«I viaggi leggeri son fatti così: le soste generano incontri, e gli incontri rimettono in moto l’avventura. Funziona sempre. Anche qui, nella verde Estonia degli uomini silenziosi».
(Paolo Rumiz, Trans Europa Express)
26 luglio 2013Ore 15.45
Ore 15.45
Viljandi, Estonia
Siamo piazzate sul prato a goderci l’esibizione dei bimbi dell’isola di Prangli.
Finalmente ci rincontriamo. Fra è al settimo cielo, è già partita con la Canon a piazzarsi sotto al palco. Le bimbe suonano gradevoli melodie estoni con i loro violini, con Marta che svetta, come al solito, gagliarda in prima fila. La gente balla sul prato con entusiasmo, dando prova di conoscere ogni danza alla perfezione. Questo è solo il primo spettacolo di una giornata che si preannuncia fitta. Nonostante si inizi alle 14.00 nel pomeriggio, il programma va avanti inesorabile fino alle prime ore del mattino dopo, senza soste.
Stamattina ci siamo riposate in vista della fatica pomeridiana. Sveglia alle 8.30… grugnito… voltata di schiena… sveglia alle 9.40. Lenta colazione, rigorosamente in cucina di quello di fronte, con: cartoncini di latte da 15ml offerti dal bar della Tallink-boat, circa 20 per riempire una tazza (“Pare che sto a munge le vacche” cit.); cereali al riso soffiato reduci dal Cheap Sleep Hostel e caffè offerto da quello di fronte (a forza di usare il suo bagno e la sua cucina ormai siamo praticamente quasi parenti). La preparazione vede chicche tipo:
Fra: “Buono il bagnoschiuma da uomo del vicino, dovresti provarlo”.
E anche:
Fra: “Oh, oggi mi so’ cambiata mutande, calzini e reggiseno”.
Me: “A me è rimasto solo un paio di mutande, devo giocarmelo bene…”.
E ancora:
Fra: “Ma l’asciugamano ti serve? Sennò lo portiamo come telo da terra”.
Me: “Evvai, anche oggi un figurone…”.
Segue beato sollazzo nella baita di legno soleggiata e ridente, tra traffici vari di lettura, scrittura e attenta osservazione del corteggiamento fra ragni in diretta sulla nostra porta. Meglio dei canali satellitari. Tra una cosa e l’altra, ci diamo al racconto dei sogni della notte passata.
Fra: “Stavamo a casa di tua zia, che era tipo quella sulle rapide, o forse proprio quella, non lo so. Tu ti preoccupavi di fare provviste di cibo per tuo padre, altrimenti tua zia lo teneva a stecchetto. Il punto cruciale è la verza, che tu volevi conservare in un cassetto e io invece dicevo di tagliarla e metterla al freezer… e discutevamo di questo” (Intervista del 26/7/2013 a Francesca M., La Sapienza, Roma, Italia).
Ci dedichiamo, quindi, ad una sommaria messa a posto dei bagagli (“Oddio, è uscito fuori un altro cucchiaino! Di chi è?” cit.), in vista di un trasferimento al camping del festival, visto che siamo troppo lontane e comunque altre notti qui costerebbero tanto (oltretutto).
Ci prepariamo a prendere l’autobus delle 13.35. Prima di raggiungere il festival, abbiamo tempo per una sosta intermedia al discount intravisto lungo la strada. Inutile dire che ne usciamo cariche di bustoni, come al solito, attratte irrimediabilmente dai mega-sconti su pane, biscotti, yogurt e dolciumi. Aggiungiamo, stavolta, una razzia al reparto cancelleria per prendere appunti al festival. Io già mi carico tutti i diari, due libroni da un chilo l’uno.
Chamber Hall (ci siamo spostate)
Arriviamo al festival e non appena mettiamo piede nel viale d’accesso, la nostra attenzione viene catturata dal concertino dei bimbi di Prangli nel pratone, preludio a quello a cui ora stiamo assistendo nella Chamber Hall. Nel frattempo, abbiamo posato i bagagli all’Ufficio Stampa (sempre sia lodato) dato che la tizia del guardaroba comune all’ingresso del festival (che in realtà era anche parte dell’equipe del pronto-soccorso) ci ha intimato: “Leave it here at your own risk”. Per oggi ci risparmiamo la dose di adrenalina quotidiana.
Ore 20.40
Backstage del palco durante il concerto di un trio di percussionisti giapponesi new age
Come al solito, lo spettacolo delle bimbe di Prangli ci lascia senza fiato, anche se stavolta si esibiscono in numero ridotto e suonano solo musiche di Prangli Island composte o riarrangiate da loro, niente runo-song. Però, in compenso, c’è la sessione di workshop: canta-tu. Noi, ovviamente, partecipiamo in prima fila. Le melodie sono semplicissime (sembrano sigle pubblicitarie) ed è facile imprimerle in mente ad un primo ascolto. Per le parole il discorso è un po’ diverso (almeno per noi), ma grazie al foglio coi testi, consegnatoci prima della prova, riusciamo a pronunciare qualcosa alla bene e meglio.
Non è così complicato, a parte qualche umlaut qua e là e qualche altro segnaccio sulle consonanti, si legge tutto come è scritto. Finita la grande prova di abilità canora, Fra si fionda a placcare l’insegnante di canto. Io rincontro Gennaro, che nel frattempo ha fatto conoscenze: un argentino (Pepi) che ha appena trascorso tre anni in Indonesia. Dato che Gennaro gli ha parlato del mio prossimo viaggio nell’arcipelago (stimato per settembre, grazie ad una borsa di ricerca che ho vinto a marzo), Pepi mi ha gentilmente elargito informazioni di ogni sorta, sulla vita quotidiana, sulla lingua e sui vari fenomeni atmosferici (tsunami, terremoti, eruzioni, non si fanno mancare niente). Mi ha lasciato anche un contatto per mandarmi ulteriori link e informazioni. Tra l’altro, pare conosca Claudia, la mia referente del luogo. Tutto il mondo è paese, e sta in Indonesia.
Ci raggiunge presto anche Fra e ci dirigiamo tutti insieme alla volta del camping, che è proprio sotto il festival, sulla riva di un lago (ci risiamo). Gennaro ci cede gentilmente il posto nella sua tenda domani sera (così non paghiamo), lui dormirà dall’argentino. Anche se domani sera dubito che dormiremo, dato che abbiamo deciso di andare alla sessione notturna del festival, che a quanto ci dicono è tutta un grande rave. Già mi vedo la scena di Fra che mi trascina in tenda lasciando solchi nel fango.
Tra le varie chiacchiere su Estonia e Indonesia, ce ne torniamo al festival, dove ci attende un gruppo di Inuit dall’Alaska. È un trio di danzatori, percussionisti e cantori che fa uno spettacolo molto interessante. All’inizio ci buttiamo tutti sul prato a casaccio, come al solito, poi però io e Fra veniamo investite dalla vena etnomusicologica e non possiamo fare a meno di andare sotto il palco (“Andiamo a PRESSare” cit.).
Approfittiamo dell’oretta libera per fare un po’ di razzia di CD. Ovviamente quello dei Fanfare Shukar è esaurito. Fra compra quello degli Inuit che gli sono piaciuti parecchio e un Dvd su un corno russo. Dato che il merchandising del festival è così colorato e frivolo, decidiamo di acquistare una maglietta. Tra le mille scelte possibili, io punto quella della commessa:
Me: “Hi, can I have the t-shirt you are wearing?”
Lei: “Oh sorry, this is only for volunteers”
Me: “Ah, ok…”
Poco dopo, appena provate altre due magliette. Ne prendo una gialla con un pittoresco kantele rosa fumante in stile fumetto stampato sopra.
Me: “Ok, I take only this one, because I don’t like how the other ones fit”.
Lei: “Oh, I know what you mean…” ed indica con faccia un po’ schifata la sua.
Me: “Are you sure that you don’t want to sell it out?”
Lei: “Sorry, but I have to work with it…”
Me (molesta fino all’ultima doppia punta): “Ok… maybe after the festival…”
Lei (facendosi grasse risate): “Oh yes. But now I can give you for free a Cd of Estonian music”.
Ho rimediato, in un modo o nell’altro. Ma anche Fra: un altro CD di musica folk estone a gratis, perché era l’ultima copia rimasta e aveva la copertina danneggiata. Insomma, cariche dell’ennesima spesa, andiamo a recuperare quella vera, all’Ufficio Stampa. Provvediamo a consumarne parte nell’area pic-nic e poi accorriamo qui, più PRESSanti che mai (diciamola tutta, c’era il pienone e noi volevamo il posto d’onore). Ci godiamo lo spettacolo in diretta, sul palco, di questi tre musicisti giapponesi che fanno il solito mix tra tradizione (flauto shakuhaci, tamburo a cornice sospeso wa daiko) e innovazione (assoli di batteria a più non posso).
Ore 00.26
Letto, comodo e caldo letto
Ultima notte in campagna.
I giapponesi ci sono piaciuti, anche se dopo un po’ le tempie hanno cominciato a rimbombare in sincrono con le membrane dei tamburi. Appena finita la loro performance, ci siamo subito avviate verso la chiesa, location del concerto successivo, passando dal Via (la bancarella dei CD, dove però i 20 euro non li ritiri ma li lasci ogni volta). Io cercavo il CD di un gruppo punk-rock ucraino (gli Svjatravatra) che avevano iniziato a suonare in quel momento, ma noi non potevamo perdere Maari Kalkun e la sua rivisitazione dei runo-song… credo che abbiamo fatto il primo sonno vero di tutto l’interrail.
La cosa più divertente è stato il diverbio con dei signori in fila. In pratica avevano da ridire perché, secondo loro, sarebbe dovuto passare prima chi aveva già il biglietto. Non è bastato il PASS STAMPA sventolatogli sotto il naso da Fra. Continuando a pensare che noi volessimo fare le furbe, il signore se ne esce, ridendo sotto i baffi: “Try to smile at the boy at the entrance”. Fra gli risponde: “I don’t need to”, e gli risventola di nuovo il PASS STAMPA sotto il naso. La soddisfazione è indicibile quando, giunti all’entrata, io e Fra passiamo indisturbate mentre loro rimangono bloccati per dieci minuti ai controlli dei biglietti. Un sorriso per la stampa.
Tuttavia, la baldanza dura poco. Tempo di una bella preghiera tutti insieme (il prete ci teneva tanto) che le vibrazioni del kantele di Maari pervadono la chiesa, ritmate dalle percussioni e dal contrabasso e addolcite dalla sua magnifica voce. Un flusso ambient dal carattere spirituale, con reminiscenze di runo-song qua e là. Meraviglioso, ma la chiesa, l’ora serale e la musica contribuiscono a farci rilassare decisamente troppo… rimaniamo in un limbo di mistico dormiveglia per circa cinquanta minuti, con viaggi sciamanici annessi. Ad un certo punto, mi giro verso la navata e vedo file di teste prone sugli inginocchiatoi. Penso che sia gente molto devota, o molto assuefatta, tipo noi. Poi riguardo meglio e vedo che c’è ben poca devozione: teste calanti ogni dove, un occhio aperto su quattro di fila, mani poste in intrecci ingegnosi per tentare reggi-capo di fortuna, strofinamenti compulsivi di tempie… una strage.
Approfittiamo dello scadere dell’ora dell’autobus e, rapide come non mai, ci avviamo all’uscita. Attraversato il solito covo di assassini tra la foresta, giungiamo alla cara dimora, che stanotte pare più buia che mai. Diciamo pure che dà i brividi. Ci rintaniamo dal vicino a farci un tè con i biscotti… e del pollo all’aneto. Mentre Fra scarica migliaia di foto sul computer usufruendo della futuristica cucina (dotata, addirittura, di prese di corrente), io mi barrico nel bagno a godermi un’ultima doccia. Ora urge un sano riposo in vista della sfacchinata di domani per il trasloco al camping. Per il prossimo interrail voglio un camper.