«Non c’è niente di più nobile che affrontare inconvenienti tipo serpenti e polvere solo per amore della libertà»
(Jack Kerouac, Viaggiatore solitario)
In viaggio, 22 dicembre 2014
Dopo aver impacchettato i bagagli, cercando di stipare il tutto in un solo zaino più una borsa per l’elettronica (da Manuale del Bravo Etnomusicologo) e aver fatto le pulizie necessarie in casa per evitare di trovare il Parco Nazionale di Komodo al rientro, mettiamo in moto il nostro Mio Yamaha sgangherato e partiamo alla volta di Giava orientale, o almeno ci proviamo.
Alla prima svolta fuori dal vialetto di casa, mi vengono in mente le parole di Pippo in A Travel with Goofie: “Arrivederci casa, arrivederci sgangherate tavole!”. Solo che noi dovremmo aggiungere: “Arrivederci gatto molesto che entra dalla finestra e salta sul letto alle 3.00 del mattino; arrivederci squadroni di topi nel controsoffitto; a rivederla, tokkay ubriaco che canta alle ore sbagliate; a rivedere voi blatte, grilli e termiti; arrivederci rubinetti aridi come pozzi nel Sahara; a rivedere te motorino parcheggiato in soggiorno (è proprio una cosa indonesiana); arrivederci tappeto che funge anche da letto e tavolo da studio (un arredo minimalista); addio attrezzatura elettronica impacchettata in buste sottovuoto per sottrarla dall’umidità d’assalto; a rivederti complesso abitativo Perumahan Graha Yasa; arrivderci adorata Sewon e tu, Jalan Parangtritis; arrivederla omino del carretto ambulante che non grida ‘gelati’ ma ‘Sari Roti’ con jingle inquietante”.
Forse era andata meglio a Pippo.
Ore 15.00 Rumah Makan Blora (verso Surakarta)
Partiamo con un sole che spacca le pietre.
Siamo conciati in assetto da safari: maschera ninja anti-smog, occhiali da sole, abiti comodi e leggeri, mole di bagagli ingombranti e sporgenti caricata in ogni angolo del motorino con gambe e braccia abbarbicate alla meno peggio e container di ottimismo.
Tempo di affacciare il naso sulla Parangtritis e il clima subisce un cambiamento drastico: cielo grigio, vento e pioggerella fastidiosa. Già capiamo l’andazzo. Dopo aver comprato un orribile casco a scodella ad un chiosco di fronte la stazione Pertamina per 65.000 rupie, tentiamo di dare un senso all’enorme backpack strizzato nel vano davanti al guidatore, e ripartiamo alla volta del Ringroad cantando.
Due minuti dopo è diluvio.
Ci fermiamo ad indossare le incerate e a rappezzare i bagagli alla meno peggio con ogni sorta di telo impermeabile che recuperiamo.
Ripartiamo impavidi. Intorno a noi è il delirio: una carrozza passa indisturbata nella corsia dei motorini; una donna è letteralmente spalmata contro il fascio enorme di verdura che sporge dal suo minuscolo motorino; ‘cose’ di ogni genere si accalcano sgusciando tra cospicui torrentelli che cominciano a formarsi ai lati delle carreggiate.
Il Ringroad di Yogyakarta.
Ad ogni chilometro percorso la situazione si fa più drastica. La pioggia cade forte ed incessante, in un ritmo crescente e ostinato. Buttiamo uno sguardo agli outfit di quelli che provengono dal senso di marcia opposto: hanno i poncho zuppi d’acqua, sono fradici fino al settimo chakra. Cominciamo a preoccuparci seriamente per lo zaino, a pochi centimetri dal livello dell’acqua che comincia a coprire l’asfalto. Ci rassicuriamo momentaneamente: “Beh dai, dovrebbe reggere… a meno che non finiamo proprio in un lago!”.
Ci finiamo subito, in pieno.
Da piccoli rivoli d’acqua minacciosi che sfioravano il fondo della carena, ci ritroviamo praticamente a guadare nelle rapide. Nota bene: solo la nostra carreggiata versa in condizioni pietose, le altre tre sono perfettamente asciutte e praticabili. Ci rincuoriamo che le poche nozioni di ingegneria di base assimilate per sbaglio dai progettatori abbiano dato almeno qualche frutto e continuiamo a procedere, imperterriti. Lorenzo guida con occhiali bagnati fuori e appannati dentro. È come giocare a strega di mezzanotte all’Acqua Fun.
Dati i presupposti, decidiamo di tentare una sosta di fortuna al primo posto che troviamo aperto: il Blora. Ci ristoriamo con un sate kambing (spiedini di carne di capra) e un ayam goreng (tranci di pollo fritto) davanti ad un controverso Mamma ho perso l’aereo in indonesiano, trasmesso dalla TV locale.
Controlliamo l’equipaggio prima di ripartire: per qualche miracolo divino, l’unica cosa ad essersi bagnata nello zaino sono gli asciugamani.

Ore 20.30
Chiosco di sate kelinci (spiedini di coniglio) in una località sperduta che suona come Tawangmangu
A parte la prima fase tragica sul Ringroad, la strada per Surakarta procede in modo abbastanza rapido e lineare con pochi disguidi. Tra quelli di spicco: code di camion-mostro dai clacson personalizzati lanciati a tutta velocità con carichi di terra e sabbia non coperti; acquazzone che continua ad imperversare a scrosci alterni causando continue soste metti-incerata togli-incerata alla Karate Kid; e buche. Ma sostanzialmente buche. La strada è composta da un 10% di asfalto e un 90% di crateri lunari.
Dopo un po’ ci diamo il cambio alla guida. Date le collocazioni dei bagagli, scatta di nuovo il terno a lotto su dove mettere i piedi. Lorenzo risolve distribuendo le gambe sullo zaino, io ci ripiego le ginocchia sopra modello sindhen, il che, considerato che vengo da due notti consecutive di teatro delle ombre (nove ore di inginocchiamento forzato fino all’alba) non è proprio il massimo.
Riusciamo ad attraversare tutta Surakarta evitando tutte le uscite per Wonogiri. Ce ne sono più di quante immagini, sicuramente più di quante ne servano. Dopo improbabili indicazioni su un rumah sakit (ospedale) inesistente e l’evidente preoccupazione del giovane che ce l’ha fornita quando gli spieghiamo il nostro itinerario, torniamo a Jalan Karanganyar. Secondo le indicazioni da noi scritte a penna sul mio diario dovremmo passare per il monte Lawu, ma non vi è traccia di segnaletica che lo nomini.
Poi peggiora, il buio ci coglie alla sprovvista. Siamo ancora su Jalan Karanganyar, secondo la tabella di marcia dovremmo già essere da qualche parte a rifocillarci all’aria fresca di montagna. Siamo in ritardo di ben sei ore e l’acquazzone non accenna a smettere.
Riusciamo ad imboccare una strada che conduce a Tawangmangu, località nei pressi del monte Lawu. Ci aspettiamo segni di civiltà man mano che ci avviciniamo e invece otteniamo solo più buio, più pioggia, ma soprattutto, più buche. L’ultimo tratto prima del cuore dell’agglomerato urbano è una serie micidiale di tornanti macabri nel cuore di folta vegetazione, non saprei dire di che tipo, dato che non si vede un tubo. Sicuramente, ci diciamo, stiamo costeggiando una qualche montagna, speriamo sia quella giusta. Io comunque continuo a guidare fiduciosa nonostante non veda a più di un metro dal mio naso.
Finalmente, dopo un losco bivio in agguato dopo una curva buia, sbuca Tawangmangu, che poi scopriremo essere una serie di warung (taverne) e resort disposti su una strada in salita. Non che ci aspettassimo Miami. Conveniamo di fermarci per una breve sosta ad un chiosco e controlliamo la mappa. Ci siamo messi in testa di arrivare al monte Lawu stasera, nonostante sia già buio pesto e tutti quelli a cui ci fermiamo a chiedere ce lo sconsiglino con espressione allarmata.
Informatori vari consigliano di continuare per una strada che si inerpica su per il centro abitato e scompare nel nulla. Dopo pochi chilometri in salita il motorino, lentamente, muore. Non che non ce lo aspettassimo. Non avendo altre opzioni disponibili lì, a quell’ora e con quelle condizioni atmosferiche, decidiamo di spingerlo in salita. Il problema è che la salita sembra non trovare fine. È tutta un’unica erta fino al monte Lawu. Intanto macchine e motorini sbucano dalle tenebre rischiando di travolgerci. L’unica soluzione, conveniamo, è quella di tornare indietro fino al bivio e tentare l’altra strada.
Per sicurezza, ci rifermiamo a chiedere informazioni ad uno dei chioschi che vende benzina in bottiglie di vetro (i primi tempi ero convinta che fosse limonata). La ibu (signora) ci dice che c’è un’altra strada, jalan baru, che significa letteralmente ‘strada nuova’, ma non sembra convintissima al riguardo. Continua a ripetere una parola che suona come: “Longsor”. Ci convinciamo che longsor sia una località da raggiungere o qualcosa di simile e ci rimettiamo in cammino. Quasi ce ne dà conferma l’uomo seduto ad un angolo del bivio a fumarsi una sigaretta nella calma più totale, avvolto nel suo sarung. Anche lui un tripudio di: “Longsor!”. Del tutto tranquillizzati e sicuri del da farsi, imbocchiamo l’ennesima strada buia e sinuosa, al cui imbocco sorge un minaccioso cartello giallo con scritte rosse che recita jalan tutup, ‘strada chiusa’. Noi ce ne freghiamo e continuiamo imperterriti, non si sa bene per quale ragione.
Il motorino arranca sempre più faticosamente nonostante la salita sembri meno ripida dell’altra. Se non altro la pioggia è cessata e la marmitta non emana più odore di pop-corn. In compenso, sale la nebbia.
Man mano che ci inerpichiamo il paesaggio diviene sempre più dantesco. Massi enormi spuntano brulli e minacciosi dal buio ammantato di vapore acqueo. Intorno non c’è assolutamente nulla, solo lucine in lontananza che ci fanno sentire ancora più lontani e dispersi. Una scavatrice inattiva sbuca dal ciglio della strada dopo una curva, parandocisi davanti come una creatura da bestiario medievale. Poco dopo, l’imbocco di un ponte di cui si scorge solo la cornice di travi in metallo appare come l’entrata dell’Inferno. Intorno solo nebbia, davanti il buio e oltre chissà.
Facciamo qualche altro metro tanto per non dire che non ci abbiamo provato ma ci blocchiamo immediatamente col fiato sospeso come scorgiamo gli enormi massi franati che ostruiscono la strada. Continuiamo ad andare avanti quasi per inerzia, il polso incollato sulla manopola dell’acceleratore, nell’angoscia che si fa sempre più vivida contorniata da mille pensieri: e se ricominciasse a piovere? La frana, i massi, la nebbia, il buio, siamo soli…
Mentre siamo ancora intenti a sfondare muri di tenebra e orrore senza criterio, il motorino, saggiamente, si spegne. Qualcuno doveva pur farlo.
Rimaniamo immobili nel silenzio totale, rotto solo da un rumore di acqua che scroscia, come fosse un ruscello, alla nostra sinistra. Non riusciamo a vedere oltre i nostri piedi, potrebbe esserci qualsiasi cosa, potremmo essere anche sull’orlo di un burrone per quanto ne sappiamo. Quando rinsaviamo, non ci pensiamo ulteriormente: è ritirata, all’unanimità. Facciamo retro-front in men che non si dica. Il motorino, quasi a darci la sua approvazione, ricomincia a funzionare.
Mentre scendiamo da quell’incubo cominciamo ad avvertire una strana sensazione. Io ormai la conosco bene, dopo più di un anno a Giava. Non è paura, angoscia o apprensione, è ‘qualcosa’ che è lì con noi. Alcuni luoghi parlano, e non sempre lo fanno in modo amichevole.
Quando ripassiamo davanti a massi su massi accatastati sulla nostra via come giganti dormienti, noto un altro cartello. Su questo c’è scritto chiaramente LONGSOR, con tanto di disegnino annesso. Lì avviene l’epifania joyciana:
LONGSOR = FRANA
In pratica abbiamo passato l’ultima ora a chiedere informazioni su come raggiungere una frana, in cima ad una montagna, in una notte di pioggia, con un 125 automatico.
Una volta tornati al buon vecchio centro di Tawangmangu ci piantiamo le tende. Entriamo nel chiosco di sate kelinci a riposarci e riscaldarci. Quando gli animi e gli stomaci si sono placati ripensiamo alla faccenda del longsor e cominciamo a ridere come matti, pensando a quanto dobbiamo essere sembrati idioti. Cominciamo a scherzare anche con la padrona del chiosco, che si fa due belle risate.
La vecchia TV, uscita da qualche secolo addietro, trasmette puntate del Mahabaratha in indonesiano, con dialoghi quasi più raccapriccianti degli effetti speciali. Quasi ci metteremmo a dormire lì sulle stuoie di bambù, ma vogliamo continuare fino ad una località meno sperduta in cui passare la notte. Così, mentre Duryudana sta avendo la meglio su Bima, ci rimettiamo strati di vestiti estivi inadatti al clima montano, le incerate (nel dubbio ce le teniamo addosso come una seconda pelle) e ci riabbarbichiamo sul povero Yamaha Mio, in direzione di Surabaya.