«Dopo dodici ore,
Di sonno, una luce
Motori, veicoli
Sono a Roma? Mi affaccio
Dall’ottavo piano, del Kanith
Montagne, basse costruzioni
Tetti spioventi, qualche superstrada
Taglia l’orizzonte
Chiang Mai
Sono a Chiang Mai
Ora lo so, per certo
Residui di jet lag, defluiscono
Dallo scarico della doccia
Assieme alle scie
Di shampoo al frangipani.
Devo andare alla Old Town
A rendere omaggio
A qualche Buddha
A qualche spirito
A qualche cosa
Qualche offerta, qualche fiore
Qualche incenso, frutta, candele
E tuniche, oro e colori
E caldo e turisti
Un parco giochi a tema
Religioso. Ognuno ha diritto
Alla sua corsa per un pugno di baht.
Il Buddha sdraiato
Il Buddha che medita
Un loto
Il monaco prega
La fila di campane
Lo zodiaco cinese
Lettere propiziatorie
Per gli sposi (purché non facciano
foto, davanti ai templi) incensieri e altarini
Ovunque, per qualsiasi necessità.
Venghino signori, venghino
I botteghini sono aperti
Sempre, la gloria del Buddha è immensa
Sempre, e la pace sia con voi
Sempre, Om shanti
Shanti, Shanti
Om»
Chiang Mai, 3 luglio 2019
Wat Chedi Luang, Wat Phan Tao, Wat Phra Singh (e altri ‘Wat’)
Mi sveglio alle 7.00.
Riprovo.
Mi sveglio alle 9.00.
Ritento.
Mi sveglio alle 11.44 (che sono i miei ‘numeri magici’). Jet lag superato con bonus segno divino. So già che questa giornata sarà degna di nota.
Ingurgito il mango & sticky rice che sognavo da ieri era e mi preparo per la prima vera giornata ufficiale a Chiang Mai. Ho rotto la bolla spazio-temporale e sono definitivamente entrata nel tempo della mia esistenza asiatica parallela. Sono i risvegli più belli, quelli nel ‘nuovo mondo’.
Accompagno Yuri e Eva a fare la loro colazione in un caffè piuttosto ‘fancy’, pieno di expats e cibi ‘vegan’, ‘healthy’ etc. Mi gusto un masala chai speziatissimo mentre li guardo cibarsi di toast con uova avocado e salsa tabasco. Chai e mango. Mango e chai. Camperò così fino ad agosto.
Mi accorgo che manca lo zucchero a tavola. Vado a chiederlo alla tipa al bancone. La guardo mentre lo tira fuori dal frigo. Servono solo pochi istanti di interdizione perché nella mia mente si formi l’immagine di un nugolo nero e ordinato: formiche. La triste storia della conservazione del cibo in sudest-asiatico.
Sui tavoli ci sono dei diari con la copertina in sughero, lasciati alla mercè di ogni visitatore. Comincio a sfogliarne alcuni. Un interessante mix di dediche personali, dichiarazioni d’amore, impressioni di viaggio, monologhi su problemi esistenziali, storie da completare (ognuno deve scrivere una frase, è il format che preferisco), disegni, scarabocchi, botte e risposte sarcastiche di sconosciuti. Insomma, materiale per una tesi di dottorato in sociologia.
Mentre stiamo per riprendere i motorini un tipo si avvicina e ci chiede se siamo dei ‘punk-rocker’. Guardo Eva e Yuri, tatuaggi, dreadlocks, abiti scuri, stivali. Poi guardo me, che sembro uscita da una rivista estiva per casalinghe anni ’60. Gli rispondo decisamente di no. Ci invita comunque al suo ‘Punk Box’, qualsiasi cosa sia. Ho capito che gli incontri più pittoreschi sono quelli con gli stranieri.
Io ed Eva ci congediamo da Yuri, che torna a rintanarsi nel suo appartamento a fare pratica musicale intensiva fino a stanotte (i jazzisti sono animali notturni) e ci dirigiamo alla città vecchia a visitare qualche tempio.
Come al solito, avevo sottovalutato la cosa. C’è letteralmente un tempio ad ogni angolo, c’è l’imbarazzo della scelta, non si sa dove girarsi. Alla fine ne visitiamo tre o quattro di cui solo uno, quello più turistico, è a pagamento. In realtà sono tutti dei complessi di templi, in cui ce n’è uno più grande – in cui vanno osservati degli obblighi come il lasciare le scarpe fuori, coprirsi le braccia, non lanciarsi in effusioni, qualsiasi cosa voglia dire – e altri più piccoli tutt’attorno. Oltre a templi e tempietti, tutti i complessi sono pieni di altarini, statue e piccoli giardinetti in cui è possibile soffermarsi a pregare, meditare e fare offerte.
Puoi fare offerte letteralmente a qualsiasi cosa: ad uno dei vari Buddha (sdraiato, col loto, che medita, etc.); a statue di divinità induiste o spiriti locali; raffigurazioni di monaci in preghiera; animali dello zodiaco cinese. Il sincretismo religioso, una delle tante bellezze del sud-est asiatico, purtroppo sempre più minacciata. Questa si che andrebbe proposta come patrimonio Unesco.
Ci sono candele, incensi, frutta e gingilli vari da offrire a qualsiasi entità ad ogni angolo. È un turbinio di fiori, colori, candele, incensi, frutta, oro su oro, statue e statuine, campane e campanelle, riproduzioni di buffi animali mitologici e guardiani dai volti minacciosi. È uno spettacolo sorprendente, c’è qualcosa che coglie l’attenzione ad ogni metro quadro. E una scatola per le offerte ogni due.
All’ultimo tempio che abbiamo visitato c’era persino una buca per lettere di buon auspicio a futuri sposi, vicino ad un cartello che recitava: ‘No wedding pictures in front of the temple’.
Come ha detto Eva, sembra di essere ad una ‘Religious Disneyland’, un parco giochi a tema religioso. La Disneyland del Buddha. Ognuno paga il suo ticket in forma di offerta e ha diritto alla sua corsa. Io, personalmente, ne ho fatte tre: la prima al mio spirito guida cinese, il serpente (secondo accurati calcoli calendariali); la seconda, al Buddha, al quale, per 20 baht, ho attaccato malamente una foglia d’oro sul ventre; la terza al giardino dello stupa, una candelina di buoni auspici tremolante tra una fila di campanelli e fiori di loto. Eva, di un sano scetticismo sovietico e impermeabile ad ogni tipo di misticismo, sembrava la mamma che porta la bimba al luna park.
Quando decidiamo di averne abbastanza di offerte, stupa, oro e animali fantastici, ma soprattutto ci sentiamo abbastanza accaldate, decidiamo di infilarci in un 7Eleven, se non altro, per beneficiare di un po’ di aria condizionata.
Sapevo che non sarebbe stata una buona idea. Comincio a girare come una trottola impazzita tra i reparti, posando occhi e mani su tutto ciò che di bizzarro mi capiti a tiro. Cioè tutto. Ne esco con: maschere facciali edizione Ramayana (letteralmente a forma di Hanoman e Sita); una bustina di cipria thailandese tradizionale (tanaka); un pacchetto di snack alle alghe; due bustine di frutta disidratata (mango e guava); una mooncake cinese. Ed è il massimo a cui sono riuscita a limitarmi.
Alle 16.00 decidiamo che è ‘ora di pranzo’ e ci dirigiamo verso il Riverside, un ristorante con affaccio sul fiume che fa piatti del nord della Thailandia. Ci abbuffiamo fino a scoppiare con zuppa di pollo e funghi in lime e cocco; granchio al curry; spinaci d’acqua con salsa d’ostrica e riso rosso. Credo che la cucina thailandese sia una delle vere gioie della vita.
L’ultima impresa della giornata si svolge alla mia cara stazione dei bus. Dovremmo acquistare dei biglietti del bus VIP per tornare a Bangkok tra una decina di giorni, per partecipare all’ICTM World (la conferenza mondiale del Traditional Council for Traditional Music).
Entriamo ed è il delirio. Un marasma di botteghini dai colori tremendi e ghirigori in alfabeto thai che elencano le diverse compagnie, con impiegati sporti fuori dai gabbiotti per attirare i clienti. Una trans continua a chiamare a squarcia gola: “Miss! Miss!”. Andiamo al botteghino della Sombat e chiediamo un bus VIP notturno per il 9 luglio, possibilmente l’ora più tarda (così da non arrivare prima dell’alba a Bangkok). Il tipo ci piazza davanti una tabella oraria e afferma: “Pink”. Intendiamo che dobbiamo consultare gli orari evidenziati il rosa (è un colore che proprio non ti molla in Thailandia). Apprendiamo con sconforto che il 9 non ci sono bus VIP, né di notte né mai.
Al secondo botteghino quasi troviamo quello che vogliamo, se non fosse per il tizio sconosciuto che ha già riservato i posti davanti per lui. Tutti. Quattro posti per una persona, in un bus di 15 posti, un genio. Poteva andare in taxi.
Passiamo al terzo botteghino, quello della trans, non senza risparmiare maledizioni per il tipo facoltoso. Richiediamo per l’ennesima volta un bus VIP per il 9 luglio, ma non credendoci più davvero. Lei acchiappa un foglietto e comincia a pasticciare numeri, orari, prezzi, posti. Gli chiediamo se abbia uno schermo dove farci vedere almeno la disposizione dei posti. A quel punto acchiappa il cellulare, apre la chat di Line e scarica da una conversazione una foto con due sedili reclinati dall’aspetto poco convincente.
Andiamo a sederci – stando attente ad evitare la prima fila di sediole, riservate ai monaci – e cominciamo a cercarceli su internet, da sole. Li troviamo, li prenotiamo, e ci chiediamo che siamo venute a fare.
Consultando una cartina della Thailandia appesa su uno dei muri brulli della stazione capisco finalmente che chiang significa ‘città’. È un po’ come kota in Indonesia e in Malesia. Ora si spiega tutta la collezione. Capisco anche che Chiang Mai è il meglio che la Thailandia turistica può offrire.
Andiamo ad un chioschetto a prendere dell’acqua e ne usciamo con un beauti drink (rigorosamente con la ‘i’ finale) al gusto lavanda e camomilla. Sai come entri…
Sfiliamo davanti ad una fila di eclettici bancomat a colonnina. Uno è fuxia a forma di stupa e reca la foto del re sullo schermetto. È tutto un grande loop trash senza fine. Amo la Thailandia.
Taglio due corsie contromano per fare una delle inversioni che entrerà nella top 10 delle mie inversioni sudest-asiatiche (altro che mafia dei tuk tuk) e andiamo a rifiatare all’aria condizionata dei nostri appartamenti al Kanith. Verso le otto ci prende fame e ci attacchiamo ai mangostani e alle scie chimiche alle alghe (che non recano una vera data di scadenza ma solo un enigmatico DD/MM/YY, ma sono al forno).
Decidiamo di tornare al mercato sperando di trovare qualcosa di più sostanzioso. Attraversiamo un parcheggio sotterraneo pieno di loschi Laundry Service. Motori e bucato, vai a capire il criterio. Risbuchiamo sull’altarino votivo all’ingresso del mercato e andiamo in cerca di tesori nascosti. Li troviamo. Tra le salsicce di maiale rosse e oleose, le zuppe di verdure aliene, polli appesi in tutte le salse, frutta e fritti (la combo del secolo) spuntano, in un banco in chiusura, sole et pensose tra vassoi di rimasugli, loro: larve fritte. Decidiamo che è tempo di provarle. Cinque anni in sudest-asiatico e ancora neanche un insetto. È giunta la mia iniziazione.
Ne compriamo un sacchettino per 25 baht e ce le andiamo a consumare ad un tavolo, armate di soda, mango & sticky rice di emergenza e selfie-stick per filmare l’evento. Eva si lancia per prima. Pesca la sua larva e la butta giù senza pensarci troppo, come un bicchierino di vodka (e con la stessa gestualità). Dopo qualche attimo di smorfie esclama il verdetto: “It’s edible”. E ne pesca un’altra. A questo punto vado io. Non risparmiando espressioni schifate durante la pesca nel sacchetto, ne infilzo uno e butto giù senza troppe cerimonie. A parte la consistenza, che è la stessa di uno gnocco se solo non sapessi che sono larve, è buono. Sa di salsa di soia e erbe. Ne mangio anche io una seconda, sono più buone di quanto voglia ammettere. Se non continuassi a pensare che sono larve quasi me le finirei.
Soddisfatte della sfida vinta ci ripromettiamo di tentare il secondo livello in futuro: qualcosa con antenne e zampe.
Poi effettivamente ci gettiamo a capofitto sullo sticky rice come fossimo a digiuno da giorni.