Jalan Jalan

Capitolo 4 – Ampel

«Gli occhi azzurri! Per gli dèi!” esclamò il signor K. “Che cosa sognerai la prossima volta? E aveva, immagino, i capelli neri?”. “Come hai fatto a indovinare?” domandò lei, stranamente agitata. “Ho pensato al colore meno probabile” disse lui, freddamente. “Bene, erano proprio neri!” esclamò. “E quell’uomo aveva la pelle molto bianca; oh, era straordinariamente insolito».

(Ray Bradbury, Cronache Marziane)

23 dicembre 2014

Surabaya, Quartiere Arabo

Nel pomeriggio, decidiamo di rinunciare al sacrosanto riposo e usciamo verso le 16.00 a fare un giro al quartiere arabo. La Lonely Planet descrive questo quartiere come una sorta di Medina indonesiana, con la sua famosa moschea, Masjid Ampel, e il suk.

Il motorino senza quella carovana di bagagli accroccata sopra è tutta un’altra storia. Quasi pensiamo di aver finito le tribolazioni. Poi, nel nostro tentativo di dirigerci verso il nord della città, incappiamo subito in una serie di difficoltà a catena che ci fanno rimpiangere la nostra decisione. Per dirne una, le strade sono quasi tutte a senso unico, ma i sensi di marcia non sono segnalati dalla cartina. Quindi, tutto il percorso studiatoci a priori seguendo le graziose linee gialle e rosa non ha alcuna validità, perché un divieto di transito dopo l’altro ci fa fuori ogni tentativo di pianificazione.

Fermiamo chiunque per chiedere informazioni ma non sappiamo cosa chiedere perché non abbiamo un posto preciso dove andare. Continuiamo a ripetere ‘daerah arab’ (la ‘zona araba’) ma nessuno sembra capire che vogliamo. Forse non lo sappiamo neanche noi. Poi un signore ha un’illuminazione ed esclama: “Ampel!”. Continuiamo comunque a perderci ma almeno adesso abbiamo un nome da dire.

Dopo un’altra apoteosi di sensi unici e confusione parcheggiamo il motorino in Jl. Kh. Mas Mansyur, chiunque sia. Siamo arrivati. È una strada stretta e caotica, piena di banchetti ambulanti di cibo di ogni genere accatastati gli uni sugli altri. Masse informi di gente, motorini, becak e uomini in sarung a quadri e copricapi musulmani fumano e discutono ai crocicchi, fissandoci e lanciandoci commenti con aria divertita.

Dato che non abbiamo mangiato in un’intera giornata di viaggio, a parte saltuari snack, decidiamo di fermarci ad uno dei mille chioschi. Essendo in un quartiere arabo, ci viene naturale optare per quello del kebab. Per arrivarci dobbiamo infilarci sotto un tendone che cela altri innumerevoli banchetti alimentari. Mentre il nostro uomo è intento a riempire piadine con insalata, salse e uno strano tipo di carne di un rosso quasi innaturale, cerchiamo di attirare la sua attenzione. Niente. Come se non ci udisse. Riproviamo due o tre volte ma lui non sembra proprio rilevare la nostra presenza. Visto che ci sono altre persone sedute ad attendere, immaginiamo di dover fare lo stesso.

Ci prendiamo un tè freddo al chiosco adiacente e ci mettiamo buoni a sfogliare la mappa. Dopo quasi un’ora di attesa e la totale indifferenza da parte dell’uomo, che nel frattempo ha servito chiunque sia arrivato dopo di noi, perdiamo la pazienza. Paghiamo i nostri tè e ci rivolgiamo all’uomo del kebab, dicendogli che se li può tenere, noi ce ne andiamo. Mentre siamo già fuori il tendone lui improvvisamente si sveglia dall’incantesimo e ci urla che possiamo prenderli, sono pronti.

Nel frattempo il sole è sceso, ci siamo giocati l’ultima ora buona per le fotografie e stiamo ancora morendo di fame. Decidiamo di addentrarci nel kampung della moschea, il famoso Ampel, dove si può accedere solo a piedi. Dopo un po’ di svolte labirintiche chiediamo ad un ragazzo seduto sotto una pensilina dove trovare del cibo. Ci indica Jl. Kh. Mas Mansyur. Tornate al Via e tanti auguri. Del resto in queste viette non c’è ombra di venditori, sono solo troppe case e vite arroccate le une sulle altre.

Risbuchiamo sul marasma di chioschi e tendoni e puntiamo un secondo kebabbaro, questo più disponibile. Mentre siamo ad attendere il nostro pasto con i crampi allo stomaco diamo il via ad una sfilata di mendicanti di ogni sesso ed età che vengono a chiederci qualche soldo, in quanto turis bule (‘turisti bianchi’). La cosa andrà avanti per tutta la serata trascorsa in quel quartiere.

Finalmente a stomaco pieno, ci dirigiamo verso la famosa moschea. Più ci addentriamo nel dedalo di vicoli che la circondano e più mi sento fuori luogo. Non importa se parliamo un indonesiano fluente, siamo comunque ‘turis’, portiamo soldi e il nostro sfilare tra quelle vie desta curiosità e risate, sprona i mendicanti a non darci tregua e i più giovani a risate e domande impertinenti (che pensano che noi non comprendiamo).

Una volta giunti all’ingresso dell’enorme moschea dobbiamo dividerci. Io non posso accedere al lato anteriore, riservato agli uomini, quindi lascio Lorenzo in compagnia di un signore che lo conduce al lavatoio e vado in cerca dell’ingresso delle donne, sul lato opposto. Tantissime persone sono adagiate sui gradini della moschea, mangiano, parlano, si intrattengono. È il cuore della vita sociale. Faccio tutto il giro dell’edificio, entro in un vialetto oltre i parcheggi e sbuco in un grande spiazzo lastricato, circondato da alte mura. Ci metto un po’ a capire che sono finita nel cimitero.

Molte persone, soprattutto donne, affollano il luogo. Individuo quella che sembra l’entrata. Un cartello avvisa: WANITA MANDI (il lavatoio femminile). Mi avvicino spedita ma una bimba mi ferma. “Ce l’hai il velo?”. “No”, le rispondo. Ecco, mi ero dimenticata. “Ti serve il velo per entrare”. Perché non ci ho pensato prima? Non ho neanche un foulard appresso. Ci rinuncio e le dico che sarà per un’altra volta. Mi incammino di nuovo verso l’entrata maschile per andare a recuperare Lorenzo, con la bimba che mi segue fedelmente.

Non faccio a tempo a guardarmi intorno per scorgere il mio compagno che subito vengo accerchiata da un mare di gente con mille domande. Spiego che avrei voluto visitare la moschea ma ho scordato il velo, quindi aspetto il mio ‘fratello’ (l’alternativa era ‘marito’, qua non accettano vie di mezzo) che non ha di questi problemi. La preghiera è ancora in corso, mi dicono, e mi invitano a sedermi con loro nell’attesa. Una donna comincia a farmi una serie di domande su chi sono, da dove vengo, perché sono qui e via dicendo. È una delle migliori interviste da quando ho iniziato la ricerca e non sono io a farla a loro.

Quando sembra soddisfatta circa tutto il mio background comincia a presentarmi tutti i familiari lì attorno. Finalmente conosco io loro. Lei è un’insegnante di lingua madurese (dall’isola di Madura, collegata a Surabaya tramite un ponte sul mare lungo circa un chilometro). Sono tutti maduresi, anche i figli, ma parte della famiglia è araba e cinese. Il figlio della donna mi conferma la loro discendenza con una prova empirica: “Vedi, io sono più bianco, come te, ma mio fratello è scuro”. Ride di gusto. Come spesso avviene, si va verso la grande città in cerca di fortuna e si spera, un giorno, di tornare alla terra natia, ma nel frattempo si mette su famiglia e ci si amalgama in questo enorme melting pot. Con il tempo ci si fa l’abitudine.

Quando Lorenzo esce quasi mi sembra di dover abbandonare dei miei parenti. Li lascio con la promessa che ritornerò, stavolta col velo.

Mentre ripercorriamo le stradine inondo Lorenzo di parole, ancora presa tra un misto di contentezza per aver fatto conoscenza con la famigliola e il nervosismo per non aver potuto visitare la moschea per via delle restrizioni di genere. Lui è entrato tranquillamente dall’ingresso principale senza un minimo di disturbo, come fosse la cosa più naturale del mondo. Io mi sono girata mezzo complesso passando per parcheggi e cimiteri per poi rimanere fuori solo per non avere un pezzo di stoffa da mettere in testa.

Nel mezzo del turbine di parole, ci perdiamo, totalmente. Ci ritroviamo invischiati nell’intrico di vicoli del suk poco illuminato, tra i soliti sguardi curiosi e divertiti, richieste di denaro e compagnia bella. Quando riusciamo ad uscire da quella trappola, ci rendiamo conto che la strada è diversa. Diamo un’occhiata alla cartina. Il nome è leggermente cambiato, è solo Jl. Kh. Mansyur, senza Mas (letteralmente ‘ragazzo, fratellino’). Ci diciamo che sarà cresciuto nel frattempo, a forza di aspettare che uscissimo da lì.

Comincio a chiedere informazioni ma nessuno sembra cogliere il problema. Perché per loro è semplicemente Mansyur, senza sé e senza ‘Mas’ e, come al solito, non abbiamo un posto preciso da indicargli. Continuano a fermarsi becak che ci offrono giri turistici e giovani che allungano la mano e sghignazzano al suono di ‘turis’. Comincio a odiare questa parola. Suggerisco di mettere via cartina e macchina fotografica, sperando di dimezzare le attenzioni.

Visto che continuiamo a fare giri inconcludenti optiamo per immetterci di nuovo nel suk, raggiungere la moschea e procedere in linea retta (per quanto possibile) lasciandocela alle spalle, tentando di riprendere la strada dell’andata. Altre occhiate, richieste e sghignazzi dopo ne siamo fuori, stavolta del tutto. Il motorino sembra una benedizione, non so di quale santo, non di quelli islamici sicuro, che si è capito non sono dalla nostra.

Mentre mi fumo una sigaretta godendomi la pace ritrovata, un’intera famiglia mi guarda scioccata e mi indica dall’interno di una grande auto bianca. Quasi sono tentata di appendermi una targa al collo con un QR code.

Inutile dire che al ritorno non ribecchiamo neanche una delle strade dell’andata, ma in qualche modo torniamo a sud, alternando cartina e intuito. Ci fermiamo a mangiare e bere qualcosa in una via di cui mi ispira il nome, Jl. Kayon (come l’albero della vita nel teatro delle ombre). È inspiegabilmente piena di venditori di fiori, non ne ho mai visti così tanti in nessuna città indonesiana finora. Mangiamo usus (spiedini di carne fritta) e due bevande in bicchieri di Tom&Jerry.

Saranno stati i bicchieri o l’odore inebriante dei fiori, fatto sta che ripensando a tutte le vicende del pomeriggio ci viene un’illuminazione. Perché passare il Natale a Surabaya, quando puoi passarlo a Madura? Conveniamo che domattina ci alzeremo presto e attraverseremo il Suramadu, il ponte sullo stretto che l’Italia ci invidia. Dopotutto, le mie pene alla moschea e l’incontro con la famigliola sono stati provvidenziali. Forse i santi islamici non ci vogliono così male.