Altro Giro, Altra Corsa

Capitolo 8 – Marlboro

«In una stradina buia e stretta,

Lontana dagli occhi

Della legge e di passanti
Occasionali

C’è un posto
Lo chiamano Marlboro.

È il luogo giusto

Per un’esperienza
La più locale, tipica

Di ogni tempio e mercato, di ogni Buddha

Inginocchiato
(e di ogni Spa e di tè
speziato…).

Più di ogni pretesa di santità,

È un posto

Sbagliato.

Un ritrovo per anime

Perse, in cerca di sé,

Nella terra del ritiro spirituale

(e della corruzione monetaria, della perdizione
morale…).

Della meditazione per expats New Age

Del veganesimo e del cibo

Da strada; i ‘fancy bistrot’ 

Gli sporchi mercati.

Chia e Mango

(e larve, e fango…).

La Thailandia secondo le lonely planet

La Thailandia secondo le lonely souls.

Secondo chi l’ha capita. Davvero,

Chi ci è stato, rimasto, perso, andato

(e mai del tutto tornato).

Di chi, presto o tardi, si è trovato

A dipendere

Dal fondo di un bicchiere

Una boccata ben pagata

Fumo pregiato

La morte di fine giornata.

Big Mama ci accoglie

Sovrana

Tra tavoli e cimeli

Di ogni epoca,

Nazione, luci scarne,

E ventilatori polverosi

Big Mama sorride

E inquisisce, padrona

Big Mama, elargisce

Siamo qui, stasera

Su raccomandazione

Non si entra altrimenti

Versiamo la quota

Paghiamo il diritto

A qualche ora

Di immunità

Big Mama apre

Uno scrigno di latta,

Ben decorato, sigillato

Big Mama distribuisce

Felicità

Già pronta, incartata

Il suo assistente

Sorride, melenso,

Big Mama annuisce

Accarezza il suo gatto

Bianco, grasso. Il barista

Ci stappa una bottiglia

Un elisir locale a caro prezzo

Singha, Chang, Lao

Leoni, mitologie, città, etnie

Appiccicati su bottiglie di vetro

Vuoti a rendere

Vuoti a perdere.

Il locale

Semi vuoto

Non è una serata di gala

Ci accompagnano sul retro

Della sala

Altri pochi tavoli

E ventilatori statici

Orologi

Su orologi

Antichi, moderni, rotondi

A pendolo, fermi

Mal funzionanti

Più ce ne sono

E più si ferma il tempo

E gira, gira

Su sé stesso

Claustrofobico

Nel suo apatico smarrimento.

Afosi salottini

E ritratti di famiglia

Una cornice dorata

Una cerimonia di laurea

Volti thailandesi, uniformi

E pergamene

Tutti fermi
Da qualche parte

Bloccati

Per sempre

In un piccolo spazio

A spasso

Nel tempo

Disfatto».

Chiang Mai, 4 luglio 2019

Marlboro Club

I poster sbiaditi vorrebbero alludere ad un occidente palpabile e un po’ meno lontano. Ferrari, Beatles, Vespa e Pin Up. Modelle thailandesi in divise sportive bastano a smentire ogni tentativo di mitizzazione. File di bandiere di ogni nazione. Un boomerang australiano. Zoccoli olandesi, matrioske e vasi cinesi. Lampade in carta di riso e bambù, pendono dalle plafoniere. America, Canada, Germania, Isola di Man. I paesi che contano.

Gli assistenti di Mama contano mazzette fruscianti da 100 baht. Crederesti che siano un’enormità, se non conoscessi il valore di cambio. È tutta una pretesa, un’imitazione.

I paesi che contano.

Due americani a fianco a noi cominciano a parlare con una ‘lady’. Una signora attempata, sulla cinquantina, di colore, vestito a fiori. Sembra uscita da una sitcom anni ’80. Non si conoscono, ma fanno amicizia. Cosa avranno da spartire? Che cosa ci fanno qui? Sembrano personaggi frutto di allucinazione, come nei film di Lynch, come le maschere di un rituale di possessione. Poco dopo escono dal locale, assieme, come lo fossero sempre stati.

Vecchi compagni, nuovi clienti. Big Mama ride di gusto. I suoi piedi adagiati su una sedia di legno e velluto. Anacronistica, distopica, come le pile di libri, i cimeli vuoti di qualche vissuto di qualcun altro, qualche altra vita fa.

Il gatto addenta un’omelette di noodles dalla mano dell’assistente. Altri clienti, altri soldi, altra felicità. Il gatto ci guarda dall’alto, da una posizione di privilegio. Il fumo e l’alcol cominciano a fare effetto. Non riusciamo a gestire una partita su un vecchio biliardo. È vietato spostarlo. È vietato spostare tutto (recitano gli scoloriti e polverosi cartelli). Vorrei con tutta me stessa che qualcuno mi raccontasse gli aneddoti legati alla necessità di appendere questi divieti, vorrei risalire alle origini.

Le bandiere vorticano. Brasile, Cuba, Bangladesh. Sri Lanka. Le prime palle vanno finalmente in buca. Rimasugli di persone sudano, rimuginano nelle loro solitudini. Racket di motorini italiani, accenni di prostituzione, ad ognuno i suoi affari. Non ti toccano più di tanto, sono parte del pacchetto, del tour. Sei qui come ospite, un visitatore, un antropologo in un bistrot, un attore. Tra poche ore sarà tutto andato. Big Mama, il tirapiedi, il gatto (come in una fiaba di Carroll), gli zombie, le sensali, i balocchi.

‘Drink me’
‘Inhale me’
‘BUY ME’.

È il piccolo oscuro paese delle meraviglie. Dopo la Disneyland diurna (le città-tempio, le tempio-città, fai un’offerta al monaco, attacca la tua foglia d’oro) ecco i parchi gioco notturni (i club-tempio o le città-club?).

Offri riconoscenza a Mama. Tutti rendono omaggio a Mama. Ci fa dimenticare chi siamo, perché siamo qui e perché vogliamo dimenticarlo. Un grasso uomo bianco s’inchina e paga pegno. Ci sorride. Viene ad offrirci amicizia, già accesa, già pagata. Ci crede connazionali finlandesi. Come si fa? Siamo due russi e un’italiana. Capelli scuri, dreadlocks e tatuaggi, bassi e grossi la sua metà. Parliamo in inglese misto a termini indonesiani. Ma non conta. Tutto è possibile, del resto, qui. Il non-luogo più non-luogo di tutti e il nowhere più bello del mondo. Forse ha ragione lui. Vive qui da dodici anni. È già perso a sufficienza. Già intriso di ‘località’. È il più locale di tutti qui, eccetto Mama e il suo gatto altezzoso. Parla con un accento strano (Finlandese, Inglese, Thailandese?).

Siamo in nessun luogo ed in tutti i luoghi. Un oblio di resti di civiltà. Un patchwork di persone dal destino comune. Almeno per poche ore, fino alla prossima luce del sole. Almeno finché gli orologi rimarranno fermi ed i ventilatori spenti, e tutto smetterà di girare, eccetto nelle nostre teste. Il vero movimento è dentro. L’esterno è un pretesto. È confuso, indefinito. È un principio di meditazione.

Le Vespa e le Ferrari, Jack Daniel’s e Playboy vegliano su di noi come Buddha appesi (sdraiati, in piedi, sul loto, in preghiera…). Come idoli viziati. Finché sudore e stordimento ci renderanno partecipi della stessa confusione, della stessa bolla di sapone, e nella stessa dimensione. I viaggiatori dalle speranze smarrite. Le mappe stracciate, dilaniate e riassemblate senza logica alcuna in lembi precari. Appese a mura fittizie, barriere ideali, per sentirci migliori, per sentirci ‘fuori’. A cercare ‘casa’ in case altrui. Nuovi insediamenti in terre straniere, i neocolonialisti del retro-bottega. Microcosmi d’emergenza e rifugi fragili, mobili, per un’esistenza fluida.

Chi è lo straniero?

Il gatto sbadiglia. Big Mama saluta. Big Mama è una trans thailandese dai capelli ossigenati ed un vestito da signora borghese rosa confetto.

Ringraziamo Big Mama, mostriamo segni di rispetto. Ad ognuno la sua regina, ad ognuno il suo regno. Usciamo all’aperto, allo scoperto. L’aria è fresca, è quasi mattino. L’incanto è presto spezzato. Come una trapunta spessa e calda arrotolata ai piedi del letto. È ora di svegliarsi. Lo Stregatto e la Regina non sono più reali, non quanto il residuo di fumo sulle dita, o quanto il retrogusto di malto scadente, quanto brandelli di cartine, reali e immaginarie. Il club poco più di una bettola, una losca cantina. La carrozza è una zucca, il cavallo un topo, la fiaba una farsa.

Lo chiamano Marlboro
È un posto reale
Per quelle poche ore
Per quel che vale
.

[E buio]

Sulla via del ritorno, guidando solo per memoria eidetica, pensiamo di poter concederci un’altra birra. Siamo comunque oltre ogni punto di non ritorno. Entriamo nello stesso 7Eleven del pomeriggio, ma ad un orario ‘legale’ (di contro a tutto il resto). Cerchiamo di riscrivere la storia giocandocela su una diversa ruota del karma, forti della benedizione di Mama.

Usciamo con la nostra sudatissima birra e con altre buste di amenità. Siamo pieni di pacchetti di Lays dai gusti a edizione limitata (e a ragione) come tom yum, zuppa di gamberi, pollo macinato al basilico piccante, uovo affumicato, limone con effetto ‘icing’ e bingsu (dessert coreano fatto di gelato) al melone bianco. Per capire se siano reali aspettiamo di rivedere le confezioni di carta argentata arrotolate sul pavimento, una volta passati gli effetti di tutto.

Trascorriamo il resto della nottata a mortificare la nostra fame chimica con gli acquisti fatti e a dialogare sui massimi sistemi.

Ad un certo punto sono convinta di aver nominato Mao.