Voci dal nord

Capitolo 28 – Viljandi Music Festival

«Ci sediamo per una birra serale a bordo fiume, e un giovane estone di Tallinn invitato da amici alla festa slava sorride del nostro interesse per quel luogo marginale: “Mah, la vera Estonia non è qui, sta a ovest… è più antica… e anche più moderna…”. Non capisce che noi siamo stanchi dell’Ovest claustrofobico, e non riesce a intendere il senso di questo viaggio su una linea di periferie. Tantomeno capirebbe che sto morendo di nostalgia per le sponde dell’Onega e la banja fumante di Velikaja Guba».

(Paolo Rumiz, Trans Europa Express)

25 luglio 2013
Ore 8.00 circa
Stazione ferroviaria di Tallinn

Sveglia ai soliti orari ingloriosi. Ovviamente, io non la sento e Fra passa minuti a scuotermi. Apro gli occhi sul campanile di Tallinn, che si staglia fiero in primo piano, fuori dalla finestra, circondato da un cielo color ghiaccio. Prendo la tazza dell’ostello (quella in cui ci sono i rimasugli di tè della sera prima) e vi sciolgo la mia dose di Oki. Lo giro con il coltellino appena estratto da sotto il materasso.

Il mattino ha l’Oki in bocca.

Mentre scendiamo per la colazione facciamo conoscenza con i maniaci della porta accanto: due operai estoni dall’aspetto rude e massiccio che salutano con un “Terè!” che suona più minaccioso che altro. Ricambio con un “Hi” che suona come il miagolio di un micino spaurito.

Dopo la consueta sfacchinata con armi e bagagli, raggiungiamo la stazione dove siamo tutt’ora parcheggiate. C’è anche Gennaro che prende il nostro stesso treno. Coltello in tasca e bagagli male accatastati su un’aiuola, attendiamo Fra che è andata a fare scorta di lamponi al mercato russo qua a fianco.

Ieri sera abbiamo passato una piacevole serata al pub, ordinando generose porzioni di goulash. Io e Gennaro abbiamo anche preso due bei bicchieroni di birra. Convinta che la birra estone sia leggera (vai a capire in base a che) ci do dentro e finisco, come mi fa notare poi Fra, per dare sfogo ad una inarrestabile parlantina alticcia, continuando ininterrotta durante il tragitto verso casa, durante il quale, pare, mi do a divulgazione di aneddoti personali poco dignitosi con i vari compagni di via e di piazza che si parano sul cammino. Il tutto è coadiuvato da un cameriere più ubriaco di noi che allieta la serata con le sue eccessive e sentite premure e mi da fin troppo spago, in pieno stile da taverna medievale. Nonostante tutto, la cena trascorre nel migliore dei modi, discorrendo di argomenti vari quali musica, viaggi in Russia, Australia, Indonesia e Transiberiana, uniti a divertenti constatazioni sulla vita da backpacker (furti di tovaglioli, docce in bagni pubblici, cambi di vestiti ogni luna nuova… ci conforta sapere che è proprio un’usanza condivisa).

Ce ne torniamo quindi al nostro Hostel, a morire d’inquietudine e cercare di riposare.

In tutto ciò, siamo appena salite sul treno per Viljandi e abbiamo appena preso posto sui sedili marroni in finta pelle e scomodità. È già la seconda volta che ci controllano biglietto e carta studenti (con la quale siamo riuscite a pagare solo quattro euro), sta diventando una cosa paranoica. Un vecchietto estone mi ha appena abbaiato qualcosa di incomprensibile, credo allo scopo di intimarmi di levare i piedi da mezzo al corridoio (a quanto ho decifrato dai gesti e dalle smorfie). A nulla sono serviti i “Sorry, I don’t understand”. Ho ricevuto solo occhiate più torve.

Sul treno ci sono un sacco di musicisti con i loro strumenti al seguito, immagino siano diretti al festival. Non vedo l’ora di sentirli.

Ore 11.12
Treno per Viljandi

Ho appena avuto un’esperienza mistica: il bagno del treno. Attraversati i vagoni, sempre secondo il modello Assalto al treno, passando su giunture in lamiera vista rotaie, arrivo al bagno. Un water in ferro montato su una struttura di tubi arrugginiti. Delizioso.

Il treno viaggia con calma tra campagne, casette colorate e nulla. Un po’ come in Finlandia, ma più diroccato. Noi passiamo il tempo tra stralci di conversazioni assonnate, consumo compulsivo di lamponi e pisolini in pose da contorsioniste.

Particolarmente rinfrescante il mio sonnellino sulla busta della spesa, che ha dato vita a un gustoso smoothie di lamponi.

Ore 13.00 circa
Casetta di legno (che sarebbe la nostra stanza) in un ostello sperduto tra le campagne intorno a Viljandi

In effetti, avremmo dovuto aspettarcelo.

Scendiamo dal treno, ci salutiamo con Gennaro che alloggerà al campeggio del festival, dandoci appuntamento a più tardi, e abbiamo la sciocca pretesa di chiedere informazioni alla stazione… una baracca deserta lasciata a raccapricciarsi e deteriorarsi nel nulla.

Usciamo quindi dalla stazione e vorremmo prenderci a vangate. Davanti ci si para un quadretto familiare: quattro catapecchie in legno scrostato su un piazzale deserto. C’è giusto qualche vecchietta arroccata sui balconi che guarda i passanti con aria bieca. Si respira desolazione e decadenza in ogni meandro. Tempo dieci minuti e quasi rimpiango Kuusamo.

Sperdute e spaesate, non sapendo minimamente dove ci troviamo e in che punto cardinale sia l’ostello –  prenotato a cuor leggero basandoci solo sulle attraenti foto del sito e la presunzione di trovare dei trasporti pubblici facili – pensiamo di chiedere all’unica forma di vita autoctona presente: un tassista. Il signore non solo non parla una parola d’inglese, ma non ha la benché minima idea di dove sia l’ostello. In realtà, non sapeva neanche che esistesse. Il secolo del navigatore satellitare, ovviamente, qui non è ancora arrivato.

Dunque, tanto per cambiare, ci incolliamo tutta la baracca e cominciamo la sfacchinata verso il festival che, a senso e a cenni, dovrebbe essere ‘da qualche parte laggiù, sempre dritto’. Dopo circa un chilometro di morte lenta, troviamo un altro taxi e pensiamo di farci portare al festival, evitandoci altri due chilometri di martirio (“crucifige, crucifige!”). Scende un signore in tuta acetata anni ’90, ciabatte logore, mani gialle piene di calli e unghie sull’orlo della mummificazione. Prende le nostre cose e le ficca nel portabagagli, tra stivali da pesca e cuscini di velluto color ocra stinto. Nonostante l’adesivo sul finestrino dica chiaramente: 99,0 centesimi di euro a chilometro, lui ci spilla quattro euro. Il doppio. Abbiamo capito l’andazzo. Ne è valsa la pena solo per lo spot della Carglass in estone, alla radio. Ci guardiamo canticchiando: “Carglass ripara, Carglass sostituisce” ridendo come matte sotto le occhiate arcigne dell’autista.

Scendiamo davanti all’Ufficio Stampa e ci rechiamo subito a ritirare i PASS. Quanto ci erano mancati. Notiamo subito che il merchandising del festival è alquanto vivace e colorato, ma non ci facciamo distogliere più di tanto, siamo troppo prese dalla nostra missione principale: chiedere informazioni per l’ostello. Manco a dirlo, nessuno sa dove sia, nessuno sa che esista. Creiamo il panico senza ottenere nulla. Ci dicono che, forse, alla stazione degli autobus sanno dirci qualcosa. È solo a due chilometri, del resto. Detto ciò, ci danno cartina, penna e pacche sulle spalle di incoraggiamento.

Ma non facciamo in tempo a trascinarci esangui per un chilometro lungo le strade di questo paesino (che per quanto sgangherato è davvero colorato e vivace), che un altro taxi ci abborda. Segue la solita scena pietosa: mostriamo il foglio della ricevuta dell’ostello con l’indirizzo e le coordinate al conducente che, per tutta risposta, fa delle facce assurde e parla tra sé e sé in estone. Poi telefona a non so chi, ma non sembra che la cosa dia esiti positivi. Tenta quindi di approcciare in svariate lingue tranne l’inglese, in cui carpiamo sprazzi di parole come “cinque chilometri” e “fuori città”. Siamo indecise se incamminarci per questi cinque chilometri, morendo probabilmente sul ciglio di qualche autostrada, o fregarcene e cercare un altro posto, perdendo i cinquanta euro di caparra. Ma ad un certo punto c’è un’epifania: ha capito. Carichiamo tutto in macchina e montiamo a bordo.

Un bel po’ dopo
Autobus per il festival

Quattro chilometri e 8,70 euro dopo, arriviamo finalmente a destinazione. Lungo la strada, guardo i distributori di benzina, che riportano cartelli con prezzi bassissimi. Il posto all’inizio promette malissimo. Il taxi imbocca una sterrata ghiaiosa tra gli alberi, tra i quali sbucano catapecchie in mattoni grezzi e blocchi di compensato, con imposte in legno vessato da anni di intemperie ed altri elementi edili composti per lo più da lamiere e ruggine. Siamo ad un passo dal chiedergli di portarci al camping, da Gennaro. Poi, inaspettatamente, sbuchiamo su un delizioso giardino disseminato di casette in legno (le stanze). Una gentile signora ci accoglie e ci guida verso la nostra. Poi ci indica i servizi di cui disponiamo:

– Bagno e cucina (nella casa privata di quello di fronte)

– Barbecue

– Amaca

– Prolunga del generatore da trascinare in camera se vogliamo la luce, perché, altrimenti, non è prevista elettricità

Non potevamo chiedere di meglio.

Dopo aver posato i bagagli e aver fatto un’altra scorpacciata di lamponi, andiamo a prendere l’autobus per il festival. Il biglietto costa solo 64 centesimi, si comincia a respirare aria di onestà.

La nostra ‘stanza’
Le facilities
L’amabile Viljandi
Ingresso al festival
Viljandi Music Festival
Pass Press

Ore 15.30
Pratone davanti al palco di musicisti folk

È Woodstock.

Il festival è magnifico. Vivace, colorato, pieno di fricchettoni, sembra davvero di rivivere gli anni’60, ma in Estonia. C’è un sacco di gente buttata sui prati vestita in modi improbabili, azzardando colori e fantasie incompatibili e accessori inconcepibili. Molti sono a piedi nudi nel fango, altri mangiano attorno agli innumerevoli chioschi che offrono ogni sorta di cibo (“Ilà, qui se magna” cit.), altri ancora si radunano attorno ai gruppetti di giovani artisti in abiti folkloristici che strimpellano su kantele e violini calanti.

Abbiamo appena assistito ad un concerto di un gruppo folk-revival estone con un organico di violini, fiati, chitarre, corni, kantele e zampogne. Tra di loro c’era anche la suonatrice di kantele lettone che aveva duettato con Paulina al Sommelo. Ma l’atmosfera è tutto. Un vecchio vestito da santone indiano siede in prima fila sfoggiando i suoi piedi lerci. Una bimba bionda si muove beata sui passi di una danza tradizionale, mentre i reporter circondano l’area facendo il loro dovere. Noi anche, ritrovato lo spirito combattivo al richiamo dei PASS STAMPA (un po’ come Sailor Moon quando indossa il diadema), ci siamo messe alle costole dei musicisti. Inutile dire che è il paradiso del folk-revival e del transculturale, qua si mischia tutto, non ci sono confini. Il gruppo che suona ora, ad esempio, fa un misto di polka, danze gitane e colonna sonora del Titanic (la scena in cui si balla sui tavoli della terza classe). L’allestimento anche è particolare. Il tendone che copre il palco è di un blu acceso, intarsiato di ricami dalle fantasie etniche di mille colori.

Fra, alla mia destra, studia diligente il programma del festival. Gennaro, alla mia sinistra, si gode il momento accasciato sul prato. Jacopo, qua al centro, osserva, riporta e commenta.

Piccole musiciste
Bivacco sul prato
Woodstjandi
Reporter
Il folk di Prangli

Ore mezzanotte e mezza
Ostello sperduto nella campagna Estone
Casetta/stanza in legno, a lume di candela

Ci troviamo nella classica situazione paradossale. Barricate in una casetta di legno grande a sufficienza per ospitare due lettini, una sedia e un comodino con sopra una piccola lampada. Quest’ultima è collegata al generatore nell’orto, tramite un cavo che passa sotto la porta. Fuori dalla finestra ho un campo di pomodori, con il generatore che giace lì sommerso da qualche parte, rigorosamente non funzionante. Sopperiamo con l’elemento chiave della stanza: un mega cero piantato in un posacenere, che provvede a diffondere una tremolante luce giallognola.

Fra: “Ricordiamoci di comprare un altro cero”.

Me: “Si, poi lo andiamo ad accendere in chiesa così finiamo le tribolazioni”.

Tuttavia…

Il festival è meraviglioso. C’è un po’ di tutto. Un minestrone folk-revival in cui viene centrifugato ogni genere musicale esistente, proveniente da qualsiasi cultura e latitudine geografica. Musicisti di ogni età, nazionalità e stile si esibiscono sui plachi allestiti con drappi multicolore che calano come arazzi sul pubblico numeroso ed esagitato. Certo è stata una bella escalation dal super-esclusivo e accademico Sommelo lappone, al rave nordico di Kaustinen alla Woodstock baltica. Sembra il più confusionario e sconclusionato di tutti e tre i festival, ma anche qui nel marasma generale si riescono a cogliere delle perle, se si ascolta con attenzione.

Dopo il relax sul prato, ci rechiamo a vedere i Puzzle, un gruppo che si esibisce in una rivisitazione dei runo-song estoni in chiave jazz e pop. Resistiamo cinque minuti. Consultando il programma, optiamo dunque per i Triskel, un gruppo irlandese che presenta un repertorio di brani tradizionali dalla loro terra natìa, astenendosi il più possibile da commistioni revivalistiche. Sono molto bravi ma, dato che di musica irlandese ne ho sentita fino alla nausea, decido di raggiungere Gennaro al workshop di danze Pakri. Non impariamo le danze Pakri ma, in compenso, ci facciamo due risate osservando scene alla Casa Vianello tra le coppie di vecchietti che tentano di muovere passi in modo impacciato. Ovviamente il maestro spiegava i passi in estone.

Fra mi raggiunge appena finiti gli irlandesi e congediamo momentaneamente Gennaro, per fare una pausa caffè e farci un giro fuori dal festival. In un modo o nell’altro, finiamo al Rimi. L’idea, in realtà, era quella di cercare un posto per prendere un caffè, ma tra una stradina e l’altra, il paese è piccolo… e tutte le strade portano al Rimi. Trovo il fantastico pane all’uvetta che avevo sottratto con tanta cura al Campo Base di Oulanka e i tanto bramati ceci (braccati invano in ogni supermercato finlandese). Fra ha invece acquistato del delizioso surimi (ci torneremo).

Soddisfatte della missione giornaliera e armate fino ai denti di nuove provviste (perché non solo ne accumuliamo ad oltranza, ma poi ce le scordiamo in camera), torniamo in quel del festival, a cercare disperatamente il luogo nel quale dovrebbe tenersi il Runo Song Nest. Si tratta di un libero ritrovo, aperto a tutti gli estoni che conoscono i runo-song, nel quale i partecipanti si dispongono in cerchio e cantano a turno improvvisando, seguiti dagli altri. Una sorta di jam session runica. Finalmente lo troviamo in un cortiletto intimo, celato dietro le mura di due edifici in mattoni rossi e delle siepi (una sorta di giardino segreto). Così, ci sediamo un po’ in disparte e assistiamo per un’oretta ad una manifestazione canora finalmente spontanea e genuina. I partecipanti cantano spensieratamente, riuscendo a condurre altre attività nel frattempo (uncinetto, balia ai bimbi, chiacchiere di fatti loro, risate a caso). Dopo che Fra, soddisfatta, ha rimesso la macchinetta a posto e ha rinfoderato gli occhi a cuore, optiamo per un diversivo, tanto, a quanto pare, loro si ritrovano ogni giorno in questo posto, dalle 17.00 alle 22.00.

Andiamo così dal gruppo di musicisti indiani delle 20.00, meravigliosi, anche se abbastanza decontestualizzati. E così, un sitar, un dulcimero, delle tabla, due mele e due panini all’uvetta dopo, cominciamo a girovagare raminghe per gli stand, occupando il tempo della pausa tra assaggi a sbafo e male conoscenze. Eravamo, difatti, davanti ad uno dei tanti stand di esoso cibo ipercalorico take-away, intente a piangere sui quasi dieci euro buttati per quattro foglie d’insalata e tre bocconcini di pollo, quando la nostra attenzione viene catalizzata da un tizio, per due motivi: parla italiano; ha dei buoni sconto per i pasti. Non l’avessimo mai fatto, ci accolliamo a chiedere informazioni al riguardo.

Noi: “Scusa, sei italiano?”

Lui: “Si, vi avevo sentite parlare e mi ero chiesto se fosse una mia impressione… che bello, finalmente parlo la mia lingua, basta inglese! Di dove siete? Che fate qui?”

(La sagra della loquacità).

Noi: “Siamo di Roma, studiamo alla Sapienza, facciamo Etnomusicologia. Stiamo facendo dei report… “

Lui: “Ah! Ma quindi pure di Roma? Daje posso parlà romano, non me pare vero! Comunque questo è il mio collega, di Caserta…” (acchiappa un altro tizio al vicino banco arrosticini).

Altro tizio: “Nice to meet you girls!”

Me: “Nice to meet you…”

Grasse risate.

Me: “Ah vabè, ma sei italiano pure tu!”

Altro tizio: “Casertano, ci tengo”.

Me: “Abbiamo incontrato anche un altro ragazzo napoletano…”

Altro tizio: “Eh… eh! Casertano… non confondiamo la lana con la seta”.

(Giusto. Errore mio).

Lui: “Strano, io non ho mai visto un italiano qui. C’è gente di tutte le nazionalità… ma italiani zero”.

Fra: “Che fate qua?”

Lui: “Siamo musicisti, facciamo parte di un progetto internazionale di musica che riunisce italiani, spagnoli, greci e croati. Ci siamo appena esibiti ma ci esibiremo di nuovo sabato, se volete venire”.

Fra: “Si, veniamo volentieri… ma quindi i buoni pasto sono solo per i musicisti?”

(Partiamo all’attacco).

Lui: “Eh… non so… a noi ce li hanno dati nel pacchetto…”

Me: “Non è che per sbaglio ne danno un po’ anche agli addetti stampa?”

Lui: “Non so, però potete provare a chiedere… tra l’altro non è che servano tanto perché sono solo sconti e qua costa tutto tantissimo. Tra l’altro, io ho un problema: non mangio carne. Qua mettono la carne dappertutto, porca miseria, però mi sa che mo’ vado all’altro banco e… uh! Crauti! Scusate un attimo… no, no ma che ci sta la carne pure qua? No, aspetta, mi sa che…” – (ferma un tizio) – “Hi guy! Are you going there?… Oh mi sa che m’ vado pure io… no, perché…” Segue monologo ininterrotto articolato nei seguenti punti chiave:

– Problemi di un vegetariano in Estonia
– Alto costo del cibo ai festival
-Indecisioni/decisioni estemporanee bocciate sul nascere circa lo stand dove mangiare
– Poliglottismo itinerante

Mi decido a prendere iniziativa prima che la situazione collassi del tutto: “Vabè… noi andiamo al banco delle insalate…”.

Lui: “Sisi, io mi sa che rimango qua…”

(Il dado è tratto).

Lui: “Vabè… ci si ribecca in giro…”

Me (a lui): “Si senz’altro… ciao!”.

Me (a Fra): “Sbrigati prima che ci ripensa”.

Demoralizzate, prostrate ed affamate, decidiamo infine di optare per i soliti metodi rustici, alla faccia di tutto e tutti: cucina casereccia. Puntiamo un tavolino indiscreto e tiriamo fuori: ceci, piadine e barattolo d’insalata sott’aceto, freschi di supermercato. Sottratte due forchette al banco sardine, ci godiamo il pic-nic all’ombra dell’ultimo sole.

Dopo cena, siamo indecise se prendere l’autobus delle 22.00 o quello delle 23.00 (l’ultimo). Consultiamo il programma per vedere se c’è qualcosa di degno e trovo loro: i Fanfare Shukar, una brass band di musicisti rumeni (tutti parenti) che non posso perdermi assolutamente. Il mio istinto non si sbagliava. Arriviamo davanti al palco allestito e già si respira aria di devastazione psico-fisico-sonora. Il prato pullula di gente adagiata su ricoveri di fortuna: pile stesi sul prato umido, scialle, piedi scalzi, birre e magliette del festival dalle fantasie poco sobrie. La luce del giorno comincia a scendere e i fari del palco si accendono proiettando scie di pulviscoli nell’aria. Ci avviciniamo, io prendo posto su un altoparlante, proprio in faccia ai microfoni (You PRESS you can). Tempo due minuti e il prato si riempie di gente a perdita d’occhio, l’atmosfera si carica di attesa e finalmente entrano loro. A prima vista non gli daresti due lire. Sono nove individui dai trenta ai cinquanta, con volti loschi, abiti sgualciti e strumenti sgangherati (lo scotch da imballaggi sulle percussioni mi ha sciolto il cuore). Ma poi il clarinettista (Pantiru Costica, che è anche il leader, nonché uno dei più celebri direttori di brass band in Romania) dà l’attacco. Il bassista (Gavril Dimitru Nicolaie) attacca con il ritmo sincopato. Entrano quindi tutti gli altri, contemporaneamente, in un’esplosione sonora che scuoterebbe gli animi fino all’ultima cittadina fantasma lappone: Diaconescu Florin (basso); Gavril Vasile (baritono); Pantiru Liviu (tromba); Cantea Nicusor (tromba); Radu Sorin (tromba); Chiriac Narcis (tromba). È  rave.

Tutti cominciano a dimenarsi e a ballare scalzi con chiunque, salire su altoparlanti e impalcature, battere le mani e gridare a tempo di musica. Il ritmo è incalzante ed incessante. Sono fantastici, non perdono un colpo. Brutti, sudati e malmessi, sono i musicisti migliori che abbia sentito nel loro genere. Mi rapiscono letteralmente il cuore. Non fanno in tempo a terminare un pezzo che il pubblico famelico ed esaltato ne vuole ancora. Così, il bassista riparte con lo stesso ritmo di base, aggiungendo qualche variazione di tanto in tanto, Costica si avvicina ad ogni membro cantandogli il pattern melodico di riferimento, incitato dal pubblico che urla e batte con le mani le canzoni richieste, e si riparte. Due giri per fissare la melodia e poi via con il tripudio improvvisativo. Una tempesta inarrestabile, ruvida e morbida al tempo stesso, al punto giusto. Tento di fare foto e video a più non posso, per quanto lo permetta il buio (dura poco ma cala sempre nel momento meno opportuno), con la mia compatta semi-distrutta, tenuta insieme da scotch e dito indice (il che è decisamente in tema).

Mi dimeno sulla cassa per un’altra oretta finché, a malincuore, lasciando l’anima in prima fila e trascinando le membra vuote che ancora si contorcono, sono costretta ad avviarmi con Fra verso l’ultimo autobus. Mi riprometto di tornare alla replica di sabato sera e usufruire della condizione di stampa per rimediare un’intervista e prendere contatti con loro. Ho visto che faranno anche un workshop domenica alle 14.00.

Le due Cenerentole prendono quindi la carrozza delle 23.00 (che è più che altro una zucca) per tornare alla loro dimora tra i boschi. Ma la carrozza ferma nientemeno che sul ciglio di una strada non illuminata all’inizio del sentiero sterrato con le baracche. E così, pazienza in spalla e coltello già impugnato e già sguainato (risparmio tempo evitando i convenevoli) ci incamminiamo lungo il tunnel degli orrori, al buio pesto tra alberi e lamiere, rimettendo le nostre vite nelle mani della provvidenza.

Passando davanti a una delle baracche…

Fra: “Guarda, il cane ha la casetta più grande della nostra”.

Giunte sane, cieche e riconoscenti al fato, ci rinfranchiamo con un tè ai frutti misti, biscotti allo sciroppo d’acero e un goccetto di Vana Tallinn. Ma Fra, non contenta, dà il solito tocco gourmet al menu: “Ila, senti… ma questo surimi non ha un odore strano? Sa come di… pecorino!”. Mi appresto a odorare l’involto: “No Fra, fa veramente schifo, sarà scaduto da tempo… troppo, stavolta!”. Cestiniamo a tempo record.

Poi viviamo cupo momenti di dubbio esistenziale circa la sistemazione degli elementi d’arredo della stanza. I problemi più imminenti sono:

1. Come far passare la prolunga dall’orto al comodino, facendola passare sotto la porta ma evitando che ne intralci la chiusura (ovviamente è stata barricata a più mandate).

2. Dove posizionare il cero in modo che non cada e prenda fuoco tutto, dato che è tutto di legno (se ci fosse il pazzo di Helsinki…).

3. Come rifare il letto in modo che l’unico lenzuolo esistente basti per sotto e sopra, isolando il nudo materasso dagli strati di piumoni alla rinfusa.

Una volta sistemate, in un modo o nell’altro, riusciamo a goderci la magnifica atmosfera che, tuttavia, questa bicocca offre. Chiudiamo gli occhi piene di aspettative per la giornata successiva.

In prima cassa
Fanfare Shukar
L’inarrestabile duo
Guru di vita