Altro Giro, Altra CorsaCapitolo 3 – Un bus chiamato 18/13

«Il viaggiare in treno o in nave, su grandi distanze, m’ha ridato il senso della vastità del mondo e soprattutto m’ha fatto riscoprire un’umanità, quella dei più, quella di cui uno, a forza di volare, dimentica quasi l’esistenza: l’umanità che si sposta carica di pacchi e di bambini, quella cui gli aerei e tutto il resto passano in ogni senso sopra la testa»

(Tiziano Terzani, Un Indovino mi Disse)

Bus per Chiang Mai

1° luglio 2019

Qualche ora dopo

La prima parte del viaggio scorre tranquilla, senza – sorprendentemente – temperature sotto lo zero e pop locale a tutto volume. Sono quasi delusa.

Mi chiudo con gli auricolari e mi concedo sporadiche botte di sono intermittenti.

Verso mezzanotte e mezza ci fermiamo per una sosta ad una tavola calda persa nel nulla. Lo steward ci dà un altro avviso in thai. Dato che cominciano a scendere tutti, non so bene per quale motivo, mi decido a farlo anche io. Vedo che la maggior parte delle persone si dirige, scontrini alla mano, ad una bassa costruzione che sorge poco lontano dalla fila di venditori ambulanti del parcheggio. Noto che vendono un po’ di tutto: frutta secca, incensi, fiori, bevande calde e statuette votive.

All’interno dell’edificio c’è un minimarket invaso da monaci e una grande sala con buffet che ha tutta l’aria di essere una mensa. Riconosco tre dei passeggeri del mio pullman a uno dei tavoli e vado ad aggregarmi. Pare che la sosta sia inclusa nel prezzo del viaggio, basta mostrare lo scontrino alla ragazza in divisa all’entrata (che io avevo beatamente ignorato) e andare a gettarsi sul buffet. Non ci penso due volte.

Mi riempio il piatto di una sorta di nasi goreng thailandese, gli spinaci d’acqua, carne macinata e speziata, un telur asin (una delle tante versioni dell’uovo salato, centenario, stracotto e che dir si voglia) e altre verdure agrodolci. In sostanza, prendo quello che il mio cervello classifica come la versione thailandese dei piatti indonesiani.

Mi siedo al tavolo e comincio una conversazione abbastanza banale – di quelle che improvvisi nelle sale comuni degli ostelli – con una signora americana e due ragazzi anglo-nigeriani. Dopo un po’ decido di fare un secondo giro riempiendomi di nuovo il piatto. Male che vada, mi dico, ho scorte di Maalox e Imodium per un esercito.

Quando mi stufo dell’ennesima conversazione di circostanza da viaggiatori nomadi cittadini del mondo piena di “During my meditation retreat in Tibet…” e “That’s so authentic!”, mi alzo senza troppe cerimonie e vado a controllare che non ci abbiano lasciato a piedi. Il pullman è ancora lì e c’è persino il mio zaino. Poco dopo siamo tutti a bordo e si riparte e in tutto ciò è l’una e mezza passata. Mi richiudo in trincea con cuscino ortopedico, mascherina (alla sudest asiatica) e tappi, e sprofondo nel comodo sedile taglia Vip.

Verso le 6.00 del mattino mi sveglia lo steward effeminato con modi decisamente poco effeminati, lanciandomi letteralmente il pacchetto di wafer chimici inquietanti addosso.

Good morning, good morning, to you!

Fuori è giorno. All’orizzonte non si scorge nulla di speciale, a parte cenni di anonima vegetazione e fabbriche sparse. Potremmo essere tranquillamente a Terracina. Mentre lo steward mi piazza in mano un bicchiere di caffè bollente, cerco di capire in che parte della Thailandia siamo. Il caffè ha un sapore strano, è come se avessero sciolto un pacco di caramelle al caffè. Non riesco a mangiare una cosa genuina da giorni, altro che ‘so authentic’.

Mentre realizzo di stare digerendo la cena che, del resto, ho ingurgitato meno di cinque ore fa, lo speaker manda un avviso, in thai. Nel dubbio, comincio a raccogliere le mie cose. Poco dopo il bus ci molla alla stazione di Chiang Mai in fretta e furia, butta i bagagli accatastati alla meno peggio nel piazzale polveroso, e arrivederci e grazie. Mi ritrovo da sola con venticinque chili di valigia nell’ennesimo non-luogo. Mando un messaggio a Eva sperando che sia già sveglia e tento di chiamare un Grab.

La App si inventa che devo autenticare il profilo proprio ora, non c’è verso di rimandare, devo fare un selfie seguendo le indicazioni su come posizionare lo schermo. Passo cinque minuti buoni a rigirarmi il telefono tra le mani facendo smorfie come un’imbecille davanti a tutta la stazione. E il primo tentativo di non apparire la turista scema è andato. Per non parlare delle condizioni della mia faccia, a cui serve tutto tranne una foto.

Alla fine riesco a ordinare una macchina e mi metto ad attendere fuori la stazione. Dopo diversi disguidi sul punto di pick-up – perché c’è una sorta di rivolta in corso dato che Grab sta divenendo illegale in alcune aree e gli autisti non vogliono rischiare di incappare nella polizia – riesco a trovare un compromesso con l’autista e risparmiarmi altri chilometri trascinando i miei pesanti beni in lungo e in largo per la città. Quindi, parcheggiatosi davanti a me, mi apre il portabagagli e rimane seduto al posto di guida, aspettando che io mi incolli venticinque chili e li butti nel bagagliaio da sola. Mi mancava solo il body building mattutino. La lancio dentro alla meno peggio cercando di non slogarmi niente e salgo a bordo.

L’autista comincia a blaterarmi qualcosa che suona come: “Akeh no police”. Intuisco che si tratta della faccenda della polizia e annuisco. Mi guarda in attesa di risposta, in thai. Sorrido e credo di chiudere qui la faccenda.

Sbaglio. Dopo la settima volta ci riprova cambiando le parole: “Thailand no police”. Continuo a non capire se è una cosa di cui devo gioire o preoccuparmi. Continuo ad assecondarlo e ad annuire sorridendo (Giava mi ha insegnato tanto). I minuti più lunghi della mia vita, e non chiudo occhio da 48 ore.