Altro Giro, Altra Corsa

Capitolo 4 – Eva

«Avevo salutato tutti ed ero già preso dalla solita gioia di mettermi in cammino, dal sempre rinnovato senso di sollievo che mi prende a sapere che nessuno mi potrà raggiungere, che non sono prenotato o aspettato da nessuna parte, che non ho impegni tranne quelli creati dal caso. Adoro questo mescolarmi a una folla, questo diventare un viaggiatore qualsiasi, libero dal proprio ruolo, dall’immagine che uno ha di sé e che è a volte una gabbia stretta quanto quella del corpo; sicuro di non imbattermi in qualcuno con cui dover fare conversazione, libero di mandare al diavolo il primo che ci prova»

(Tiziano Terzani, Un Indovino mi Disse)

Chiang Mai, 2 luglio 2019 (credo)

Qualche ora nel continuum spazio-temporale da quando sono partita

Casa di Eva

Dal finestrino del mio Grab forse abusivo (“police”, “no police”) continuo a scorgere gruppi di monaci erranti con ciotole argentate in cerca di cibo per la questua mattutina.

L’autista comunque non si dà per vinto e continua a ripetere a loop la faccenda della polizia. Ad un certo punto intuisco che ha da ridire qualcosa circa i tuk tuk e la stazione, sempre in thai. Il monologo prende sempre più enfasi, finché alla fine non mollo il freno e mi getto anche io nella conversazione in un inglese pronunciato il più possibile alla thailandese, che non è comunque meglio del suo thailandese pronunciato il più possibile all’inglese. Un delirio totale.

Ad un certo punto di questa messa in scena surreale vengo colpita da un’epifania (sarò entrata in trance) e capisco dove vuole andare a parare. Tutto questo circo che abbiamo messo in piedi deriva dalla volontà del pover’uomo di scusarsi per avermi fatto incollare la valigia da sola, ma la polizia lo avrebbe fermato per fargli problemi. Così facendo si è sbrigato e non abbiamo dato nell’occhio. E sotto tutto questo astio contro i Grab c’è una sorta di mafia dei tuk tuk. Un po’ come con i tassisti a Roma. Tutto il mondo è paese, e tutte le città-mondo sono paesi-mondo? Non lo so, a questo punto credo di volere solo un letto. Mi sarebbe bastato un: “Sorry” e un abbiocco lampo sul sedile lungo il tragitto.

Arrivo al Kanith Place e vengo accolta da Eva nel suo appartamento all’ultimo piano. Mi lascia subito la stanza e si trasferisce nell’appartamento del marito, sullo stesso piano in fondo al corridoio. Mi getto sotto la doccia come Gesù sotto il fonte battesimale e ne esco nuova.

Dalle 8.00 alle 13.00 perdo letteralmente i sensi. È il primo letto vero che tocco da quando sono partita, due giorni fa.

Roma-Istanbul- disguidi – Bangkok – attese, non-luoghi – bus notturno – Chiang Mai – Grab, mafia dei tuk tuk etc. – appartamento di Eva.

All’una e mezza sono in piedi e più o meno operativa. Mi metto in tenuta tropicale (finalmente, quanto mi era mancata) e vado a fare conoscenza col marito di Eva, un musicista jazz, anche lui russo, che la segue per il mondo. Una coppia che sembra uscita da un romanzo.

Alle 15.00 ci mettiamo in moto. In tutti i sensi: Eva mi affida il suo motorino. A quasi un anno di distanza, torno ad essere la signora delle due ruote nel sudest asiatico. Sono meno arrugginita di quanto credessi. Riesco ancora a fare svicolamenti, inversioni a U, a X, a Z (anche in alfabeto thai), sorpassi liberi, taglia-code sui marciapiedi. Ma soprattutto, riesco ad evitare chi fa lo stesso. Il caro vecchio videogioco su strada.

Mi ricordo persino tutti i pro e i contro della guida a sinistra. Sfrecciare liberi sul motorino per paesi stranieri è una delle sensazioni più belle che si possano provare. Guidare non diventa un peso ma un atto di volontà e di scoperta graduale dell’universo circostante. È come avere due gambe più performanti.

La prima tappa è la banca. Pare sia possibile prelevare senza costi di commissione se si richiede il prelievo allo sportello. Pare. Mostro carta di credito e passaporto e già cominciano i guai. L’impiegata crede che il mio nome sia Intesa San Paolo. Gli faccio presente che è il nome della banca e che il mio non c’è perché è una prepagata.

Mi chiede di dimostrargli che sia mia. Mi chiedo quanti altri italiani con la carta di credito italiana ci siano a Chiang Mai. Per fortuna ho comprato il pacchetto internet all’aeroporto, quindi posso navigare ed entrare nella mia home banking. Pare convinta. Mi chiedo cosa ci abbia capito in italiano.

Mi chiede l’importo, digito 10.000 baht, circa 300 euro, che dovrebbero bastarmi per tutto il soggiorno, e vado ad inserire il pin. Alla quarta cifra si blocca. Guardo gli impiegati in cerca di riposte. “Four numbers”. Eh no, il mio pin ne ha cinque. Niente, ne accetta solo quattro. Gli chiedo se lo abbiano impostato sul circuito internazionale. Si, convintissimi. I conti non tornano. Dice che in Thailandia funziona così. Eva gli fa presente che il suo pin ha sei cifre, e la carta è thailandese.

Dopo altri minuti di tiritere ci rinuncio e vado a pagare volentieri i 200 baht di commissione dal bancomat. Poi comincia a piovere. Neanche il cielo ne poteva più.

Ci rifugiamo in un caffè di fronte alla banca. Ordino il mio primo pad thai e un mango lassi che compensano ogni tribolazione. Dopo un po’ smette anche di piovere, abbiamo riequilibrato il karma.

Il primo pad thai

Ci facciamo un giro per Nimmanhemin, il quartiere dei backpackers (ogni cittadina sudest-asiatica che si rispetti ne ha uno). Nimman è un misto tra un quartiere radical chic italiano, una cittadina medievale nord-europea, reminiscenze di Ubud e un concentrato di tutto ciò che c’è di più turistico in Thailandia (incluso il sesso).

Tra i tanti negozietti e centri commerciali, souvenir e paccottiglia, oli e centri massaggi, bar, cafè, ristoranti e gente che prova a venderti di tutto (dai tour con gli elefanti a spettacoli a luci rosse) troviamo un piccolo angolo di mondo in cui spendere qualche minuto: il mercato coperto. Il tempo è l’unica cosa che riusciamo a spenderci. Circondate da mangostani mignon e grappoli di durian a peso d’oro, deliberiamo che abbiamo avuto abbastanza ‘movida’.

Mangostani di Nimman
Baby Ananas

Ci dirigiamo verso il campus della Mahidol University, dove studia Eva. Come altre università sudest-asiatiche che ho visitato, la Mahidol è un complesso di edifici bassi che si estende in una delle aree più verdi della città, tra laghetti artificiali e viali ombrosi. Molliamo il motorino e andiamo a farci una passeggiata sul lungo lago, attraversando ponticelli assieme alle frotte di giovani scolaretti in divisa bianca e nera. Mi sembra di essere entrata in uno dei cartoni animati che vedevo da bambina.

Il laghetto della Mahidol
Anime experience

Il clima è piuttosto mite, meno caldo di quanto mi aspettassi, forse grazie alle sporadiche pioggerelline (un timido ricordo dei muri d’acqua monsonici) che rinfrescano tutto ad intervalli irregolari. Ci fermiamo ad alcune bancarelle di frutta lungo la strada – cimentandoci in una delle inversioni a U improvvise (forse le cose più tipiche dopo elefanti e massaggi erotici) – invogliate dall’esoso mercato di Nimman. Ci sbracciamo sui banchi colmi fino all’orlo, tra motorini selvaggi e mani mulinanti e ci portiamo a casa due buste di dragon fruit bianchi e rosa, mele thailandesi e mangostani. Non so perché mi ostino a comprare i dragon fruit, soprattutto quelli rosa, non sanno di niente e per mangiarli devi improvvisarti Jack lo Squartatore.

Dopo questa prima ricognizione generale decidiamo di rincasare e ci infiliamo nelle meravigliose stradine dei kampungan, termine che in indonesiano indica le stradine di villaggi o sobborghi piene di umanità in bella vista (continuo ad associare tutto a concetti indonesiani) e templi dedicati un po’ a tutti: Buddha, Ganesha, divinità cinesi, spiriti locali. Questo mi basta per sentirmi di nuovo ‘a casa’, in sudest-asiatico, dove tutto succede, tutto convive, tutto è possibile.