«In una stradina buia e stretta,
Lontana dagli occhi
Della legge e di passanti
Occasionali
C’è un posto
Lo chiamano Marlboro.
È il luogo giusto
Per un’esperienza
La più locale, tipica
Di ogni tempio e mercato, di ogni Buddha
Inginocchiato
(e di ogni Spa e di tè
speziato…).
Più di ogni pretesa di santità,
È un posto
Sbagliato.
Un ritrovo per anime
Perse, in cerca di sé,
Nella terra del ritiro spirituale
(e della corruzione monetaria, della perdizione
morale…).
Della meditazione per expats New Age
Del veganesimo e del cibo
Da strada; i ‘fancy bistrot’
Gli sporchi mercati.
Chia e Mango
(e larve, e fango…).
La Thailandia secondo le lonely planet
La Thailandia secondo le lonely souls.
Secondo chi l’ha capita. Davvero,
Chi ci è stato, rimasto, perso, andato
(e mai del tutto tornato).
Di chi, presto o tardi, si è trovato
A dipendere
Dal fondo di un bicchiere
Una boccata ben pagata
Fumo pregiato
La morte di fine giornata.
Big Mama ci accoglie
Sovrana
Tra tavoli e cimeli
Di ogni epoca,
Nazione, luci scarne,
E ventilatori polverosi
Big Mama sorride
E inquisisce, padrona
Big Mama, elargisce
Siamo qui, stasera
Su raccomandazione
Non si entra altrimenti
Versiamo la quota
Paghiamo il diritto
A qualche ora
Di immunità
Big Mama apre
Uno scrigno di latta,
Ben decorato, sigillato
Big Mama distribuisce
Felicità
Già pronta, incartata
Il suo assistente
Sorride, melenso,
Big Mama annuisce
Accarezza il suo gatto
Bianco, grasso. Il barista
Ci stappa una bottiglia
Un elisir locale a caro prezzo
Singha, Chang, Lao
Leoni, mitologie, città, etnie
Appiccicati su bottiglie di vetro
Vuoti a rendere
Vuoti a perdere.
Il locale
Semi vuoto
Non è una serata di gala
Ci accompagnano sul retro
Della sala
Altri pochi tavoli
E ventilatori statici
Orologi
Su orologi
Antichi, moderni, rotondi
A pendolo, fermi
Mal funzionanti
Più ce ne sono
E più si ferma il tempo
E gira, gira
Su sé stesso
Claustrofobico
Nel suo apatico smarrimento.
Afosi salottini
E ritratti di famiglia
Una cornice dorata
Una cerimonia di laurea
Volti thailandesi, uniformi
E pergamene
Tutti fermi
Da qualche parte
Bloccati
Per sempre
In un piccolo spazio
A spasso
Nel tempo
Disfatto».
Chiang Mai, 4 luglio 2019
Marlboro Club
I poster sbiaditi vorrebbero alludere ad un occidente palpabile e un po’ meno lontano. Ferrari, Beatles, Vespa e Pin Up. Modelle thailandesi in divise sportive bastano a smentire ogni tentativo di mitizzazione. File di bandiere di ogni nazione. Un boomerang australiano. Zoccoli olandesi, matrioske e vasi cinesi. Lampade in carta di riso e bambù, pendono dalle plafoniere. America, Canada, Germania, Isola di Man. I paesi che contano.
Gli assistenti di Mama contano mazzette fruscianti da 100 baht. Crederesti che siano un’enormità, se non conoscessi il valore di cambio. È tutta una pretesa, un’imitazione.
I paesi che contano.
Due americani a fianco a noi cominciano a parlare con una ‘lady’. Una signora attempata, sulla cinquantina, di colore, vestito a fiori. Sembra uscita da una sitcom anni ’80. Non si conoscono, ma fanno amicizia. Cosa avranno da spartire? Che cosa ci fanno qui? Sembrano personaggi frutto di allucinazione, come nei film di Lynch, come le maschere di un rituale di possessione. Poco dopo escono dal locale, assieme, come lo fossero sempre stati.
Vecchi compagni, nuovi clienti. Big Mama ride di gusto. I suoi piedi adagiati su una sedia di legno e velluto. Anacronistica, distopica, come le pile di libri, i cimeli vuoti di qualche vissuto di qualcun altro, qualche altra vita fa.
Il gatto addenta un’omelette di noodles dalla mano dell’assistente. Altri clienti, altri soldi, altra felicità. Il gatto ci guarda dall’alto, da una posizione di privilegio. Il fumo e l’alcol cominciano a fare effetto. Non riusciamo a gestire una partita su un vecchio biliardo. È vietato spostarlo. È vietato spostare tutto (recitano gli scoloriti e polverosi cartelli). Vorrei con tutta me stessa che qualcuno mi raccontasse gli aneddoti legati alla necessità di appendere questi divieti, vorrei risalire alle origini.
Le bandiere vorticano. Brasile, Cuba, Bangladesh. Sri Lanka. Le prime palle vanno finalmente in buca. Rimasugli di persone sudano, rimuginano nelle loro solitudini. Racket di motorini italiani, accenni di prostituzione, ad ognuno i suoi affari. Non ti toccano più di tanto, sono parte del pacchetto, del tour. Sei qui come ospite, un visitatore, un antropologo in un bistrot, un attore. Tra poche ore sarà tutto andato. Big Mama, il tirapiedi, il gatto (come in una fiaba di Carroll), gli zombie, le sensali, i balocchi.
‘Drink me’
‘Inhale me’
‘BUY ME’.
È il piccolo oscuro paese delle meraviglie. Dopo la Disneyland diurna (le città-tempio, le tempio-città, fai un’offerta al monaco, attacca la tua foglia d’oro) ecco i parchi gioco notturni (i club-tempio o le città-club?).
Offri riconoscenza a Mama. Tutti rendono omaggio a Mama. Ci fa dimenticare chi siamo, perché siamo qui e perché vogliamo dimenticarlo. Un grasso uomo bianco s’inchina e paga pegno. Ci sorride. Viene ad offrirci amicizia, già accesa, già pagata. Ci crede connazionali finlandesi. Come si fa? Siamo due russi e un’italiana. Capelli scuri, dreadlocks e tatuaggi, bassi e grossi la sua metà. Parliamo in inglese misto a termini indonesiani. Ma non conta. Tutto è possibile, del resto, qui. Il non-luogo più non-luogo di tutti e il nowhere più bello del mondo. Forse ha ragione lui. Vive qui da dodici anni. È già perso a sufficienza. Già intriso di ‘località’. È il più locale di tutti qui, eccetto Mama e il suo gatto altezzoso. Parla con un accento strano (Finlandese, Inglese, Thailandese?).
Siamo in nessun luogo ed in tutti i luoghi. Un oblio di resti di civiltà. Un patchwork di persone dal destino comune. Almeno per poche ore, fino alla prossima luce del sole. Almeno finché gli orologi rimarranno fermi ed i ventilatori spenti, e tutto smetterà di girare, eccetto nelle nostre teste. Il vero movimento è dentro. L’esterno è un pretesto. È confuso, indefinito. È un principio di meditazione.
Le Vespa e le Ferrari, Jack Daniel’s e Playboy vegliano su di noi come Buddha appesi (sdraiati, in piedi, sul loto, in preghiera…). Come idoli viziati. Finché sudore e stordimento ci renderanno partecipi della stessa confusione, della stessa bolla di sapone, e nella stessa dimensione. I viaggiatori dalle speranze smarrite. Le mappe stracciate, dilaniate e riassemblate senza logica alcuna in lembi precari. Appese a mura fittizie, barriere ideali, per sentirci migliori, per sentirci ‘fuori’. A cercare ‘casa’ in case altrui. Nuovi insediamenti in terre straniere, i neocolonialisti del retro-bottega. Microcosmi d’emergenza e rifugi fragili, mobili, per un’esistenza fluida.
Chi è lo straniero?
Il gatto sbadiglia. Big Mama saluta. Big Mama è una trans thailandese dai capelli ossigenati ed un vestito da signora borghese rosa confetto.
Ringraziamo Big Mama, mostriamo segni di rispetto. Ad ognuno la sua regina, ad ognuno il suo regno. Usciamo all’aperto, allo scoperto. L’aria è fresca, è quasi mattino. L’incanto è presto spezzato. Come una trapunta spessa e calda arrotolata ai piedi del letto. È ora di svegliarsi. Lo Stregatto e la Regina non sono più reali, non quanto il residuo di fumo sulle dita, o quanto il retrogusto di malto scadente, quanto brandelli di cartine, reali e immaginarie. Il club poco più di una bettola, una losca cantina. La carrozza è una zucca, il cavallo un topo, la fiaba una farsa.
Lo chiamano Marlboro
È un posto reale
Per quelle poche ore
Per quel che vale.
[E buio]
Sulla via del ritorno, guidando solo per memoria eidetica, pensiamo di poter concederci un’altra birra. Siamo comunque oltre ogni punto di non ritorno. Entriamo nello stesso 7Eleven del pomeriggio, ma ad un orario ‘legale’ (di contro a tutto il resto). Cerchiamo di riscrivere la storia giocandocela su una diversa ruota del karma, forti della benedizione di Mama.
Usciamo con la nostra sudatissima birra e con altre buste di amenità. Siamo pieni di pacchetti di Lays dai gusti a edizione limitata (e a ragione) come tom yum, zuppa di gamberi, pollo macinato al basilico piccante, uovo affumicato, limone con effetto ‘icing’ e bingsu (dessert coreano fatto di gelato) al melone bianco. Per capire se siano reali aspettiamo di rivedere le confezioni di carta argentata arrotolate sul pavimento, una volta passati gli effetti di tutto.
Trascorriamo il resto della nottata a mortificare la nostra fame chimica con gli acquisti fatti e a dialogare sui massimi sistemi.
Ad un certo punto sono convinta di aver nominato Mao.