Jalan Jalan

Capitolo 3 – Surabaya

«Surabaya, Surabaya, oh Surabaya.
Kota kenangan, kota kenangan takkan terlupa.

Surbaya, Surabaya, oh Surabaya
Città dei ricordi, città di ricordi che non dimenticherò»

(Dara Puspita, Surabaya)

23 dicembre 2014

Ore 15.32

Surabaya, Hotel Kenonggo

Da qualche parte sulla statale per Suarabaya

Poco dopo esserci rimessi in marcia passiamo sotto l’arco che divide le regioni amministrative di Jawa Tengah (Giava Centrale) e Jawa Timur (Giava Orientale).

Sarà perché siamo riposati, sarà perché è giorno, non piove, c’è il sole e una piacevole brezza mattutina, sarà che la strada è sgombra e i demoni notturni a sei ruote sono solo scie di incubi lontani, ma Giava orientale già ci piace. Il paesaggio è verde e rigoglioso, ci sono distese di campi di riso a perdita d’occhio e foreste puntellate da sporadici capanni di alacri contadini dai cappelli a punta. Conveniamo che le foto per le cartoline dell’Indonesia le scattano qui.

La pacchia dura poco, verso metà mattinata ricomincia il ‘truck pride’, una sfilata clacson e lucine colorate a tutto spiano. Superata Ngawi, ribattezzata ‘la Terracina giavanese’, raggiungiamo Madiun e finalmente ci fermiamo per una sosta benzina. Come scendiamo dal motorino il benzinaio ci accoglie festante con sorrisi e strette di mano esclamando: “Bule!” a chissà chi. “Bianchi!”. Venghino signori, venghino.

Ci offre della frutta fresca in un sacchetto (che forse, noto, aveva appena acquistato per sé). Ci sono delle piccole mele e un frutto che fuori sembra un pomodoro ma dentro sa comunque di mela. Mentre banchettiamo lui ci riempie di domande sul nostro viaggio e ride di cuore ad ogni nostra risposta (e come dargli torto). Ripartiamo sulle note dell’ennesima canzone dangdut sparata a tutto volume dagli altoparlanti dell’ennesima stazione Pertamina.

Superiamo altre innumerevoli località attraversando passaggi a livello (ci stiamo facendo tutta la tratta Jakarta-Surabaya passo, passo) sotto il caldo, la polvere, gente buttata sul ciglio della strada ad attendere il passaggio del treno, folate di vento forte dalla costa nord e tir assassini. I tir hanno nomi improbabili che risaltano a letterine luminose: NANDO, IMMANUEL, MARISA, MAMAMIA, RINDU MAMA (‘mamma mi manchi’) etc.

Le nostre scarpe nel frattempo si sono asciugate, come tutto il resto che era rimasto umido dal diluvio della sera prima. La guida Lonely Planet è ancora ad asciugare appesa allo specchietto destro del motorino. Mentre due uomini sparano a dei pesci sul ciglio della strada, Surabaya si avvicina sempre di più: 140, 110, 95…

Alle 11.00 facciamo l’ennesima sosta al Pertamina di turno. Siamo in giro dall’alba. Necessitiamo di un cambio guidatore e di ripulirci da centinaia di chilometri di secchiate di polvere in faccia. La toilette è sempre a fianco alla mushollah, una delle poche certezze nella vita.

Siamo nei pressi di Mojokerto, a 70 chilometri da Surabaya. Seduti sulla piattaforma di una pompa inattiva, mangiamo dei crackers a fianco ad una signora in hijab, anche lei a godersi una sosta di un tragitto da dove e per chissà dove, adagiata sul suo motorino.

Alle 13.00, dopo altri chilometri che sembrano un’eternità e dopo un’altra serie di località che iniziano con ‘mojo’ (Mojoagung, Mojosari etc.), pensiamo di essere ormai a Surabaya. Ci fermiamo ad un Indomaret a Sidoharjo per reperire qualche bibita fresca. Più ci avviciniamo alle ore di punta più la combo caldo, polvere, traffico di mezzi pesanti si fa aggressiva. Mentre sorseggiamo una Coca-cola usufruendo dell’aria condizionata, ci viene in mente che forse dovremmo comprare delle salviette umidificate. Quando le passiamo sul viso otteniamo dei fogli di carta carbone. Comincio a volere seriamente una doccia.

Ci rimettiamo in marcia rinfrescati e forti del fatto che Surabaya è ormai vicina. Dopo pochi metri la ruota anteriore dà forfait. Ci mettiamo a cercare un bengkel o tambal ban (una sorta di meccanico tuttofare). Un gentile signore ce ne indica uno poco distante, non senza prima essersi informato accuratamente circa la nostra provenienza, destinazione e via dicendo. Perdiamo più tempo a spiegare a chiunque chi siamo e dove andiamo che a farlo davvero.

Trasciniamo il motorino ad un botteghino pieno di pezzi di ricambio, corde e copertoni, in cui l’unica presenza è un uomo allungato beatamente su due sedie in plastica rossa e bianca. Come ci vede si rianima e si rimette subito al lavoro, non senza porci le ennesime domande. Ma tanto non è che abbiamo altro da fare.

Smontiamo armi e bagagli incastrati su ogni centimetro quadrato del veicolo e ci andiamo a posizionare sulle sedie di plastica, occupando il tempo nel tentativo di cercare un posto dove trascorrere la notte, possibilmente a Surabaya.

La strada continua a vomitare il solito delirio incessante di macchine, motorini, tir e bus in un trionfo di polvere e gas di scarico. Da uno sguardo rapido alla cartina capiamo di aver allungato di un sacco di chilometri passando per Madiun e Sidorejo. Abbiamo tracciato un bel rettangolo invece che una linea retta, ecco perché non arrivavamo mai.

Il meccanico finisce prima di quanto ci aspettiamo, dunque saldiamo il conto della riparazione (40.000 rupie) e ci informiamo su quanto manchi per Surabaya. Ancora un’ora. Ci prende un colpo.

Dopo quindici minuti esatti facciamo il nostro ingresso trionfale nella city. Mi scordo sempre che ogni giavanese ha una sua personalissima concezione del tempo.

Selamat Datang di Surabaya

Benvenuti a Surabaya

Bengkel

Più tardi

La città ci piace subito. Io ricordavo solo l’ospedale dalla bella esperienza dell’anno scorso (vedi Don’t Push Yourself). Ad una prima occhiata notiamo subito gli ampi viali ordinati, una dose notevole di monumenti e un traffico che ha una certa logica. Poi mi ricredo. Un tizio nell’abitacolo di un furgoncino mi vede armeggiare con la mappa totalmente spiegata, il che crea una sorta di separé tra me e Lorenzo davanti che guida, e comincia ad urlare cose che si perdono tra rombi di motori e clacson, nell’intento di aiutarci. Riusciamo a farlo desistere, non senza gratitudine.

Seguendo la cartina arriviamo dritti, dritti al cuore della città, Wonokromo, che conosco dai racconti dello scrittore Pramoedya Ananta Toer. Siamo quasi arrivati a destinazione, ci manca l’ultima svolta ma ovviamente incappiamo nella strada deviata. Stavolta siamo noi a chiedere. Importuniamo un povero ragazzo intento ad incollarsi cartoni d’acqua sul motorino. Non solo ci accompagna a destinazione ma ci lascia anche il numero, in caso di qualsiasi evenienza.

Dopo due giorni di viaggio su un motorino sgangherato sotto ogni sorta di intemperie, dopo esser finiti sulla cima di un monte mezzo franato in piena notte, dopo aver dormito, mangiato ed esserci lavati alle stazioni di servizio, finalmente tocchiamo un vero letto, una doccia e una connessione WiFi. Siamo appena partiti ma mi sono già distrutta come avessi fatto tre interrail.