Voci dal nord

Capitolo 31 – Riga Express

«[…] mi disse che i lettoni erano gli italiani del Baltico, per temperamento e voglia di cantare. Sul canto corale era costruita la loro identità. “Col canto”, disse, “abbiamo resistito alla russificazione, col canto abbiamo salutato l’indipendenza, e col canto abbiamo dato il benvenuto all’Europa».

(Paolo Rumiz, Trans Europa Express)

28 luglio 2013
Ore 11.47
Tavolino dell’Hersburger di Viljandi

Tentiamo di riprenderci, invano, coi soliti bibitoni di caffè. La notte in tenda ci ha definitivamente annientate. Se prima eravamo due catorci, adesso siamo pronte per la rottamazione.

Addormentate nel gelo e nelle tenebre, rischiarate solo da un punto luce emanato dal cellulare, ci svegliamo alle 9.30 in preda ad asfissia e bagni di sudore: il sole picchia come fosse Ferragosto a Pizzo Calabro. La tenda è un microonde, in una serra.

Usciamo di corsa, infilandoci i pantaloni tra il prato e il vestibolo della tenda, non curandoci affatto delle altre cento tende intorno a noi che, del resto, parevano essere nelle stesse condizioni (un campo di nudisti, in pratica). Ci concediamo una colazione sull’erba, tipo quella di Manet, ma un po’ più trasandata (vedi: asciugamano che torna ai vecchi fasti di stuoia da pic-nic, panni all’aria, ‘borsa profugo’ e sporte dell’S-market sparse). Vado al bagno, rimango nauseata, esco e torno indietro. Prendo lo spazzolino, mi dirigo al cassone dell’acqua (i lavandini), mi strofino i denti col dentifricio, apro il rubinetto, constato che non c’è acqua e torno indietro.

Arrivo da Fra a bocca chiusa, senza parlare. Sputo in un angolo. Fra mi guarda, dubbiosa.

Me: “Non fare caso a quello che sto per fare”.

Al che, stappo la Coca-Cola, ne bevo un lungo sorso, sciacquo bene e rivado a sputare nell’angolo.

Il resto delle faccende lo svolgo nei lavandini dell’Ufficio Stampa, poco dopo. Torniamo alle vecchie ‘facilities’.

Attraversiamo, quindi, il sito deserto del festival, dove camion di cibarie e ambulanze scaricano i rispettivi fardelli, e ci dirigiamo alla volta della stazione dei pullman, per scoprire cosa dovremo prendere domani per arrivare a Parnu e poi a Riga. L’impresa è più ardua di quello che potrebbe sembrare. Ci affacciamo allo sportello informazioni.

Fra: “Do you speak English?”

Addetta (incerta): “…yes…”.

Non capiva nulla.

Impieghiamo un tempo indicibile per fargli capire che ci serve un pullman prima delle 11.45 e che non veniamo da Parnu ma dobbiamo andarci. Innumerevoli scarabocchi su pezzi di carta e coinvolgimenti di persone attorno dopo, rinunciamo e ci arrangiamo.

A senso e libera interpretazione delle tabelle orarie, intuiamo che ce ne dovrebbe essere uno alle 7.45, ma non ci metteremmo la mano sul fuoco (il pazzo del Cheap Sleep sicuramente si). Ad ogni modo, non sappiamo i costi e i tempi d’arrivo, quindi decidiamo di continuare l’indagine sui preziosi computer dell’Ufficio Stampa.

Colazione sull’erba
L’accampamento

Ore 18.00 circa
Stazione dei pullman di Viljandi

Alla fine, il dado è tratto. Dopo una giornata di indecisioni circa il da farsi sul pullman, abbiamo stilato una serie di possibili soluzioni, quali:

1. Nottata in bianco a dormire su qualche pratone del festival con bagagli a seguito, sosta mattutina alla stazione e pullman delle 7.45

2. Pullman notturno delle 23.00 con possibile notte a Parnu (sudori freddi solo al pensiero)

Alla fine, dopo il concerto dei Buda Folk Hungary, sfogliamo il programma e la cosa va più o meno così:

Fra: “Ma ti interessa qualcosa stasera?”

Me: “Punk estone misto a punk ucraino…”

Fra (Sguardo che dice tutto).

Me: “Vabè… ma non sono così essenziali, ho già sentito il Cd… perché?”

Fra: “Ma se andiamo ora?”

Me: “Vabè, andiamo”.

Detto così, era un piano perfetto.

Abbiamo passato una giornata infernale.

Ore 18.40
Pullman per Parnu

Nel frattempo, sono andata a comprare due Coca-Cola light al Rimi. Poi sono tornata al Rimi a riprenderle perché le avevo lasciate sul bancone.

Dunque… le disavventure giornaliere sono andate più o meno così. Usciamo dal Rimi con cinquanta zuppe in più e notevoli spicci in meno (sarebbero il nostro concetto di ‘souvenir’, quindi ce le incolleremo fino in Italia). Ci diamo appuntamento con Gennaro alla stazione per comprare i biglietti per Riga. Data l’evidente poca simpatia che la signora allo sportello prova nei nostri confronti, mandiamo avanti Gennaro, la cui bella presenza e i cui modi spigliati da giovane partenopeo pensiamo giovino alla causa. Non giovano affatto.

Più confuse che mai, torniamo tormentate e uggiose al festival e ci congediamo dal nostro amico per andare a meditare all’Ufficio Stampa, con l’ausilio di internet. Segue un turbinio di macchinazioni, problemi, scene di panico e imprese impossibili che danno quel tocco di adrenalina in più alla giornata. Lascio Fra ad armeggiare al computer con la prenotazione del pullman Parnu-Riga e corro letteralmente giù per la discesa che porta al camping a recuperare i bagagli e sgomberare la tenda di Gennaro. Apro la tenda e comincio ad afferrare le cose in fretta e furia.

Ma c’è un perché, in tutto ciò: l’idea era quella di andare a depositare i bagagli alla stazione, che chiudeva alle 16.00, per recuperarli poi il mattino seguente, verso le 7.30, prima di prendere il pullman.

Acchiappo il sacco a pelo di Fra e lo ficco in una busta di Seppala alla meno peggio. Ficco nella ‘borsa profugo’ ciabatte, asciugamano e provviste di pane e cioccolata. Poi guardo nella tenda, sposto fuori la borsa dell’S-market e ci ficco dentro quella di Seppala col sacco a pelo. Arrotolo velocemente il mio sacco a pelo e lo accartoccio a forza nella custodia, dando luogo ad uno sgorbio informe importabile.

Finalmente è tutto sgombro… o quasi… la maledetta stuoia. La arrotolo alla meno peggio, ma c’è un problema: non ho tempo di farla entrare nella custodia di plastica e gli elastici sono su, nello zainone. Senza indugiare oltre, mi slego i capelli e ficco la fascia intorno all’involto, sollevandone un lembo a mo’ di manico. E così, con una borsa dell’S-market a tracolla, lo sgorbio di sacco a pelo e la stuoia in una mano e la ‘borsa profugo’ nell’altra, mi incammino su per il sito del festival… e cado. Cado miseramente a faccia avanti e ginocchia a terra, nel fango.

Con tutta la dignità reperibile, mi alzo tra i volti preoccupati e divertiti e mi inerpico per la salita a passo di marcia, sotto il sole cocente (abbiamo vissuto giorni di tempeste e gelo, e il giorno che t’improvvisi Sansone viene giù un’afa che ti stronca). Mi presento alla security dell’ingresso, conciata in modo impeccabile: carica di bustoni dalle forme sgraziate e pericolanti, sporca di fango che ha iniziato a colare mischiandosi al sudore. Sfodero il PASS STAMPA unito ad un sorriso smagliante e filo dritto senza voltarmi indietro, tipo Orfeo.

Giungo trafelata da Fra, che mi accoglie in preda alla rabbia, sbraitando cose. Io le passo davanti senza degnarla di uno sguardo, boccheggio qualcosa e mi butto a peso morto sul divano della Press Room… che è di legno. Però sono dei maligni perché lo hanno coperto con un telo che lo fa sembrare imbottito.

Gettati un po’ ovunque i pacchi e le borse, mentre la stuoia rotola felice verso una delle postazioni computer, mi avvicino a Fra e mi informo sulla situazione. Ma prima, ingurgito un Moment con la Coca-Cola. Se non mi ricoverano oggi sono immortale.

Il punto è: non ci sono più pullman Parnu-Riga, o meglio, ce n’è solo uno, ma Fra non riesce a prenotarlo per problemi con la carta di credito. Seguono diverse chiamate a casa, fuori, perché dentro il cellulare non prende, alternate a corse al computer, dentro, perché fuori non prende il WiFi. Alla fine, demordiamo, esauste, e decidiamo di prendere il notturno da Viljandi, così da beccare la coincidenza con il pullman Parnu-Riga ad un orario improbabile, al quale ci saranno sicuramente posti disponibili. Ma questo implica una notte a Parnu. Dunque, onde evitare i fasti di Oulu, Fra si mette alla ricerca di luoghi dove passare la notte, possibilmente alla larga da maniaci e piromani. Nel mentre, io mi lancio in un altro dei miei numeri: il cambio nel bagno del Folk-Center, stile Clark Kent.

Mi reco su al bagno, tra le due sale concerto, esattamente un minuto prima che ne inizi uno, in quella più grande. Sono lì, con pantaloni e maglietta imbrattati di fango e altri panni semi-puliti che sventolo all’aria, tra frotte di signore ben vestite. Entro e mi levo la maglietta, in tutta serenità, mi lavo le ascelle al lavandino, poi entro nel bagno, mi cambio i pantaloni e riesco tra occhiate perplesse. Dunque, sorridendo cordialmente alle persone in fila, mi avvio spruzzando deodorante e profumo. Scendendo le scale, becco in flagrante un altro reporter, intento a cambiarsi la maglia nel vano ascensore. Scatta il sorriso d’intesa.

Torno da Fra un po’ riabilitata, ma comunque abbastanza stanca, nonché prostrata dagli eventi e decidiamo di rimandare alla sera le varie decisioni e prenotazioni e di andare a vedere il workshop dei Fanfare Shukar alle 15.00. Vado dall’addetto dell’Ufficio Stampa a chiedergli delucidazioni circa la location e mi dice che l’evento è stato cancellato, perché i musicisti sono dovuti tornare a casa. Al loro posto si esibiranno gli Inuit (che abbiamo già sentito due volte). A questo punto, rimane l’unica soluzione possibile:

Fra: “Annamo a magnà?”

Me: “Annamo”.

Stufe marce della serie di sfighe a catena, ci abbandoniamo sul prato della collina pic-nic vista lago e ci consoliamo coi soliti pasti salutari con le meraviglie che scoviamo nei supermercati nordici da un mese a questa parte: fagottino con feta e tilli; fagottino al porro; barattolo di rape rosse; surimi (recidive e imperterrite); grissini Rimi; melone bianco; frutta secca allo yogurt.

Sazie ma ancora spossate, decidiamo di andare a prendere una botta di vita: folk-band ucraina. Ci dà il colpo di grazia. Il gruppo, formato da un organico di due viole, due violini, contrabasso, mandolino, harmonium, flauto dolce e due voci, propone un misto di brani tradizionali ungheresi rivisitati in chiave revivalistica, che non convincono più di tanto. C’era troppo ed il tutto era troppo poco amalgamato, la voce andava un po’ per i fatti suoi. Apprezziamo i brani che più si avvicinano al sapore magiaro, genuino, i virtuosismi degli archi e i ritmi di ballo, un po’ di meno, invece, i brani riarrangiati in chiave swing o jazz e quelli dal carattere meditativo.

La gente balla e sembra divertirsi parecchio, soprattutto i bimbi sotto al palco, che si lanciano in passi di danza scoordinati ad imitazione degli adulti, per poi dare sfogo alla loro iperattività in corse e capriole. Noi di corse e capriole proprio non ne possiamo più, anzi, ci buttiamo in un angolo e moriamo lentamente al ritmo di mazurka. Tento di resistere un po’, in virtù della passione per la musica dell’est Europa, specialmente nel tentativo di distinguere i tratti tradizionali nel marasma creativo, ma non ce la posso fare ad inerpicarmi dietro gli altoparlanti con l’attrezzatura, non ho più forze.

Quindi, zaini (borse, bustine, sporte, tenda, pezzi qua e là…) in spalla (in mano, in braccio, a tracolla…) e ci incamminiamo come una carovana gipsy per le vie del paesino morente alle ultime luci del sole, lasciando il festival per nuove mete. Ed ora, eccoci qua, stipate nei sedili del pullman per Parnu, con un piede nella spesa e l’altro incastrato tra i sedili, accavallate l’una sull’altra e sommerse di bustoni e borse, in attesa di scoprire cosa ci attende all’arrivo. Chissà se riusciremo ad arrivare a Riga, ma, soprattutto, chissà quando e come.

Nel frattempo, la radio del pullman ci delizia con cover di celebri canzoni pop in estone. Il sarcastico congedo di Viljandi.

Ore 20.29
Pullman extra lusso per Riga

Chi l’avrebbe mai detto. È il primo mezzo decente che prendiamo in un mese. Anzi, direi che supera di gran lunga la decenza: sedili in pelle grigi e rossi ultra comodi, aria condizionata, schermo TV per ogni sedile con apposito paio di cuffie, giornali a disposizione e bagno pulitissimo che emana ventate di pulito ad ogni oscillazione della porta. Io sto seduta come una papessa sui sedili anteriori a gambe accavallate, le borse buttate un metro avanti a me, sul primo pavimento pulito che vediamo. Fra mi ha appena portato un bicchiere di caffè. Il tutto è incluso nei quattordici euro di biglietto. Non avremmo mai aspirato a tanto, una volta scese da quell’altro catorcio, buttate su una panchina nel piazzale degli autobus della ‘bella, ridente e soleggiata’ Parnu.

Dopo esserci girate, invano, tutte le fermate del piazzale senza trovare, come al solito, uno straccio di informazione, ci siamo messe l’anima in pace, rassegnate al peggio. E poi, magicamente, come un principe azzurro sul cavallo bianco, è arrivato lui: il vecchietto lettone alla guida di un colosso scintillante, dalla linea aerodinamica, il rivestimento cromato… e la scritta RIIA (RIGA). Fra si è fiondata a chiedere il prezzo. Io ero scettica, già mi figuravo salassi e trasfusioni. Invece, per soli quattordici euro abbiamo diritto ad un comodo viaggio extra-lusso sulla Lux Express. Non ci pare vero. Quasi verrebbe voglia di dormici (in effetti, abbiamo dormito in robe molto peggiori, e non mi riferisco solo ai mezzi pubblici).

Sto sorseggiando una cioccolata calda. Credo che stanotte rimarrò nel pullman.

Riga Express
Prima classe

Due caffè, due cioccolate calde e un moccaccino dopo
Confine con la Lettonia

Fra esordisce trionfante: “Siamo in patria”. Alzi gli occhi e guardo il cartello con su scritto LATVIJA. Ce l’abbiamo fatta. Quasi mi dispiace, ero tanto presa dal Sudoku e dalla compilation rock dello schermetto:

1. Hotel California (Eagles)

2. My songs know what you did in the dark (Fall Out Boy)

3. Hash pipe (Weezer)

4. Sing (Trains)

5. Leroy (Weathus)

6. God save the Queen (Sex Pistols)

7. Sunshine of your love (Cream)

8. Engel (Rammstein)

9. Still loving you (Scorpions)

10. Paranoid (Black Sabbath)

11. Hurricane (Bob Dylan)

12. Should I stay or should I go (The Clash)

Io ho deciso, non scendo, mi arrestassero, io mi pianto qua.

Notte tarda
Riga, Lettonia

Non so l’ora esatta e non voglio saperla. Non voglio sapere più nulla.

Ci troviamo nell’ostello più sgangherato di tutti quelli incontrati sino ad ora, al quarto piano di un edificio sopra un Mc Donald’s. Se fossimo in A Christmas Carol sarebbe il nostro fantasma degli interrail passati, presenti e futuri, tutt’uno. La nostra stanza composta da: moquette lercia; letto a castello in legno verniciato di rosso carminio (unico elemento d’arredo); bagagli accatastati al muro giallo scrostato; bollitore attaccato alla presa elettrica per terra; porta senza serratura, con due buchi al posto di essa; sacco a pelo rosso di chissà chi, buttato sulla finestra.

Abbiamo denigrato il Cheap Sleep perché pareva una casa di cura e ci è capitato il Fat Margaret. Abbiamo denigrato il Fat Margaret perché sembrava il set dell’Enigmista (o di qualsiasi altro film horror a caso) e ci è capitato questo. Non so a cosa somigli, in realtà, ma di sicuro non somiglia ad un ostello. Il nome, datogli evidentemente da un tizio con un gran senso dell’umorismo, è Big Bed. Ma qui di ‘grande letto’ ce n’è solo uno, ed è il paese.

Per il resto, ci sono solo due lettini a castello striminziti, che sembrano usciti da una delle dimostrazioni di Art Attack, ma senza musi di aeroplano o ruote di macchina. Brulli, spogli e rossi. Maledettamente rossi. Due pugni in un occhio sperduti nel mezzo di uno stanzone vuoto, privo di ogni forma di arredamento, con mura scrostate e una moquette che è tipo l’Eden dei germi (domani mattina ci puliremo i piedi prima di uscire in strada). Per non parlare della porta, che in pratica non sussiste. Il resto dell’ostello non migliora le cose. Per rendere l’idea della situazione, dico solo che la nostra camera è l’unica privata, la suite. Ma è interessante capire come siamo finite qui.

Eravamo rimasti ad un pullman extra-lusso con cioccolata calda, musica, giochi, film, comfort di ogni genere e tanta, tanta pulizia. Arriviamo (io a malincuore) a destinazione, più o meno verso le 23.00. L’idea è quella di passare un’altra notte (che non era prevista) all’ostello in cui abbiamo prenotato la notte di domani, che è situato in questo stesso edificio, esattamente al piano di sotto. Non siamo neanche lontane dalla stazione. Infagottate come mule da soma, ci incamminiamo per la Riga notturna, che fa perdere Fra tra i ricordi di gioventù (studiava al conservatorio locale anni fa), e giungiamo qui. O meglio, lì (dove credevamo di andare).

Entriamo nel palazzo attraversando la sala del Mc Donald’s (non faccio commenti, non serve) e leggiamo una targa che indica: RIGA HOSTEL, 4° FLOOR. Chiamiamo l’ascensore e si accende una lucina rossa che comincia a saltellare da un punto all’altro dello schermetto, tipo il videogame anni ’70 del Tennis for Two. Pensiamo che si tratti di un metodo interattivo, tipo che se termini una partita hai diritto ad una corsa gratis. Poi un signore, entrando, ci svela il mistero: è solo rotto. Non aspettavamo altro. Segue sfacchinata immane con tanto abbigliamento pesante addosso e trenta gradi fuori (qui è estate, quella vera).

Arriviamo finalmente all’ostello che, ovviamente, non ha più posto. Ci dicono di provare a quello del piano di sopra. Saliamo un’altra rampa e quasi ce ne faremmo un’altra ancora, peccato che sia finito il palazzo. Ci ritroviamo su un pianerottolo deserto, con una porta spalancata, quella del Big Bed Hostel. Entriamo aspettandoci di trovare una Reception o qualsiasi cosa la rappresenti (anche uno sgabello pieghevole con una cassetta della frutta rovesciata con sopra un pallottoliere e un cappello per le offerte, per dire). Invece, troviamo solo una grande sala vuota con un parquet che sembra nuovo e abbastanza pulito, buste di bottiglie vuote accantonate in un angolo ed uno stereo acceso che diffonde canzoni pop.

Proseguiamo lungo un corridoio con lo stesso parquet, ancora convinte che ci sia una Reception. Ci troviamo davanti ad un bivio: bagni da un lato e, dall’altro, una stanza vuota con dei materiali da costruzione sparsi tra davanzale e pavimento. A questo punto mi aspetto una bottiglietta con su scritto “drink me” che ci faccia diventare piccole, piccole e passare da un interstizio del muro giù nell’altro ostello.

Ci spingiamo ancora oltre finché non arriviamo ad una stanza aperta (qui non hanno segreti per nessuno) in cui un tizio seduto per terra su un sacco a pelo ci dice qualcosa all’improvviso, facendoci trasalire. Gli chiediamo se ci sia posto nell’ostello (domanda che a questo punto pare scontata, ci siamo solo noi) e lui dice che va a chiamare il manager che ora è fuori. Quindi, esce. Noi ci guardiamo cercando di capire in cosa ci siamo cacciate. Forse è un sogno che stiamo consumando sui sedili di quel meraviglioso pullman (io l’avevo detto che volevo dormire lì). Ci mettiamo in attesa, nella prima sala all’ingresso, allietate da ‘Relax, take it easy’ di Mika, che prorompe dallo stereo. Oltre il danno…

La reception
L’ostello
La ‘suite’
Dettaglio di ‘suite’

Dopo un bel po’ di tempo passato ad aspettare e rimuginare con ancora gli zaini addosso, cominciamo a pregare che compaia un bel cartello di Scherzi a parte versione lettone. Poi cominciamo a pregare che accada semplicemente qualcosa, qualsiasi cosa. Comincio a dare evidenti segni d’impazienza, dimenandomi a tempo di musica (“Fra, ho inventato il ballo del backpacker” cit.).

Dopo ancora un po’, per fortuna, il tizio torna… tira dritto senza filarci di pezza e sparisce dietro l’angolo. Mah. Poi arriva un altro tizio in costume a stampa hawaiana e cappello di paglia in testa, gridando: “Ernesto!” e scompare anche lui dietro l’angolo. A questo punto, attendiamo con ansia il Bianconiglio.

Ma arriva di meglio: i due tizi di prima, più un altro tizio sbucato da chissà dove, che ci salutano e si piazzano lì, forse in cerca di instaurare un qualche dialogo, ma vedendoci restìe si mettono a parlare tra loro, in russo. Proprio quando sembra che la situazione stia divenendo irrecuperabile, arriva finalmente il manager. Si tratta di un tizio sulla trentina, in camicia a quadri azzurra mezza sbottonata, jeans, hawaianas e bibita del Mc Donald’s in mano. Gli chiediamo, dunque, se ci sia posto (anche se, a questo punto, speriamo di no). Pare che invece il posto ci sia: due letti liberi nella camerata mista, con i russi.

Giusto il tempo di riprenderci dal trasalimento momentaneo, e Fra gli chiede con occhi luccicanti pieni di supplica se, per caso, non ci sia una doppia privata. Il tizio ci pensa… c’è. Ce la fa vedere subito, ed eccoci in questo gioiellino. Ovviamente la privacy (cioè la parvenza di una porta, seppur priva di serratura) ha un costo di 2,50 euro in più sul prezzo normale (che per ora rimane un mistero). Ci mostra con orgoglio il resto dell’ostello: corridoi vuoti con oggetti di varia e dubbia natura appoggiati qua e là, due bagni, due docce, no cucina, e un ‘ampio terrazzo’ per fumare (vedi: triangolino in bilico su scala antincendio esterna in lastre di ferro bucherellato arrugginito, vista scarico del Mc Donald’s.

L’ampio terrazzo

Finalmente, arriva il momento fatidico: il pagamento. Accetta solo cash.

Entrambe ci siamo lasciate soldi solo nella carta, per evitare gli alti tassi di cambio, dato che qui non c’è ancora l’euro. Gli diciamo che possiamo passare più tardi, tanto abbiamo intenzione di uscire.

No, li vuole subito.

Mentre Fra, che conosce il posto, esce alla ricerca di un bancomat, io ne approfitto per farmi una doccia. Entro nella prima, non trovo nessun tipo di gancio o appoggio, dunque, provo l’altra, che è ancora peggio. La situazione che mi si presenta è più o meno questa: due scomparti doccia in nudi blocchi di cemento, senza tendina, modello Birkenau. Vicino c’è un water senza alcun tipo di tavoletta ma con un simpatico sistema di scarico: un gancio (da tirare attaccandocisi tipo Tarzan) legato ad uno spago che poi magicamente, tramite altre connessioni ignote, arriva a far funzionare lo sciacquone. C’è anche un lavandino messo in un angolo, solo soletto e un pavimento che brama uno straccio quanto Amore brama Psiche.

Abbarbico tutte le mie cose sul lavandino, tra cui l’asciugamano (che finalmente ha ripreso la sua funzione originaria) e mi godo questo tripudio di igiene, spruzzando Lysoform come fossi un prete che benedice in tempo di Quaresima. Tento anche di radermi le gambe col coltello, sempre stile Crocodile Dundee, ma ottengo solo brutti ricordi.

Esco, finalmente, in questo stato: asciugamano avvolto attorno al corpo, coltello appuntato tipo fiore all’occhiello, borsa a tracolla, vestiti in mano.

Torno in camera e vedo che è tornata anche Fra, dopo aver pagato la meravigliosa cifra di sedici euro a testa (il doppio del Cheap Sleep, un vero furto). D’altronde, non avevamo scelta.

Outfit doccia collezione Riga 2013

Così, ci sistemiamo alla meno peggio e consumiamo uno dei pasti più memorabili dell’intero soggiorno:

Noodles di pollo (ancora quelli reduci dall’Orso) cotti nel bollitore elettrico e consumati nel barattolo di yogurt al lampone, da me tenuto ‘per collezione’

– Carote e piselli in barattolo di vetro, consumati col brodo dei noodles, per tentare di dargli qualche sorta di sapore

– Pollo al tilli (sempre lui)

– Cioccolatini squagliati

– Ampie sorsate di Vana Tallinn, per dimenticare

La cena
Cheers!

Sono in bagno, intenta a scolare l’acqua delle carote nel water, quando irrompe un tizio di colore seminudo (che non si capisce come e quando sia arrivato). Mi guarda scioccato (non so se per il fatto che il bagno fosse occupato, che fosse occupato da una donna o che fosse occupato da una donna intenta a scolare carote nel water). Poi Esclama: “Sorry”, con aria impaurita e chiude la porta in fretta e furia.

Come al solito, tra tutti i tizi strambi nel circondario, quelle più temibili siamo noi.

Dopo il solito pasto d’eccellenza, sempre più stanche, sempre più spaesate e sempre più ubriache, decidiamo di farci una dormita e rimandare a domani l’uscita notturna, giovando della compagnia dei vecchi amici di Riga di Fra. Ci prepariamo a passare la notte (che tra l’altro si prospetta ben peggio delle altre soluzioni preventivate: notte al festival e notte a Parnu).

Io ho gettato la spugna, mi arrendo alla sorte.