Voci dal nord

Capitolo 30 – Matrimoni ‘Seto’ a suon di folk-rock

«Ormai mi accorgo che è l’acqua, non la terra, il segno di questo viaggio. Ecco perché Väinämöinen mi segue sempre».

(Paolo Rumiz, Trans Europa Express)

27 luglio 2013
Ore 11.35
Viljandi, Estonia
Ostello nel bosco, cucina di quello di fronte

Ritornerei volentieri sotto le coperte con tazza fumante di caffè corretto al Vana Tallinn.

Il tempo è orribile.

Come volevasi dimostrare: “Ci trasferiamo al campeggio, tanto qua in Estonia fa bel tempo…”.

Voglio proprio vederci in riva a un lago in pieno nubifragio protette da pareti di plastica.

Ad ogni modo, dopo esserci godute l’ultimo sonno dignitoso – dato che si prevedono le ultime tre notti tra: rave a Viljandi, tenda in riva a un lago e vagabondaggio notturno per Riga – ci concediamo una beata colazione, davanti alla finestrella bianca (del vicino) che dà su prati e casette in legno. Questa mattina lo chef propone: caffè corretto al Vana Tallinn e yogurt al gusto ‘pane alle nocciole’ (che è uno dei motivi per cui gente come me non dovrebbe entrare nei supermercati di paesi stranieri).

Poi è tempo di impacchettare i bagagli. Dopo circa un’ora di forsennati e disperati rimaneggiamenti, la situazione appare ingestibile:

– Due borsoni dell’S-market pieni di provviste

– Una ‘borsa profugo’ (che rifà la sua entrata in scena dopo quasi un mese)

– La tenda a disco (usata credo due o tre volte in tutto il viaggio)

– Due zainoni

– Due zainetti

– Una busta col pic-nic di oggi

Conveniamo di lasciare tutto all’Ufficio Stampa una volta arrivate e di portarci dietro solo una borsa con lo stretto necessario per due notti. Più che altro, per evitare di stramazzare al suolo lungo il tragitto dal festival al camping e rotolare, di conseguenza, giù per il dirupo che conduce al lago (mi dicono dalla regia che, tra l’altro, era il sito di un castello, già tremo).

Attendendo l’autobus delle 12.30, ci dedichiamo al relax più sfrontato. Coadiuvate da tazze di caffè fumante corretto al Vana Tallinn, svolgiamo le solite attività monacali (ora et labora) unite ad osservazioni metereologiche alla finestra di tanto in tanto, contando nella buona fede degli astri nordici.

Ore 16.00
Festival di Viljandi

Stiamo seguendo un seminario sugli antichi song-book estoni… in estone. Non so perché continuiamo a impelagarci in cose del genere.

Io ne approfitto per scrivere due righe…

Siamo situate su un comodo cuscino ai lati del patio, in una stanza silenziosa in cui rimbomba solo la voce di un tizio che parla, in estone.

Diciamo che la mattinata già si prospettava niente male e non è certo continuata in meglio.

Verso ora di pranzo lasciamo la nostra casetta di campagna. Lasciamo anche un maglione, un paio di pantaloni e un reggiseno arrivati al capolinea (continuiamo a seminare indumenti logori dalla Lapponia al centro Europa, sembra la versione horror di Pollicino). Non lasciamo, come richiesto vivamente dalla proprietaria, la nostra testimonianza sul libro dei visitatori. Ci scapicolliamo con tutti i bagagli per prendere l’autobus delle 12.55, arriviamo alla fermata alle 12.49… e l’autobus salta la corsa.

Segue un’ora di spiaggiamento sul ciglio di una strada deserta, costeggiata da frasche a perdita d’occhio, tra cui svetta il paletto storto della fermata di Orikola. Se ce lo stessimo chiedendo, ora abbiamo toccato davvero il fondo. Innumerevoli snack, foto e sigarette aromatizzate dopo (che ci passeggiamo dalla Russia, quella vera), riusciamo prendere il maledetto autobus che, facendo un giro diverso per chissà dove, ci porta al festival.

Alla fermata del bus

Prima tappa: deposito bagagli in eccesso alla Press Room, belli al sicuro e al fresco del piano interrato. Seconda tappa: il camping. Ci dilunghiamo in inconcepibili scene con i gestori per tentare di spiegare, in un inglese di fortuna, che non abbiamo la nostra tenda perché il nostro amico, Gennaro, di cui però non sappiamo il cognome, ci lascia la sua. Alla fine, non so come, riusciamo a convincerli. Parcheggiata la ‘borsa profugo’ e i sacchi a pelo, dopo esserceli passeggiati per tutto il festival, siamo libere di andare a zonzo fino alle 16.00.

Inutile dirlo, finiamo al Rimi (quasi ci sentiamo parte del personale). Riusciamo a contenerci e a fare solo una piccola spesa per la cena. Il pranzo già ce l’abbiamo e lo consumiamo sulle panchine del parcheggio del centro commerciale (Colazione da Tiffany, il remake). Il menu prevede: insalata improvvisata di verza rossa, peperone giallo e wurstel senza glutine, cruda e scondita, affettata sul momento con fido coltellaccio; grissini del Rimi; tortine di riso e zucca (non sappiamo più di dove e quando); mele e melone bianco; dolcetto al caramello (anche di questi ce ne sono scorte sin dalla Finlandia); orribile succo di mela verde e bacche rosse comprato per la confezione.

Sazie a volontà, corriamo per non perderci il workshop sui song-book estoni, che sembra contengano un repertorio di canti da taverna di centinaia di anni fa. C’è solo un problema: è tutto in estone, per l’appunto. Ma per fortuna ci sono anche delle proiezioni dei manoscritti originari, in estone antico.

Attendiamo con pazienza che ci facciano ascoltare qualcosa, qualsiasi cosa. Una tizia sta dicendo qualcosa che ha tutta l’aria di essere una presentazione della suonatrice di harmonium a fianco a lei.

Ecco. Hanno iniziato tutti a cantare un canto a responsorio sull’accompagnamento dell’harmonium. Finalmente.

Ore 21.00 circa
Taverna adiacente alla chiesa del Festival

Siamo in contemplazione davanti ad un infuso all’ibisco.

Ci reggiamo in piedi per miracolo. È tutto il giorno che accusiamo spossatezza e giramenti di testa senza capirne il perché. Più dormiamo e più ci sentiamo male, quando invece facciamo le nottate e dormiamo un’ora o due poi siamo fresche come due rose. Ora ci siamo parcheggiate in questa taverna a tema country/estone (trova una logica) che offre birra e alcol in quantità. E dunque abbiamo pensato di prenderci un infuso all’ibisco (sempre per la faccenda della logica).

Così, davanti a due tazze di ceramica color senape, ci massaggiamo le tempie chiedendoci se sia normale sentire freddo con addosso maglie, maglioncini e felpe, mentre il resto della gente va in giro in vestitini e shorts. Terminate le scorte di Oki, usato in modo compulsivo per ogni minimo dolore (ma anche come dolcificante o come colazione), ci chiediamo se ripiegare su Moment e Tachipirina o farla finita con le medicine e ripensare seriamente alla storia del cero.

Jacopo e il fior di ibisco

Il pomeriggio, però, è stato proficuo. Terminato il seminario sui song-book, Fra riesce a rimediare qualche informazione sulle pubblicazioni riguardanti il canto runico da un’altra reporter (che in realtà aveva puntato sin dal Runo Song Nest). Tempo di spendere un altro patrimonio allo Shop (tra le conquiste, dei magnifici orecchini in legno a forma di kantele, pratici e sobri) ci dirigiamo verso il giardino segreto, dove si svolge una dimostrazione delle tradizioni matrimoniali dei Seto, popolazione del sud, metà russa e metà estone che però non si sente appartenente a nessuna delle due etnie (etnomusicologia in spicci).

Sono tutti vestiti con gli abiti tipici e hanno allestito una lunga tavolata e delle vere e proprie scene in cui ripropongono musica, danze e cerimoniali della loro tradizione. Seguiamo la processione fino all’entrata del giardino. Sa un po’ di ‘patacca folklorica’ ma dato che non abbiamo più giorni per recarci fino al sud, almeno capiamo di che si tratta. Gli uomini sono in testa e trascinano un baule di legno, che contiene la dote della sposa. Le donne li seguono in coda ed intonano dei canti, accompagnate da un ragazzo con l’harmonium. Fra è in testa con la Canon, io in coda col Tascam. Un altro reporter odioso e molesto con dono dell’ubiquità, invece, riesce ad essere un po’ ovunque, impallando ogni tentativo di documentazione.

Entriamo nel giardino, in cui è allestita la tavola imbandita. Sopra vi sono disposti: pane nero di segale, cetrioli, salame, formaggio, cioccolata, vodka e un piattino pieno di sabbia in cui andranno piantate le monete, in segno di offerta. Una candela esile e tremolante chiude la fila, in bilico, all’estremo del tavolo, tra due rametti di bacche. Sotto una delle tettoie di legno sono posizionati gli sposi.

Il capo-fila della processione li invita a prendere parte al raduno, dopo che altri del corteo hanno mimato la scena della donazione delle offerte, sigillata da un goccetto di vodka in allegria. Inizia quindi la parte centrale del rituale: la sposa viene coperta da un telo ricamato con trame caratteristiche, mentre le donne l’aiutano a prepararsi, intonando un canto nel mentre. Dopo qualche minuto il telo si abbassa, la ragazza sembra pronta e si celebrano le nozze.

Dopo che ha lanciato il suo copricapo, tutti si avviano ad una processione davanti al tavolo del cibo, una sorta di comunione. Gli astanti vengono man mano invitati da uno dei Seto a prendere vari assaggi, innaffiati da un bicchierino di vodka alla fine e un augurio agli sposi (in lingua). Vorremmo partecipare, ma siamo prese dalle registrazioni e comunque non sapremmo che dire.

Nel frattempo, subisco un’aggressione da una vecchia signora del pubblico, contrariata dal fatto che le stessi davanti. Non è bastato mostrargli il PASS STAMPA e continuare a ripetere “I don’t understand”, ha continuato ad abbaiarmi in estone per poi prendermi praticamente a pizze. Mi sono spostata dalla parte opposta, con molta calma, evitando scene imbarazzanti (altro che Seto, ci sarebbe voluta una troupe di antropologi solo per la signora).

Finalmente attacca la musica, suonata con un organico di harmonium, violino e tamburello. Tempo di qualche giro festante, accompagnato da consumo di cibo e vodka, che il gruppo si riunisce ed esce cantando dal giardino, in processione inversa a quella d’ingresso.

Soddisfatte e stremate (con braccia anchilosate dall’attrezzatura) andiamo a buttarci sulla collinetta davanti al palco rosso (quello più bello, abbiamo stabilito) e ci godiamo la cena, che in realtà era iniziata come merenda ma poi è degenerata (“Vabè, stamo a cenà” cit.). Lo chef presenta, nell’ordine: pane all’uvetta; mele; cioccolato Kalev; mezza barretta di cioccolato Fazer; tozzi e bocconi di pane/ciambella; un trancio di peperone giallo residuo; insalata mista di verdure sottaceto più verza rossa; piadina con prosciutto al tilli; Coca-Cola zero; Biochetasi (peccato aver finito l’Oki, sarebbe stato la ciliegina sulla torta).

Infreddolite e moribonde più che mai, perveniamo alla decisione di ritirarci in un posto caldo per riprenderci. Entro un’ora dobbiamo stare bene, ci aspettano gli Zetod, dei Seto-rockers, e poi i Fanfara Shukar a mezzanotte.

Cena con vista (lago)

Ore 1.40
Camping del festival
Tenda di Gennaro

Ho appena mangiato a morsi una verza cruda nella tenda di un tizio conosciuto poco più di tre giorni fa in un ostello di Helsinki… c’è decisamente qualcosa che non va.

Fra, accanto a me, degusta cioccolatini alla cheesecake (dite un gusto assurdo, noi ce l’abbiamo) e me ne passa uno ogni tanto, mentre sono intenta a scrivere a lume di cellulare (ogni sera meglio). Dopo aver dato prova delle nostre doti di acrobate per entrare nella tenda (ma eravamo allenate da Kaustinen), cambiarci un minimo e sistemare la spesa (che ormai richiede più attenzioni di un neonato), ci siamo concesse uno spuntino dell’una, a base di: pollo al tilli avanzato; grissini Rimi; pane-pizza russo; una mela; verza rossa (da consumarsi preferibilmente cruda e a morsi) e i famosi cioccolatini. A questo punto, se non esco dalla tenda fra un’ora correndo verso i bagni chimici, è chiaro che il mio stomaco è rivestito di piombo.

Quest’ultima serata al festival è stata esplosiva. I Seto-rockers sono stati magnifici, classificati come miglior gruppo. Ce li siamo visti, ovviamente, da dietro le quinte e in parte sul palco, vicino a loro (“Mamma, da grande voglio fare la stampa” cit.). Ma la cosa più bella è stato goderci lo spettacolo delle vecchiette Seto (che avevano partecipato alla cerimonia di matrimonio), ancora coi costumi tradizionali, che ballavano come matte nel backstage.

Difatti, il repertorio degli Zetod consisteva nelle canzoni tradizionali rifatte in tutte le salse: dal folk-rock al folk-metal al punk-ska, con un organico di batteria, chitarra elettrica, violino, harmonium e voce. La folla era letteralmente in delirio, il pratone era saturo, fumi si propagavano da dietro e dai lati del palco e le casse pompavano fino a scoppiare. Io ero lì, seduta a mezzo metro dal chitarrista, a registrarmi tutto col fido Tascam in mano e le cuffie Sony rosa confetto testa (massima professionalità). Ho deciso che, dato che qui i Cd vanno via come il pane a Milano al tempo della Peste, è meglio premunirsi.

La parte più bella è stata verso la fine, quando lo spettacolo ha raggiunto il culmine: oltre ai quattro ragazzi vestiti in abiti Seto, si sono riversati sul palco altri vestiti nella stessa foggia, uomini e donne, festosi e danzanti. Uno dei ragazzi ha anche eseguito una performance da acrobata (quasi meglio di noi in tenda), con piroette e salti su un filo elastico fissato alle estremità del palco, a circa un metro di altezza dal suolo.

Zetod
Seto-rockers, backstage

Ci fiondiamo, quindi, al tendone Alecoq per assistere al bis degli adorati Fanfare Shukar. Ovviamente ci attende il posto d’onore sul palco. Mi piazzo dietro al fonico a godermeli beata, mentre Fra si presta a farmi un po’ di video e foto su richiesta. Faccio pure amicizia col fonico, che mi dà un po’ di consigli di ripresa (ma io voglio godermi lo spettacolo quindi passo la palla a Fra e rimango lì piazzata) e mi dà la triste novella che loro parlano solo rumeno. Dunque, l’intervista sfuma miseramente. Se fossimo a Kaustinen avremmo avuto l’interprete, peccato. Tuttavia, appena finiscono, “PRESSo” il presentatore, che a sua volta “PRESSa” il leader. Ma non ottengo molte informazioni, tranne il fatto che hanno un canale YouTube.

Sempre più ridotte come stracci, rinunciamo al resto del programma notturno per andarci a rintanare nella tenda… di Gennaro (è che abbiamo proprio il gusto di usare roba d’altri). Tanto per spaccarci un po’ la schiena sul terreno umido.

Ndr. Il mio asciugamano della Quechua in microfibra, dopo aver svolto le varie funzioni di: telo da lago in Carelia, telo doccia, asciuga mani, asciuga panni, asciuga piatti, stuoia da pic-nic, scialle, gonna e straccio multiuso, ha ora l’onore di fungere da stuoia (quella vera l’ho lasciata all’Ufficio Stampa e non intendo farmi una scarpata al buio per andare a raccattarla).