stalla o sarà inaccessibile. Gli dico che fa bene. Mi chiede se non mi sono stufata di stare qui. Gli dico che effettivamente no, sarà che mi adatto bene ai luoghi isolati o che comunque per quello che devo fare ora (scrivere, leggere, pubblicare, riscrivere, rileggere, il cerchio della vita accademica) va più che bene.
Mi allontano tra distese e colate di bianco sulle scalinate che spariscono in angusti viottoli tra stalle e cantine.
Seduta sulla neve, in cui ho ritagliato un gelido e comodo trono, guardo la montagna glassata davanti ai miei occhi. Gli alberi sono stecche di liquirizia bagnati da un po’ di glassa e la chiesetta in cima al paese è gravata da strati di bianco, il piccolo arco in mattoni con la campanella ancora mai udita incorniciati dal gelo.
Tutto tace, tutto è bianco.
Il Covid non esiste più, ora c’è solo la neve a zittire tutto e tutti. Da un’apocalisse all’altra. Questa almeno è più fruibile.
Pareti bianche alte quasi due metri foderano il paese da capo a piedi. Continuo a calpestarla, toccarla, darle forma, buttarmici sopra. La neve è l’elemento più caro al tatto. Mi inerpico tra sagome bianche che ricordano vagamente macchine, vasi, tetti, balconi, panchine. I lampioni impellicciati si stagliano contro un cielo oggi mite. Castelvecchio sembra una reclame per dolci natalizi, o forse proprio un dolce natalizio stesso. Un trionfo di casette di pan di zenzero e zucchero. Non riescono a venirmi in mente altre metafore oltre a quelle culinarie. Sarà che la neve richiama il Natale e il Natale il cibo (di Natale).
La terza campana del terzo santo suona. Forse è proprio quella si Santo Stefano. Sembra di essere sospesi tra le nuvole, privilegiati, tra il boato del vento in lontananza tra i valichi, qualche uccellino coraggioso e latrati di cani dalle orecchie infreddolite. Non una singola voce umana. Tranne al bar. Se passi davanti al bar c’è tutta l’umanità che vuoi.
Un geranio sbuca da un cumulo di neve a bordo strada presagendo la prossima stagione ancora lontana anni luce. Quasi una rassicurazione che prima o poi verrà, in qualche modo. Ho visto tre stagioni mutare in quattro mesi, in Asia ne ho vista una in sette anni. Tutto muta, tutto cambia, ogni mese, ogni giorno, forse ogni ora. I salotti provenzali sono ora bianche teste calve di alieni ricoperte da un sottile strato di capelli dritti color antracite. Con qualche paesello-reclame di panettone nel mezzo, nebbie sparse e finiture in panna montata.
Riscendo verso casa dopo un pieno di aria, neve, luce, suoni, odori, sensazioni e parole. Ho fatto le mi scorte a lunga scadenza, scorte interiori. Più mi approssimo al cuore del paese e più si rifà viva la traccia umana. “La finestra da ju balcone la vado a richiude o lu sai te?”. Il cane di uno degli uomini del crocicchio del bar mi fa le feste. “Basta che gli dai da mangiare!”. Ridono.
Continuo a riscendere il corso principale, l’unico, tra lampioni col colbacco e gatti delle nevi. Un’altra anima, un’altra tappa. Un signore con un secchio di cenere e un barattolo di passata di pomodoro, stivali verdi di gomma al ginocchio, mi sorride. “Bella la neve”, gli dico. Si è bella, quando porta turismo, mi risponde. Ma quest’anno va male. Si ferma a raccontare aneddoti storici, è la parte che preferisco. Anche nel 2012 fece quasi due metri di neve, 1.60 metri solo nel suo orto.
Poco più avanti un altro crocicchio (‘assembramento’ in gergo covidiano) di uomini in stivali e giacche troppo leggere ai miei occhi per quel che c’è intorno, sono intenti ad osservare (guidare, aiutare, commentare?) l’operato di un trattore che rimorchia una macchina impantanata sulla stradina per Valdevarri. “La pasta gliel’acconcio”. Ritorno al mio interlocutore. “Gliela condisco, al cane”, fa cenno al barattolo di pomodoro. Continua il suo racconto.
Mi dice che fino agli anni settanta il paese contava ottocento abitanti, quattrocento votanti, secondo il censimento. C’erano bambine, famiglie e scuole. Poi si è svuotato. Chi viene qui? Come fai con scuola e lavoro? “Se c’hai i milioni vivi come un signore!”. Direi di sì. Mi racconta di quando non c’erano i trattori e nei periodi di intense nevicate dovevano spalare le strade con asini, cavalli e muli. Se avevi le bestie eri un signore. Poi è arrivato il trattore, uno per tutto il paese. Ora ci sono gli spazzaneve e la protezione civile.
Vorrebbe parlare ancora e io vorrei non smettesse mai ma non vuole trattenermi per paura di annoiarmi. Noi giovani veniamo trattati con guanti d’argento. Lo rassicuro che ripasserò e potrà raccontarmi tutte le storie che vuole. Mi dice che lo farà con piacere e torna, come di ce lui “a perdere i tempo tra ji animali e ju orto”.
Io torno alla mia mansarda sul mondo a scrivere un po’ di tutto e ad attendere il disgelo, ad annotare segni e cambiamenti climatici e mutamenti paesaggistici di questo inesorabile divenire, per ricordarmi di cosa significhi quando, un giorno, in un universo distopico senza pandemie, tornerò alla staticità atemporale dei tropici. Nel frattempo, mi rimetto ‘a ju lavoro’.