«Ma fino a quando? Aveva fatto sapere da tempo ai suoi genitori che per il Lebaran non sarebbe tornato a casa perché il biglietto costava troppo e aveva promesso che sarebbe tornato qualche mese dopo, forse per il Lebaran Haji, la festa del sacrificio, ma neanche di quello era sicuro».
(Feby Indriani, Non è mica la Vergine Maria)
Yogyakarta, 30/07/2020
Ore 1.36 del mattino
I muri della mia stanza appaiono spogli, vuoti, come il vano di un hard disk al quale sia stata azzerata la memoria.
Io non riesco a dormire dopo due mesi di sonno regolare prima di mezzanotte e sveglia alle otto del mattino. Una sensazione strana e familiare, quasi autolesionisticamente piacevole, che mi riporta ai primi tempi della quarantena.
Fuori, echi di cacofonie si accavallano a creare il solito tappeto lagnante. Il soundtrack della moschea è qualcosa che amalgama il tempo in modo inesorabile. È agosto, ma è come se maggio fosse ancora qui dietro col fiato sul collo. l’Idul Adha – la festa islamica che domani vedrà lo sgozzamento di bovini e ovini nelle moschee in anacronistici massacri da pubblica piazza – non sembra altro che un sequel dell’Idul Fitri. Anche se questo, tecnicamente, è ormai lontano anni luce, sia temporalmente che emotivamente.
Eppure, qualcosa è cambiato, sto tornando a casa.
Domani mattina, mentre nessuna pioggia laverà le pozze di sangue delle povere vittime perché la stagione dei monsoni è bella che andata da un po’, io sarò in viaggio verso il nuovo aeroporto internazionale di Yogyakarta (YIA, che da solo sembra un incitamento), con un biglietto di sola andata per l’Italia, quattro lettere che attestano che io sia negativa al Coronavirus, e poche cianfrusaglie inzeppate nei bagagli alla meno peggio. Come al solito tutto quel che rimane di un anno che a raccontarlo ci vorrebbe una serie fantasy di almeno otto stagioni.
Come al solito, piangerò quando l’aereo si solleverà dalla pista di atterraggio e io mi ritroverò Yogya a qualche centinaio di metri sotto i piedi, con tutto quello che c’è stato e quello che ha rappresentato. Ma sarò anche, come al solito, rincuorata dal fatto che lei ci sarà sempre, sarà qui ad aspettarmi immutabile e accogliente come una scatola del tempo foderata di rattan e distopici ricordi. Il mio sicuro mondo parallelo.
Ho sognato questo rientro per mesi e, proprio quando avevo perso le speranze, eccolo qui, un volo della Qatar Airways per Fiumicino, che cade preciso il primo Agosto. L’inizio di un nuovo mese, di una nuova fase di vita, marcato oltretutto da una ricorrenza religiosa, con tanto di vittime sacrificali annesse.
Jual Korban (“Vittime in vendita”).
Qorban Hebat (“Vittime convenienti”).
Berkurban dari rumah aja! (“Sgozza rimanendo a casa!”).
Sto rimpatriando in un tripudio di stragi legalizzate e pandemie. Non si può dire che non sia un’uscita trionfale.
Questo New Normal o Nuovo Normale, normale non lo è stato per niente.
Ho trascorso gli ultimi due mesi dalla riapertura – oltre che a sperare di tornare a casa, a pensare di tornare a casa, a pensare che forse no a casa non ci sarei tornata e a pensare che qual è casa? – ad anestetizzarmi in una serie di routine rimbalzando tra quelle poche attività che potevi fare anche se sì, MA, FORSE, “stai a casa”, “osserva la distanza”, e via dicendo.
Il kraton la mattina, ma senza gamelan. Solo passeggiate sporadiche tra le mura silenziose in abiti da cortigiana con la scusa di fare qualche ricerca in biblioteca. Il muay thai il pomeriggio, a tirare calci e pugni al destino infausto incarnato momentaneamente nel mio povero istruttore. Rimbalzare tra i tre Cafè di fiducia – tremendamente desolati – nel tempo libero, a dedicarmi finalmente ai miei articoli, accademici e non (il benedetto Blog!) come avrei dovuto e voluto fare sin dal primo giorno di quarantena.
Le gite domenicali, l’Hyatt, Prambanan, Borobudur (vedi Pandemic Edition) il Merapi, Parangtritis, i santuari e i cimiteri luoghi di culto dei giavanesi più devoti. Tutto con le mascherine, le restrizioni, i pentimenti e i rimorsi del caso. Non mi sono fatta scappare nulla. Ho dato fondo a tutto ciò che potevo, ho rivoltato questa città come un calzino. Ma comunque, il senso di vuoto e i solchi delle ferite inferte dalla quarantena sono duri da rimarginare.
Non ho più cantato kroncong. Per ironia della sorte, ho ricevuto il primo ingaggio post-pandemico l’11 agosto, quando sarò già in Italia.
Porterò con me il ricordo di quell’ultimo sabato di marzo alla Omah Kecebong, a ridosso del mio trentunesimo compleanno, quando cantavo spensierata nel mio kebaya bordeaux ignorando ancora tutto quello che sarebbe accaduto nei mesi a venire. Porterò anche con me il ricordo dei videoclip che ho girato fai da te durante i picchi di creatività della quarantena, improvvisandomi compositrice, arrangiatrice, chitarrista, cantautrice, regista, editor, fonico e produttore. E porterò con me i dieci quadernetti pieni di testi delle canzoni che ho studiato. Questi li porterò fisicamente, se ne sente tutto il peso nel bagaglio a mano.
Nel frattempo la cara Indonesia ha raggiunto 106.000 casi. Ormai è nella top 20 mondiale, mentre l’Italia è scesa, se allungano una mano tra Canada e Argentina quasi si toccano. Non so quale sarà il destino prossimo di questo paese, so solo che è tempo di andare.
Non sembra vero, sembra surreale, come tutto quello che è successo in questi mesi, alla fine dei quali mi ritrovo di nuovo qui, sola nella mia stanzetta a Sewon, solo un po’ più spoglia e nostalgica, a rintronarmi di “Allah Akbar” stonati alla luce fioca della mia lampada da poco.
Le valigie di fronte a me sono un dato di fatto.
Ciononostante, ho ancora paura. Paura che succeda qualche imprevisto al volo programmato o che non abbia uno dei diecimila documenti necessari in regola. Ho ancora incredulità che io stia tornando a casa davvero, dopo tutto. Ho comunque e sempre un senso di melanconia misto ad un’ansia feroce che accompagna le mie partenze da questo posto. L’incertezza di se, come e quando tornerò, anche se tecnicamente già so che a novembre dovrei essere qui di nuovo per estendere il permesso di soggiorno. Ma novembre sembra così lontano, un altro mondo, un altro tempo, un’altra storia.
Tutte le pagine di articoli di Blog, di racconti, romanzi, diari, non bastano a racchiudere tutte le mie sensazioni e tutti i miei ricordi. A volte dubito persino che siano veri.
Non ho il coraggio di andare a dormire e risvegliarmi nel mio ultimo giorno qui, anche se tecnicamente è già domani, e domani è già oggi, e dopodomani, del resto, è da qualche parte in qualche galassia che boh.
Tra due giorni mi sveglierò davvero in Italia e non per finta, come tutte quelle volte che l’ho sognato, non capendo mai se fosse un sogno di speranza o un incubo di incertezza.
Anche quest’anno, anche questa volta, il mio tempo qui giunge ad un termine e porta con sé dieci anni, dieci volte, dieci vite.
Forse metabolizzerò tutto con calma e rimpiangerò ogni singola cavalletta dal fondo della mia comoda vasca colma di acqua calda col telecomando della TV in mano e la pizza in forno. Sicuramente riguarderò i video, le foto, farò viaggi spazio-temporali e piangerò a dirotto. Ma per ora va bene così.
Le voci della moschea vanno verso l’esaurimento spegnendosi in un fioco e monotono tappeto di cantillazione, le ore avanzano e il cuore della notte pulsa intenso e grave.
Una parte di me vorrebbe disfare i bagagli e dire: “Fermi tutti, il mio posto è qui”. Ma l’altra sa che non è così, che la catena di incantesimi in questo vortice atemporale che questa città mi crea ogni volta inesorabilmente va spezzata, lasciandone un capo bene in vista da riprendere al momento opportuno.
Alle due e mezza del mattino accendo una manciata di incensi al champaka e do il mio congedo mentale a questa città per l’ennesima volta, in attesa del congedo più difficile, quello fisico.
A conti fatti, sono contenta di andarmene ora, dopo aver riassaporato piccoli assaggi di Normale, ed essermi scrollata di dosso la tremenda Yogya paralizzata dei mesi pandemici, monsonici e ramadanici.
I ricordi della quarantena sono sempre più fiochi e distanti, l’Italia più nitida e vicina. Ho rotto definitivamente un’amicizia di sette anni ma ne ho guadagnate di nuove e sono pronta a guardare al futuro. Ho raccolto materiale per altre dieci ricerche dottorali che so che userò a stento perché la mia vera ricerca qui è una ricerca di tipo molto più intimo e personale.
Nessuno può capire il mio legame con questa città, solo noi lo sappiamo, ci comprendiamo.
Ciao Yogya, ci rivedremo presto, e chissà in quale romanzo di fantascienza mi catapulterai la prossima volta.
Matur Sembah Nuwun