Jalan Jalan

Prologo – Una casa a Sewon

«Lì abbiamo capito che la nostra vocazione, la vera vocazione, era viaggiare in eterno per le strade e i mari del mondo. Eternamente curiosi; osservando tutto ciò che potesse comparire davanti alla vista. Annusando ogni angolo, ma sempre con discrezione, senza piantare radici in nessuna terra, né fermandoci a studiare il substrato di qualcosa; la periferia ci bastava».

(Ernesto Che Guevara, Latinoamericana, i diari della motocicletta)

Era il mio secondo anno a Giava come ricercatrice, cantante e persona ormai divisa a metà tra due mondi.

La vita ruotava attorno la mia casa a Sewon, la vasta area a sud di Yogyakarta immersa tra campi di riso e sorrisi. Tutto scorreva come uno statico e pacato corso di un grande fiume, lento eppure pieno di vita, di passaggi, di scambi, di variopinta umanità. Ogni imprevisto era routine e la routine un eterno imprevisto, e tutto scivolava via, calmo e in perfetta armonia col mondo. Perlomeno quel piccolo pittoresco mondo che ci eravamo creati io ed il mio amico e collega Lorenzo.

La nostra esistenza oscillava tra una lezione all’ISI (l’Istituto di Arti Perfomative) che ormai era una seconda casa, e i disguidi domestici. Le solite invasioni di blatte, alluvioni, mancanza d’acqua, e via dicendo. Avevamo persino un topo domestico, lo avevamo chiamato bungkus, che in indonesiano si utilizza per il cibo a portar via. Scendeva sempre furtivamente in cucina, verso sera, a far razzia dei rimasugli che lasciavamo accidentalmente. Facevamo saltuarie gite cittadine, partecipavamo ad ogni sorta di concerti ed eventi. Ci gettavamo in intere nottate di teatri delle ombre, anche un po’ per colpa mia, dei miei ingaggi e delle mie ricerche. Avevamo gamelan in overdose. Ci godevamo Yogyakarta e tutto ciò che aveva da offrirci, da bravi etnomusicologi sul campo. Da bravi musicisti ed esseri viventi in pausa da tutto il resto del mondo.

Il 22 dicembre 2014, alla vigilia delle vacanze natalizie, decidiamo di fare un viaggio. Perché in Indonesia riconoscono almeno cinque o sei religioni e festeggiano le ricorrenze di ognuna, relegando scuola e lavoro a quando rimane tempo. Ma non vogliamo fare un viaggio qualunque, con aerei e alberghi, spiagge e visite programmate. Decidiamo di rimettere in sesto lo Yamaha Mio. Un 125 automatico mezzo scassato che non avevo portato mai più lontano di Surakarta (aggiungerei, a ragion veduta). E quindi ci diciamo che saremmo andati all’avventura. Un po’ come i viaggi in motocicletta alla Che Guevara, come gli hobo e i fellaheen di Kerouac, o i nomadi di Chatwin. Realisticamente, come due pazzi – verso Giava orientale.  

Non potendo disporre ancora di moderne tecnologie e tutte quelle cose che facilitano tanto la vita nel nuovo millennio, decidiamo di contare sul cartaceo. Ovvero: ci scriviamo tutte le tappe, una per una, da Yogyakarta a Surabaya. Quasi quattrocento chilometri e tre pagine di svolte scritte a mano, fino alla metropoli della costa nord-est di Giava.

Da lì il piano era proseguire verso l’isola di Madura, collegata a Surabaya dal ponte Suramadu (il ponte sullo stretto che non abbiamo mai avuto). Avremmo quindi circumnavigato l’isola e saremmo tornati giù verso Malang. Da lì saremmo scesi ancora fino alla costa meridionale di Giava, per poi costeggiare l’oceano indiano a ritroso fino a Yogyakarta. Non avevamo prenotato camere e neanche controllato se effettivamente ci fossero alloggi nelle nostre tappe principali. In realtà, non avevamo neanche definito delle tappe principali (a parte il triangolo Surabaya-Madura-Malang che sarebbe stata la nostra immaginaria linea di confine).

Avevamo deciso di fare un On the road all’indonesiana, letteralmente: un jalan jalan.

Il gatto e il topo