Karantina

Epilogo

«Casa, dopotutto, è dove sono i tuoi amici».

(Bruce Chatwin, Anatomia dell’irrequietezza)

Yogyakarta, 1° agosto 2020

Alle cinque del mattino di Lammas o Lughnassad, la festività gaelica del sole morente, rivolgo il mio ultimo saluto, pamit, al sole di Sewon che ha illuminato la mia lunga quarantena in questa parte di mondo e ordino un Gocar verso il nuovo aeroporto internazionale di Yogyakarta.

È uno dei tanti addii e delle tante partenze a cui ormai ho fatto l’abitudine durante questi sette lunghi anni di viavai transcontinentali, anche se questo è ben diverso dagli altri. Per la prima volta da quando vivo due vite parallele, la mia volontà oscilla nettamente verso il versante occidentale. Non vedo l’ora di tornare a ‘casa’, cioè al concetto di ‘casa’ che ho in Italia.

Chiudo per l’ultima volta il cancelletto del mio giardino, il patio è vuoto, l’amaca piegata in qualche tasca del mio zaino da viaggio, metto la chiave al solito posto per farla trovare ad una delle mie amiche che verranno a prendersene cura durante il mio periodo di assenza (settimane, mesi, anni? Chi lo sa) e congedo mentalmente ogni cosa e persona.

Un’oretta di tragitto tra palme e risaie lungo il corso del fiume Progo fa da tunnel di transizione spazio-temporale. Man mano che ci allontaniamo dal centro di Yogyakarta le memorie dei mesi passati si cristallizzano in piccole diapositive mentalmente riposte in uno dei più controversi cassetti nell’archivio dell’esistenza.

L’autista rimane miracolosamente e stranamente silenzioso lungo tutto il tragitto, non mi chiede da dove vengo, dove vado, che ci faccio in Indonesia, perché parlo indonesiano così bene e via dicendo. Ripongo il mio repertorio di risposte nel taschino e mi godo il paesaggio ed il passaggio. Sarà anche per il fatto che siamo divisi da plastica trasparente e bardati di mascherine, il che non invoglia proprio all’interazione sociale.

Alle sei e qualcosa faccio il mio ingresso trionfale nel nuovo aeroporto che appare una miniatura di Yogyakarta stessa. C’è tutto: una piccola oasi felice tra le montagne ed il mare, con architetture coloniali alla Malioboro e un muro di cinta bianco, il beteng, che protegge questo microcosmo del microcosmo, sul modello del kraton. È uno degli aeroporti più belli che abbia mai visto. Appena inaugurato, proprio sotto lockdown, non ha niente a che vedere con il precedente, Adisucipto. Certo, quello per me avrà sempre un valore simbolico, è stato lo stargate ufficiale dei miei viaggi spazio-temporali tra una patria e l’altra dall’ormai lontano 2013. Ma questo è qualcosa di meraviglioso. Un enorme kayon bronzeo si staglia maestoso nel mezzo del piazzale d’ingresso. In compenso Adisucipto sembra un ufficio postale nel mezzo di un mercato.

Contro ogni aspettativa, non c’è un’anima. Niente file interminabili, niente ressa, niente viavai. Sembra più un resort che un aeroporto.

Il sorvegliante mi invita a dirigermi verso il primo banco di controlli anti-Covid19. Una signorina dietro una cattedra controlla le mie lettere sanitarie dell’ospedale Panti Rapih e l’esito negativo del mio test sierologico e mi invita a scaricarmi l’applicazione EHAC che, dice, mi servirà per i controlli a Giacarta.

Procedo quindi verso il secondo banco controlli, altre due cattedre con addetti che si ripassano i documenti sanitari per apporci il timbro di convalida. Qui faccio un pochino di fila, giusto cinque o sei persone sedute ordinatamente su delle sedie a distanza di un metro e mezzo circa. Che è successo all’Indonesia?

Mi fanno qualche domanda sulla destinazione, rispondo fieramente e con convinzione: “Torno a casa”.

Alle 8.00 circa ho finito tutti i controlli, inclusa pausa bagno e giro fotografico dell’aeroporto. Ho l’aereo alle 14.45. Ho evidentemente esagerato con l’anticipo. Del resto, non avrei saputo cos’altro fare a casa, ho dato fondo alla mia scorta di incensi e ho impacchettato l’impacchettabile, sarei rimasta a solcare le piastrelle del soggiorno in un trionfo d’ansia e blatte.

Nel dubbio mi faccio qualche altro giro e documento tutto con l’Osmo Pocket. Rimbalzo tra un imponente soffitto, un’ampia vetrata vista mare-monti e la confortante musica gamelan diffusa dagli altoparlanti della toilette, per poi gettare la spugna e piantare le tende nell’unico Cafè aperto.

Mi piazzo tra due sedie transennate, metto in carica tutto il caricabile e mi tuffo nella lettura. Due cappuccini e un tè nero dopo sono al banco check-in. Alle 11.45 il mio zaino da 21 chili che pesano come 40 scompare dietro il rullo, lo rivedrò a Giacarta.

I controlli d’ingresso al Gate sono più veloci di quelli per il Covid19. A chi vuoi che importi se hai un’arma? Purché tu non sia positivo. Sono cambiate alcune priorità.

Continuo i giri di ricognizione tra i Gate deserti fino ad un post-apocalittico Terminal Domestik, tra murales a tema wayang, Prambanan e Kotagede sui muri bianchissimi e lunghi viali pieni di lampioni come una ricostruzione plastica del centro cittadino. È una sorta di Truman Show indonesiano.

Selamat pagi, selamat sore dan selamat malam

Buongiorno, buonasera e buonanotte

Trovo il mio approdo su comode poltroncine di fronte all’ennesima enorme vetrata con panorama da cartolina fuori, a fianco all’area bambini in cui troneggia un enorme scivolo a forma di aeroplano.

Tento di godermi un po’ di sole e silenzio ma vengo interrotta ogni cinque minuti dagli inquietanti annunci che ricordano con voce metallica di indossare mascherine e tutto il resto dei rischi legati al Covid19. Sembra un’esercitazione militare o qualche simulazione antincendio.

A salire sull’aereo saremmo in quindici in tutto. Mentre ampar ampar pisang ci dà un festoso benvenuto dagli altoparlanti, prendo posto a due sedili di distanza da una tipa che comincia a tossire come un’ossessa.

Continuerà a farlo per tutto il viaggio.

Sono talmente allarmata che mi scordo pure di farmi il solito pianto al decollo.

Quasi mi compiaccio di avere imparato ad essere meno sentimentale, quando vedo dal finestrino due assistenti di volo sulla pista che salutano il nostro pilota a mani giunte con un inchino. Lì non resisto più, e via agli scrosci monsonici nei condotti lacrimali.

Mentre l’aereo si alza sul mare di Roro Kidul le porgo un ultimo saluto. Ne ho uno anche per il Merapi che sbuca dalle nubi bianche assieme ad altre decine di coni vulcanici di questa isola folle.

La tizia a fianco a me è ancora un tripudio di starnuti.

Le hostess in batik e kebaya colorati passano a distribuire le lunch-box in cui da sette anni a questa parte trovo il rassicurante panino con pollo e cocco, il pacchetto di noccioline la mini bottiglia d’acqua.

Quando Yogya è ormai lontana mi asciugo le lacrime, la mia vicina si soffia il naso, e l’ennesima avventura indonesiana può dirsi conclusa.

L’atterraggio a Giacarta è inconfondibile. L’aereo buca la coltre di grigiume pesante e tetro come una vecchia coperta fumosa, parte suwe ora jamu, e “grazie per aver volato con noi, ma ricordatevi che il Covid…” e via dicendo.

Passo i controlli Covid19 molto più velocemente che a Yogyakarta, ma soprattutto molto più velocemente di quanto mi aspettassi, basta uno screening al codice dell’applicazione EHAC e via, sono qui a godermi altre sei interminabili ore di transito e angoscia.

Il bagaglio ci mette una vita ad arrivare. Rimbalzo inutilmente dal rullo 9 al 10 al 14 perché ogni inserviente ha una sua propria idea che non può esimersi dallo spacciarmi come assoluta e decisiva.

Finisce che dopo più di un’ora a fare la staffetta tra i rulli adocchio il mio zaino buttato in un angolo, lo acchiappo senza farmi troppe domande e tento di trovare un modo per salire al terzo piano, cioè il Terminal dei voli internazionali, con uno zaino da 20Kg, un mini trolley, uno zainetto, una borsa e altre cianfrusaglie che non so dove mettere, senza l’uso dell’ascensore. Chiuso per Covid. Finisce che mi faccio tre piani di scale mobili rotolando, trascinando e issando cose.

Entro nell’area internazionale madida di sudore e con pezzi di bagaglio sparsi ovunque.

Cerco subito il tabellone delle partenze e mi prende un colpo: a fianco alla lista dei voli pomeridiani c’è una sfilza di CANCELLED. Il mio è a mezzanotte, il che significa che dovrò aspettare almeno le nove di sera per vederlo comparire. Sono appena le cinque.

Roulette russa a Giacarta

Comincio a sentire l’ansia che si appropria di ogni fibra del mio essere e decido che devo trovare qualcuno a qualche banco informazioni, ma a parte me e altri pochi viaggiatori in pena buttati qua e là non c’è un’anima. Perfino i negozi e i ristoranti sono tutti chiusi.

Passo due o tre ore tra inutili giri di ricognizione, controllo compulsivo dello schermo che continua a sfornare voli cancellati, tentativi di approcci falliti con altri viaggiatori che ne sanno meno di me e consumo compulsivo dei dolcetti al durian che avrei voluto portare a casa come souvenir ma che sono l’unico cibo che vedrò da qui a quando prenderò il volo, se lo prenderò.

Verso le otto faccio conoscenza con un tizio francese che riesce a tracciare il volo su non so che applicazione e mi conferma che non è cancellato, almeno finora.

Resuscitando dall’annebbiamento dell’ansia mi accorgo anche che uno dei Fast Food è aperto, ma non riesco ad ordinare altro che una tazza di camomilla.

Alle 22.00 mi metto in fila per l’imbarco… sbagliato. Ci sono solo due voli attivi in tutto l’aeroporto, ma io riesco lo stesso a non azzeccare il mio. Dopo dieci inutili minuti di fila tra gente diretta ad Abu Dhabi e dopo l’imbarazzante figura con l’assistente al banco, mi metto nella fila giusta.

Passo gli ennesimi vacui e distratti controlli per i Gate con una notevole dose di calma in più. Ce la sto facendo davvero.

Inutile dire che l’area Gate è ancora più buia e desolata che mai. Mi metto seduta in attesa davanti all’ennesima vetrata, stavolta con la pista buia fuori, e mi rendo conto che sono sveglia dalle cinque del mattino, ho viaggiato una giornata intera e ancora non ho lasciato l’Indonesia.

Prima dell’imbarco uno stuart della Qatar Airways passa a distribuire a quei pochi passeggeri buttati sulle poltroncine (saremmo una ventina in tutto) degli schermi in plastica protettivi, che si raccomanda di indossare per tutta la durata del volo. Sto per sentirmi male, attendevo questo volo di dieci ore solo per farmi una sana dormita, tra l’altro con tutti i sedili a disposizione date le norme sulle distanze di sicurezza, ma non credo che sarà facile soffocata sotto mascherina e strati di plastica.

Come previsto, dormo poco e male. L’unica possibilità di rimuoversi quell’affare dalla faccia è mangiare o bere, dunque continuo ad ordinare compulsivamente bevande e snack, che consumo davanti all’intera filmografia del velivolo.

L’aeroporto di Doha è come al solito lussuoso e familiare e mi riporta indietro di mesi, come non fossi mai uscita dalla frazione di mondo che conta sull’asse economico. Qui di viavai ce n’è fin troppo, negozi aperti, gruppi di gente seduta ai tavolini di bar e ristoranti, famiglie con mucchi di prole e bagagli al seguito, coppie in vacanza. La mia testa mi dice che non è mai successo niente, non sono mai partita, il Covid19 non c’è mai stato e questi dieci mesi in Indonesia sono stati un’enorme allucinazione, quarantena compresa. Il che avrebbe quasi senso.

Un’altra hostess della Qatar ci pensa subito a riportarmi alla realtà consegnandomi l’ennesimo schermo di plastica. E niente, mi bardo di nuovo come Goldrake e salgo sull’ennesimo aereo semivuoto, pronta alle ultime cinque o sei ore che mi separano dall’agognata meta.

Le dormo tutte stramazzata sui sedili, totalmente K.O.

Mi sveglio con lo schermo di plastica conficcato tra il lobo sinistro e la trachea, l’elastico tutt’uno con le mie doppie punte, aggrovigliato in un pastrocchio irremovibile, la mascherina che copre branchie invisibili sul retro del mio collo, il cuscino portatile da qualche parte sotto il sedile.

Quando sento “Roma-Fiumicino” dall’avviso ai passeggeri mi si riempie il cuore, siamo arrivati.

Finalmente possiamo levarci gli scudi galattici e passare dritti e sicuri nella fila Passaporti UE (almeno noi italiani, cioè il 90% dei passeggeri). La signora dietro al banco immigrazione mi chiede dove passerò la quarantena. Con gli occhi che luccicano affermo: “A casa di mio padre, in Abruzzo, a Santo Stefano di Sante Marie”, aspettandomi altre diecimila domande. Lei mi guarda sorridendo e mi dice quasi nostalgica: “Santo Stefano… saranno cento abitanti, che pace…”. Ricambio il sorriso con gli occhi e le porgo il passaporto. Mi congeda con un “Mi raccomando avvisi la Asl locale, e bentornata”. Qualche minuto dopo varco la soglia di uscita e trovo un cartello giallo a ribadire il concetto:

“BENTORNATO A CASA!”.